“La stanza accanto" è un film sul canto degli uccelli
A settantacinque anni Pedro Almodóvar ci mostra qualcosa sul corso della vita.
La stanza accanto, ora nelle sale italiane, è il nuovo film di Pedro Almodóvar (regista spagnolo di tanti capolavori) e - si può scrivere senza temere contraddizioni - ruota intorno al senso di quello che facciamo, della sofferenza e della sopportazione e, soprattutto, riflette sulla morte. Il lungometraggio di Almodóvar è, inoltre, ispirato al libro Attraverso la vita di Sigfrid Nunez, e ha già ottenuto il Leone d’Oro 2024 a Venezia. La pellicola si serve principalmente di due donne: Martha (Tilda Swinton) è molto malata e riesce a ostentare sicurezza nelle proprie scelte, sicuramente discutibili, mentre Ingrid (Julianne Moore), che si fa sentire come presenza a supporto dell’amica, non fa altro che ragionare sulle debolezze e sulle fragilità umane. La situazione, poi, si intensifica quando le due si isolano dal resto del mondo, scegliendo di vivere nella stessa casa. È una trama che, scritta così, sembra rispecchiare il celebre Persona di Ingmar Bergman. In realtà, nell'opera di Almodóvar assistiamo a tutta un’altra cosa.
Più concretamente, Martha è una malata terminale colpita da un tumore al terzo stadio, e scopre di avere ancora poco tempo. È stata una reporter di guerra e ha pubblicato svariati libri, ma ora si sente consapevole delle scelte prese durante la propria esistenza: sa anche di aver fallito come madre. Dall’altra parte, invece, l’amica Ingrid non ha mai messo su una famiglia ma, di tanto in tanto, si riserva la compagnia di Damian (un John Turturro sicuro e magistrale). Nella vita, è stato il lavoro di scrittrice a portarla lontano e a costringerla ad allontanarsi da casa. La richiesta di poter vivere sotto lo stesso tetto, avanzata successivamente dall’incurabile Martha, fa in realtà parte di un piano che comprende le ultime volontà della donna. Di più non vogliamo riportare per evitare di svelarvi ulteriori dettagli.
Vi sveliamo, però, che è un Almodóvar diverso da come lo ricordate. Sulla scia di Strange Way of Life (2023), l’autore castigliano sembra essersi “americanizzato”. Addirittura, Almodóvar si riserva di indagare sui grandi conflitti americani (le guerre in Vietnam ed Iraq), sui contrasti generazionali, sulla crescita personale e sul desiderio umano, e naturalmente riflette sulla malattia. Si serve, poi, dell’insospettabile forza del ricordo e fa sua la narrazione biografica: in questi concetti, tutto riecheggia il tardo Philip Roth, lo scrittore più “americano” degli ultimi cinquant’anni. Il paragone tra Almodóvar e il Roth degli anni duemila, quello ossessionato dalla morte, viene semplice: infatti, già nel primo minuto di film viene mostrata Ingrid che firma le copie del suo ultimo libro e che ammette di averlo scritto - sono le sue prime parole nella pellicola - perché “non sopporta l’idea della morte e, anzi, ne è terrorizzata”.
È qui che, già all’inizio, il pensiero di una donna adulta che vive nel timore della morte e che ne scrive un libro a riguardo, in effetti, appare curioso. Generalmente, si pensa che, come i bambini che crescono e diventano più forti, si impari un po’ a sopportare il dolore, ma evidentemente non è così. L’evento finale della vita, secondo altre parole di Ingrid, è “speciale” e non può fare parte davvero dell’esistenza: viene considerato qualcosa di estraneo e, pertanto, non viene accettato. Così, la narrazione di La stanza accanto si compone di eventi insopportabili e quindi straordinari (non solo la morte è eccezionale, ma anche la malattia o il pessimo rapporto tra madre e figlia) che, però, non vengono visti come interni alla “vita”. Sembrano essere di un’altra consistenza, vengono presentati come fattori estranei alla nostra esistenza, diversamente da come la pensa Roth. Infatti, se da una parte l’everyman dello scrittore americano è fin troppo cosciente delle sofferenze e avverte già da bambino la presenza incombente della morte, è l’uomo di oggi ormai costretto ad abbracciare un dolore immancabile per tutta l’esistenza, dall’altra c’è Almodóvar che, invece, ci proietta delle donne che non sanno accettare la sfida contro le sofferenze.
Per quanto riguarda le scelte in regia, c’è un Almodóvar meno eccentrico del solito a guidare dei movimenti di macchina che sanno stringere o allargare poco sullo schermo, ma che pure restano costanti nelle loro oscillazioni. La fotografia, invece, sempre più opaca, rende i capelli rossi di Julianne Moore progressivamente più marroni e, poi, si sposa benissimo sul volto luminoso di Tilda Swinton. L’interprete britannica è, infatti, un’attrice unica con quel suo volto così singolare, ed è facile capire perché un autore come Almodóvar, che fa delle simmetrie e delle asimmetrie fisiche la propria poesia, possa averla voluta nel proprio progetto. È bellissima, a proposito, un’inquadratura che riprende le due donne distese sul letto, una più vicina e l’altra più indietro, che sovrappone con grande semplicità la metà dei due visi schiacciati contro il cuscino e, davvero, sembra omaggiare proprio Ingmar Bergman.
Nella narrazione, poi, il film non manca di portare sullo schermo l’eterna lotta degli uomini occidentali contro la noia. Proprio le protagoniste hanno trovato conforto e felicità nelle grandi partenze e nei grandi viaggi, nei grandi lavori e nei grandi libri, nelle grandi opere artistiche, strumenti - anche questi - straordinari, sfruttati per tappare il tempo della vita. Perché si tratta di vite da riempire, così vengono ritratte da Almodóvar. Da spettatori, la domanda che sorge spontanea è: possibile che la quotidianità non possa essere interessante? A un certo punto compete a Ingrid sostenerlo con forza, ma, dopotutto, anche lei non si è mai davvero comportata così. Inoltre, il ritmo del film si gioca su dialoghi che analizzano l’immenso valore di cosa ci sia dentro e fuori la vita: è sempre Martha a cominciare a parlare improvvisamente dei propri tormenti e della morte, come se fosse normale, perché non potrebbe essere diversamente per chi non crede di avere più nulla da perdere. Quella parola (morte) si ripete ed è una presenza fissa nel film ed, al contrario, è l’amica sana a non riuscire ad affrontarne la pronuncia. Dopotutto, diventa così evidente che, a questo mondo, si fa prima ad accettare la propria assenza che a farla accettare agli altri.
Infine, per tutta la pellicola di Almodóvar le conversazioni ruotano anche attorno al gusto per le arti: per la pittura, per la letteratura, per i film, per la prosa. Ma, ad essere pronunciata con maggior decisione, fino alla fine, è l’immagine evocativa del canto degli uccelli. Un’immagine che aggiunge lirismo ad alcuni dei momenti chiave del lungometraggio, lasciando finalmente lo spettatore come in balia delle proprie sensazioni, a capire che cosa possano essere davvero quelle forme. Nella cultura europea, il canto degli stormi in volo suggerisce cambiamento e trasformazione, perché si lega al concetto di migrazione e di spostamento, oltre che di crescita, ma può indicare anche il progressivo avvicinarsi alla morte. Qui, abbiamo ereditato certamente da un buon maestro quale Platone che, nel “Fedone”, attribuiva ai cigni in punto di morte il loro canto più bello. Diversamente da noi, in Oriente viene attribuito un significato totalmente differente alla rappresentazione del canto degli uccelli. Ad esempio, è propria del Giappone l’espressione “Tori no uta” (esattamente “canto degli uccelli”) che evoca l’idea della bellezza della natura, ed è simbolicamente associata a una sensazione di serenità e di pace con la vita, di armonia con l’esistenza, e richiama un canto che risuona nel silenzio del mattino. Per quanto riguarda il film, credo che Almodóvar abbia deciso di lasciare a noi la libertà di abbracciare il significato che sentiamo più nostro.
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