Il nuovo album di Marracash è personale e meraviglioso
Il settimo album in studio di Marracash è un bellissimo ritorno alle sue origini più profonde.
L’Album di Marracash arriva come a squarciare il buio di una scena italiana tramortita da dissing insipidi e costruiti a tavolino, mortificata da ricerche di street credibility fasulle e che brancola nel buio a livello contenutistico e artistico. Non c’è bisogno di sottolineare come il panorama, fatta eccezione per alcuni artisti sporadici, infarcisca i propri testi di machismo, populismo e banalità ignorando completamente la complessità politica e sociale che ci circonda e che affligge le vite di ognuno. Marra la definisce una bolla, quella in cui vive e in cui viviamo, tanto che ne fa anche il suo concept per questo disco. La cosa che colpisce immediatamente è l’assenza di featuring: nessun ospite, nessun cameo. Nulla. C’è lui e basta, e in effetti basta davvero. Questo è abbastanza significativo di come l’artista avesse necessità e bisogno di esprimere quello che aveva in corpo, la rabbia, la delusione, la depressione, il vuoto, la tremenda voglia di squarciare questo panorama piattissimo.
L’immagine di copertina scelta da Marracash è un manifesto: il riferimento a Escher è del tutto palese, tutto quanto attorno a lui ricoperto da lenzuola bianche adagiate su un qualcosa di vecchio, come se fosse in atto un cambiamento, un mutamento, un rinnovamento. Non far impolverare ciò che si vuole mantenere e che si vuole portare appresso nonostante possa portare con sé dolore e amarezza. Non solo, visto che il riferimento è anche alla bolla, l’ambito ristretto che scegliamo di vivere dove tutto è disegnato sulle nostre esigenze e conforme al nostro pensiero, che ci fa percepire la realtà esterna in maniera distorta finché non esplode e ci vomita in faccia quello che era distorto nella sua integrità. Marracash stesso ha detto: “È la bolla di ciascuno, la bolla in cui ognuno di noi si può rinchiudere, ma poi esistono molte bolle che rappresentano universi differenti: la bolla immobiliare o delle cripto, la bolla ansiogena dei social in cui ci ritroviamo spesso soli”.
Il principe di Barona restituisce alla parola “rap” quel significato dannatamente e meravigliosamente politico, senza necessità di misoginia o ostentazione di ricchezza trasbordante. Non siamo la New York o la Los Angeles degli inizi degli anni ottanta, nonostante città come Milano siano dense di segregazione del più povero, del diverso, di razzismo (il caso Ramy a Corvetto – il ragazzo speronato durante un inseguimento da una volante dei Carabinieri - è paradigmatico in questo senso). Le faide nei locali o per strada a suon di pistolettate non sono contemporanee, i 50 Cent o i B.I.G. sono riflesso della loro epoca e della loro vita. Il rap è e deve essere portatore, contenitore e traduttore lirico del disagio che si vive, denuncia, ribellione contro l’oppressione sociale, ma non limitarsi a questo. Le rime devono essere lucidate per abbattere chi questo genere lo usa come fosse musica pop, piegato sull’altare delle royalties e dei conteggi numerici sulle piattaforme streaming, e Marracash, nei tre anni di silenzio dal suo ultimo lavoro, le ha ripulite con enorme sapienza.
Nessun ospite, ma utilizzo raffinato dei sample, soprattutto quello di Ivan Graziani con “Firenze” che armonizza la canzone decisamente più bella, significativa, politica, sociale, pregna di solitudine e angoscia ma anche di riscatto quale “È finita la pace”, che dà il nome all’album di Marracash, perché chi la ascolta viene lacerato dalle sue strofe. Il brano è come l’Urlo di Munch: restituisce le stesse sensazioni di alienazione e straniamento, di fronte alla vita che ci circonda, di immagini di corpi straziati e anime divelte dall’impotenza. “Chi finanzia il genocidio a Gaza? Chi comanda? / Siamo solo una colonia e basta / Ma la gente è stanca, mica le riguarda / Vuole stare su Temptation Island”; Marracash parla del genocidio in atto a Gaza da parte dell’esercito israeliano, dell’assuefazione e banalizzazione della morte che tutti e tutte abbiamo ogni giorno sugli schermi dei nostri devices e che ci pare inarrestabile e anestetizza il dolore. “Taci la tua umanità (Per questo) / Piaci all’unanimità (Per questo) / E mi sto chiedendo / Se anche tu / In realtà non sia (Triste come me)”: così la chiude Marracash, con Graziani che disperato denuncia la sua tristezza, disvelandoci una verità nota che alberga in tutti i nostri ascolti e letture, ovvero di come sia più semplice adagiarsi al mainstream per piacere.
Sono cinquanta minuti che valgono la pena di essere spesi a più riprese per darci nuova linfa e credere che la musica italiana non sia solo inzeppata di canzonette mentre fuori c’è la morte, ma che possa avere lampi di bellezza come quella che Neo percepì al di là delle nubi dense e grigie nella terra delle macchine. Bentornato alle origini Marra, e grazie.
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