Calcio, "rainbow washing" e libertà di pensiero
Le polemiche sull'iniziativa "arcobaleno" in UK e il sottile equilibrio tra sensibilizzazione, forzature e rainbow washing.
Da oltre dieci anni, per la precisione dal 2013, la Premier League collabora con l’associazione Stonewall per la promozione dei diritti LGBTQ+ con l’iniziativa Rainbow Laces. Ogni anno per un periodo di tempo che solitamente copre un paio di giornate di campionato tra fine novembre e inizio dicembre, la lega si impegna a esprimere e promuovere la solidarietà sia direttamente, sia tramite i club e i singoli giocatori. Il nome Rainbow Laces (“lacci arcobaleno”) deriva dall’abitudine iniziale dei calciatori di esprimere vicinanza alla comunità LGBTQ+ indossando lacci degli scarpini, per l’appunto, color arcobaleno, ma oggi si è estesa a molti altri gesti di solidarietà, sia simbolici che più concreti.
La campagna, chiaramente, si pone l’obiettivo da un lato l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico, confermare l’impegno della Premier League per la diversità e l’inclusione e ispirare accettazione delle differenze come valore diffuso anche tra il pubblico calcistico; dall’altro, ha innegabilmente anche un valore di posizionamento politico e d’immagine – quindi economico – del campionato e delle squadre che lo compongono. Fino a questa stagione, le cose sono andate sempre piuttosto lisce: le polemiche sono sempre state contenute alle frange più estreme dell’ultra-conservatorismo terrorizzato dalla minaccia-woke e sono comunque sempre arrivate dall’esterno.
Quest’anno, invece, le reazioni di alcuni giocatori di primo piano hanno provocato dibattiti molto interessanti e importanti sulle libertà individuali, le convinzioni politiche e religiose e il ruolo “pedagogico” di avanguardie del cambiamento culturale che i calciatori (e chiunque goda di una tale visibilità) dovrebbero o non dovrebbero avere e – aggiungo io nonostante se ne sia discusso pochissimo – sull’opportunità di iniziative del genere laddove si hanno tra i più grandi investitori i governi di paesi autocratici in cui l’omosessualità è severamente punita.
Le discussioni sono cominciate sabato scorso, quando il capitano dell’Ipswich Town Sam Morsy, musulmano praticante di origine egiziana, ha rifiutato di indossare la fascia arcobaleno, unico capitano a farlo (ma non primo nella storia: il bosniaco Anel Ahmedhodzic dello Sheffield United aveva preso la stessa decisione nella scorsa stagione, ma il tutto era passato sottotraccia. La società ha pubblicato un breve comunicato stampa in cui ha affermato di rispettare la posizione di Morsy, pur sottolineando il proprio supporto alla causa LGBTQ+ e il proprio impegno in merito. Il giorno seguente, si è scoperto che prima della sfida contro l’Everton il Manchester United sarebbe dovuto scendere in campo per il riscaldamento con dei giacconi rainbow disegnati appositamente da Adidas per l’occasione. Sarebbe dovuto, perché il difensore neerlandese di origine marocchina Noussair Mazraoui si sarebbe rifiutato di indossarla e i suoi compagni, per evitare che il compagno venisse individuato e additato dal pubblico e dai media, avrebbero deciso di lasciare tutti la giacca negli spogliatoi.
Tuttavia, a quanto scrive The Athletic, sembra chiaro che non tutta la squadra sia stata d’accordo con questa decisione. Infine, il capitano del Crystal Palace Marc Guéhi, fervente cristiano, ha indossato sì la fascia arcobaleno ma ci ha scritto sopra a pennarello prima I ♥ JESUS e poi, quando dopo la prima partita la FA gli ha ricordato che i kit da gara non possono contenere slogan politici, religiosi o personali, ha invertito soggetto e oggetto: JESUS ♥ YOU: a suo dire, un messaggio di “verità, amore e inclusività”.
Visto l’accaduto, la Football Association si è subito messa in contatto con le squadre coinvolte per cercare di comprendere e gestire l’accaduto. Tuttavia, a quanto risulta, non è stata presa alcuna azione formale nei confronti dei giocatori se non una piccolissima multa o addirittura una sorta di ammonizione nei confronti del Crystal Palace per aver violato il regolamento sulle divise. L’allenatore, Oliver Glasner, ha detto in conferenza stampa di aver parlato con Guéhi e che non ci sarebbe stato alcun problema né alcuna sanzione: “Non è un bambino” ha detto “è un adulto e ha un’opinione. Lo rispettiamo e accettiamo tutte le opinioni”, anche quando possiamo non essere d’accordo, aggiungerei. Una presa di posizione tanto semplice e lineare quanto cristallina, capace di coniugare la libertà religiosa, di pensiero e di parola dell’individuo alle scelte politiche, sociali e culturali della collettività in cui è immerso.
Sebbene invece FA e Premier League non abbiano ancora rilasciato commenti formali sul rifiuto di Morsy o sul messaggio di Guéhi, è stata direttamente Stonewall a esprimersi per calmare le acque, concentrando la propria comunicazione sugli aspetti positivi della campagna, anziché sulle rarissime eccezioni negative di cui si sta parlando sui media: “È stato incredibile vedere così tante squadre, a tutti i livelli, sostenere la nostra campagna Rainbow Laces per rendere lo sport più sicuro e inclusivo per tutti. Quando club come l'Ipswich Town FC mostra il proprio sostegno, sta realmente aiutando le persone a sentirsi al sicuro e benvenute sia dentro che fuori dal campo". Soprattutto, però, il portavoce di Stonewall si è espresso così sulle scelte di Morsy, Mazraoui e Guéhi: "Spetta agli individui scegliere se e come mostrare il loro sostegno all'inclusione LGBTQ+ nello sport". Non è obbligatorio, non può essere una forzatura, innanzitutto per la credibilità dell’iniziativa.
Una situazione simile a quella del Rainbow Laces di quest’anno era accaduta un paio di stagioni fa in Ligue1, quando Idrissa Gueye del Paris Saint Germain aveva saltato una partita in cui avrebbe dovuto indossare una maglietta speciale per la Giornata internazionale contro l'omofobia, la transfobia e la bifobia. Mauricio Pochettino si era limitato a dire che Gueye non era disponibile per motivi personali, ma il comitato etico della FFF ha chiesto chiarimenti al giocatore, dal momento che anche nella stagione precedente era indisponibile per un’improvvisa gastroenterite nella stessa occasione.
Nella lettera, secondo il New York Times, la Federazione usava queste parole: “Rifiutando di prendere parte a questa operazione, si convalida un comportamento discriminatorio (e) il rifiuto degli altri, e non solo nei confronti di coloro che fanno parte del movimento LGBTQ+. L'impatto del calcio nella società e il modo in cui i giocatori sono modelli per coloro che li ammirano dà a tutti noi un senso di responsabilità personale. Speriamo che questa lettera ti renda consapevole del fatto che devi chiarire la tua posizione o fare ammenda” Il PSG ha sorvolato sul tema, dichiarandosi “molto orgoglioso di indossare questa maglia” che dimostra “l’impegno del club nella lotta contro l’omofobia e tutte le forme di discriminazione”.
Il presunto rifiuto di Gueye, a differenza dei casi della Premier di quest’anno, si è trasformato in un caso mediatico-politico internazionale. Prima si sono schierati con lui, con post più o meno criptici su Instagram, alcuni compagni della nazionale senegalese tra cui Cheikhou Kouyate, Ismaila Sarr e Abdou Diallo. Poi al coro si sono aggiunti il presidente della Federazione, intellettuali come Boubacar Boris Diop e persino del Senegal in persona, Macky Sall. Su X, l'hashtag #jesuisidrissaganagueye era arrivato in tendenza e niente meno che Macron ha speso un Tweet per criticare – indirettamente – Gueye.
L'homophobie, la transphobie, la biphobie frappent, discriminent, rejettent. Aux côtés de celles et ceux qui en sont victimes, de celles et ceux qui se battent pour les droits humains et l’égalité, nous continuerons le combat. Chacun est libre d’être soi, d’être aimé et d’aimer.
— Emmanuel Macron (@EmmanuelMacron) May 17, 2022
L'omosessualità è illegale in Senegal ed è punibile con pene detentive fino a cinque anni, la discriminazione e la violenza sono all’ordine del giorno. Il corrispondente da Dakar di Al Jazeera, ha spiegato al NYT che “Bisogna capire che Gueye è cresciuto povero e quasi certamente sostiene finanziariamente le persone a casa. È un musulmano praticante e promuove la sua fede. Quando sei un calciatore famoso qui devi ricevere una benedizione dai marabù, i leader religiosi. Promuovendo i diritti LGBTQ+, in Senegal rimarrebbe tagliato fuori. Lui e la sua famiglia sarebbero quasi certamente stati minacciati e in pericolo. Quindi c'è molta posta in gioco per lui e per le persone a lui vicine”.
Questa ovviamente non vuole essere una giustificazione, ma un tentativo di comprensione e di lettura delle cose del mondo da una prospettiva differente. Come ha sottolineato Valerio Moggia, per un calciatore arabo difendere la Palestina non è prendersi un grande rischio, perché proviene o è immerso in un contesto culturale nel quale questa è la posizione largamente maggioritaria, se non egemone. È un po’ come portare la fascia arcobaleno per un giocatore europeo: “Infatti, abbiamo tanti calciatori occidentali che non hanno problemi con i simboli arcobaleno ma quasi nessuno che si è espresso per la Palestina. Non eleggiamo eroi dove non ce ne sono, per favore”. E non facciamoci nemmeno ingannare dal rainbow washing delle monarchie islamiste del Golfo, che provano a farci dimenticare le atrocità che accadono ai loro sudditi facendo indossare magliette e lacci arcobaleno a Messi e Mbappé.
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