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Conceiçao Milan
, 9 Gennaio 2025

Sergio Conceiçao ha ribaltato il Milan in 7 giorni


In appena una settimana al Milan, Sergio Conceiçao ha conquistato un trofeo e un popolo.

Gli occhi lucidi in un misto di febbre (i 38 gradi corporei lo accompagnano dal primo giorno di ritiro a Ryadh) e commozione; il cerotto applicato su una caviglia resa sanguinolenta da un intervento killer di uno dei suoi uomini (Emerson Royal) durante i festeggiamenti; il televisore che - come rivelato da Ibra - ha spaccato nell’intervallo, in preda alla rabbia per l’ingenuo gol subito dai suoi; infine, quel sigaro fumato nel glorioso balletto post-partita, circondato dal tripudio festante dei compagni che ha guidato alla vittoria.

Quando si parla di Sergio Conceiçao, scadere nella retorica del condottiero è una tentazione a cui è difficile resistere. Ci sono politici che impiegano mesi di comizi, campagna elettorale e ospitate televisive pur di accaparrarsi i favori del loro popolo: il nativo di Coimbra, per conquistare il suo, di popolo, riuscendo nell’impresa di risvegliarlo da un torpore depressivo che durava ormai da più di un anno, ci ha messo appena sette giorni, diventando l’allenatore che ha impiegato meno tempo per vincere un trofeo nella storia del Milan. Altro che battesimo di fuoco. 

Il Milan che, la sera del 29 dicembre, dopo l’ennesima partita insignificante contro la Roma, decide di cambiare allenatore, è un club in preda alla contestazione. Quest’estate, ormai è evidente, si è sbagliato tutto. I risultati, prevedibili, non sono stati altro che l’ovvio specchio di una cattiva gestione di cui Paulo Fonseca rappresentava solo la punta dell’iceberg: il pesce puzza sempre dalla testa. Fonseca, da subito, è stato lasciato solo da una dirigenza troppo inesperta e assente, che soprattutto nei momenti più delicati -si pensi ai giorni pre-derby, quando Paulo sembrava un dead-man walking- non ha saputo supportarlo, e ha lasciato che, in piena preparazione per una partita delicatissima, l’attenzione mediatica si concentrasse sui possibili successori del portoghese.

Soprattutto, la dirigenza paga la colpa di non aver mai legittimato il suo allenatore agli occhi di un gruppo che, sin dalle prime battute, ha deciso di non seguirlo. Allora, Fonseca si è ritrovato forse costretto a un pugno duro che non è nelle sua natura: dal cooling break di Roma alle esclusioni, prima Rafa e poi Theo. Scelte autoritarie, forse, visti i risultati, non supportate da una sufficiente autorevolezza. Tuttavia, per quanto il portoghese abbia senz’altro avuto le sue ragioni - Theo e Leão sono personalità, diciamo, particolari - la sua priorità inderogabile doveva essere quella di compattare il gruppo attorno a sè, creando un’unità di intenti capace di isolare la squadra dalla confusione dirigenziale. Al contrario, il gruppo se lo è inimicato, e non può essere esentato da colpe. 

Ha sbagliato soprattutto nel non riconoscere il peso diverso che alcuni giocatori hanno in un gruppo, rimanendo fedele a un mantra-harakiri: “Leão per me è uguale a Musah, a Loftus Cheek”, ha ribadito più volte. Ieri, Rafa Leão, con un solo allenamento nelle gambe nelle ultime tre settimane, è entrato e ha spaccato in due la finale, propiziando la punizione di Theo, lanciando lo stesso Theo sul 2-2 e servendo un cioccolatino ad Abraham dopo un attacco della profondità furioso (qui Fonseca ha i suoi meriti) in zone centrali. Rafa è diverso dagli altri.

È proprio in questo che Conceiçao sembra aver vinto: in soli sei giorni, ha già conquistato il suo gruppo, a partire da Rafa e Theo. Theo, uno spettro da inizio campionato, ha fatto senza dubbio la miglior partita stagionale: è tornato a vivere con pathos gli eventi, se le è date con Dumfries ed è stato determinante con le sue falcate finalmente ritrovate. Nel post-partita, è stato catturato durante i festeggiamenti in un abbraccio liberatorio e appassionato con Conceiçao: riuscite a immaginare la stessa scena con Fonseca?

Rafa, dopo la partita, ha speso parole al miele per il suo allenatore: “Ci ha dato una grande energia. È incredibile quello che ha fatto in poco tempo”. Lo stesso ha fatto Conceiçao, che è sì un sergente di ferro, ma sembra aver capito che ragazzi come Rafa vanno coccolati: “È un fenomeno. Può diventare il migliore al mondo”, ha detto in riferimento a Rafa. Jorge Mendes si starà sfregando le mani di fronte all’amoreggiare dei suoi due piccioncini. 

Il primo impatto del nuovo allenatore è stato vincente, a partire dallo stile comunicativo: Conceiçao si è presentato con un italiano perfetto (a differenza di quello un po’ zoppicante di Fonseca) ma, soprattutto, sin dalle prime uscite ha dato una netta sensazione di carisma e autorevolezza: idee chiare e pensiero limpido, dritto al punto. Tale sensazione di spessore è arrivata chiara e netta non solo ai giocatori, ma anche ai tifosi, che in estate invocavano un profilo simile a quello dell’allenatore del Porto per la panchina.

L’Inter aveva appena alzato la seconda stella in faccia al Milan: un buon tattico come Fonseca non poteva bastare. Serviva un condottiero, preparato a livello tattico - mancherebbe altro - ma anche e soprattutto capace di avere presa immediata su un gruppo privo di leader e abitato da tanti caratteri umorali. Serviva un uomo capace di caricarsi tutta la piazza sulle spalle, senza il bisogno di un supporto esterno che, nel caso del Milan, non si capisce bene da chi possa arrivare. Una missione troppo grande per Fonseca, ma cucita su misura per Sergio Conceiçao.

Dopo anni di derby persi e trofei vinti dall’Inter, il Milan aveva bisogno di un cambio di DNA, o meglio, di un ritorno al vecchio Milan Casciavit della tradizione dei Nereo Rocco, quello da battaglia operaia. Conceiçao, da comunicatore furbo e smaliziato, si è subito presentato in opposizione alla tradizione -più ideologica che reale - dei "giochisti": “Per me il Tiki-Taka è buttarla dentro. Il resto non mi interessa”, ha dichiarato nella sua conferenza di presentazione. Parole che lo hanno da subito distanziato dallo stile comunicativo dei Giampaolo o di Fonseca stesso, che rievocavano nella ricerca del “bel giuoco” di marca berlusconiana i fasti di un’epoca che, oggi, per il Milan, appare molto lontana.

https://www.youtube.com/watch?v=niaHc8xmJ0k&ab_channel=PianetaMilan

Chi non si adatta al proprio tempo, è destinato a farsi soffocare dal tempo stesso. Al contrario, il calcio di contrapposizione dell’ex Porto, da sempre abile a individuare i punti deboli dei suoi avversari in modo da rendergli la vita un inferno grazie all’organizzazione ferrea delle sue squadre (si pensi alla sfida in Champions contro il Milan di Pioli o l’Inter di Inzaghi), può riaccendere il fuoco sacro di un popolo da mesi scivolato in una rassegnata apatia. 

Sarebbe poco serio tentare di desumere indicazioni tattiche sul nuovo Milan da un campione di due sole partite, specie se preparate in appena cinque giorni, ma qualcosa di nuovo, nell’approccio in campo, si può già riconoscere. Se contro la Juve, dopo una partita povera di occasioni, Conceiçao ha dimostrato di essere capace di ribaltare i suoi nell’intervallo, scaturendo una reazione di nervi dei rossoneri nella parte centrale del secondo tempo, e rivelandosi un po’ fortunato - qualità, lo diceva Napoleone, decisiva per un bravo generale - le vere indicazioni le ha date il derby.

Nel primo tempo, il Milan è stato corto nella disposizione dei reparti, compatto e ben organizzato nell’impedire all’Inter la consueta raffinata costruzione di gioco dal basso, specie sul lato sinistro: per farlo, Musah usciva in pressione sul braccetto sinistro, con Jimenez che scalava su Dimarco e Emerson che spesso si occupava della mezzala di sinistra (salvo rotazioni, Mkhitaryan). Per la prima volta, ben più che nel derby già vinto con merito da Fonseca, il Milan è riuscito a non soffrire le tipiche triangolazioni tra Bastoni-Mkhitaryan e Dimarco che, in tanti derby, liberavano il laterale italiano a un cross, per poi trovare spesso un uomo a rimorchio pronto a ribadire in rete.

I rossoneri si disponevano in un 5-4-1 in non possesso, con Jimenez che scivolava sulla linea dei quattro per occuparsi di Dimarco. Una volta riconquistata palla, pochi fraseggi fini a se stessi e meno controllo (mantra per il calcio posizionale di Fonseca); al contrario, verticalità esasperata: il miglior modo per esaltare le qualità della rosa.

Quando poi l’Inter si è allungata nel secondo tempo, specie dopo il 2-1, il Milan è andato a nozze con l’andazzo tennistico della partita. L’azione del secondo gol è la quintessenza della qualità di questa squadra, il manifesto della sua capacità di creare pericoli in campo aperto: Maignan scarica palla su Theo, che la restituisce a Leão e inizia a correre in verticale; la palla di Rafa è perfetta, Theo in corsa può dosare il cross in piena tranquillità: Abraham attacca il primo palo, Pulisic va a rimorchio per il classico cut-back, il controllo è perfetto, il mancino si deposita all’angolino. In pochi tocchi, il Milan va in porta. Dall’altra parte c’è una delle difese migliori d’Europa, ma quando c’è campo da attaccare, il Milan dà un ineluttabile senso di onnipotenza.

L'azione del 2-2 di Pulisic

Poco prima del 2-2, Conceiçao, da molti pigramente ridotto ad allenatore difensivista, ha avuto parecchio coraggio: ha inserito Loftus-Cheek e Abraham, passando a un vero e proprio 4-2-4. Ed è stato premiato. Ne è nata una battaglia di transizioni, con attacchi da una parte e dall’altra, forse, per caratteristiche, la partita prediletta dal Milan negli ultimi anni. A Conceiçao, l’arduo compito di ovviare all’aridità offensiva di una squadra che, quando si compatta in fase difensiva, fatica poi a produrre occasioni e viceversa, quando passa alla strategia d’assalto, si scopre troppo e perde equilibrio. Nel frattempo, in soli sei giorni, l’hombre vertical portoghese ha innescato un’impensabile ribaltone “copernicano” nel mondo Milan. 

Ora, però, arrivano le sfide ancora più difficili. Si sa: il calcio vive di frenesia, cambi di umore che si alternano a ogni piè sospinto e sentenze che, di partita in partita, finiscono col ribaltarsi a seconda del risultato finale. Il Milan è stato finora un paziente affetto da disturbo popolare: incapace di stabilizzarsi in modo continuo, perennemente sobbalzato tra picchi di euforia celestiale (i due derby, la notte di Madrid) e i tanti tonfi in campionato, che come un vuoto d’aria costringono la squadra ad abbassare la quota delle ambizioni stagionali.

I condottieri più abili non temono lo spirito dei loro uomini nelle occasioni più importanti, quanto in quelle battaglie in apparenza marginali che, a conti fatti, si rivelano poi decisive. Sabato col Cagliari in casa, o Martedì a Como, si misureranno i reali effetti di una possibile svolta del Milan, chiamato a trovare stimoli non più solo nelle serate di gala che si attendono con impazienza e fibrillazione, ma anche in quelle partite simili ad uscite tra amici più abitudinarie, quando le prospettive non sono granché, ma sono comunque le più frequenti: sono la quotidianità.

È con l'ordinarietà del quotidiano che il Milan deve imparare a convivere. Pensare di poter viaggiare solo ad alta quota, in uno sport che ormai si pratica ogni tre giorni, è un'utopia dannosa. L’avventura di Sergio Conceiçao al Milan è iniziata col botto: ma grandi inizi comportano grandi responsabilità. È l’inizio di un film a dettarne i parametri; per questo, un avvio scoppiettante può essere un’arma a doppio taglio: se il resto dello svolgimento non si rivela all’altezza, il tonfo è fragoroso. All’ex Porto, uomo-immagine di un nuovo Milan pronto a plasmarsi a sua immagine e somiglianza, l’arduo compito di tenerci tutti attaccati allo schermo lungo il cammino: giocatori, tifosi ed appassionati. Le nubi nere e le incertezze avvolgono ancora il clima milanista, ma le intemperie, anziché spaventarlo, sembrano fortificare la scorza di Sergio Conceiçao. Come lui stesso disse in una recente intervista: “Grandes conquistas têm de ser na turbûlencia”


  • 23 anni. Studia Filosofia, ama il Calcio e il Cinema, fonti inesauribili di storie.

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