Stiamo sottovalutando "Qui non è Hollywood"
Qui non è Hollywood, la miniserie sul caso Avetrana è un esperimento che funziona oltre ogni aspettativa.
Durante la metà di ottobre, a Taranto, le temperature sono al di sopra della media: c’è il sole, nel weekend molti abitanti della città e dei comuni limitrofi ne approfittano per gli ultimi bagni della stagione. Nel 2010 avevo appena iniziato l’ultimo anno di liceo classico. Nel quadrilatero dove si trovava la mia scuola, le vie prendono tutte i nomi delle regioni italiane. Uno sciorinarsi di vie Emilia, Puglia, Marche, Lazio, Veneto, tagliate da un lungo corso di collegamento tra la zona periferica della città e il Borgo, nome con cui viene identificato il centro di Taranto. Corso Italia è la coerente arteria di confluenza di tutte queste strade: lì, oltre a una serie di negozi e servizi, si trova anche il Tribunale. Parlo di Taranto, della mia città, perché in questo periodo d’uscita su Disney+ della miniserie prodotta da Grøenlandia Qui non è Hollywood, tante cose del 2010 mi sono tornate alla mente, a partire proprio dal caso Avetrana declinato in una serie di eventi tanto assurdi e surreali quanto disturbanti e caotici.
Ricordo perfettamente l’impossibilità di accedere alla fermata che utilizzavo per salire sull'autobus che mi avrebbe portato a casa, perché quella - unitamente a tutto il tratto di strada attiguo al Tribunale - era stata preso d'assalto dai furgoni delle emittenti nazionali e locali, insieme alla costante presenza dei curiosi e dei cordoni delle forze dell’ordine intente a proteggere le regolari attività del Foro.
Erano momenti concitati: Michele Misseri, che passerà alla storia come zio Michele, aveva confessato ai magistrati di aver ucciso 41 giorni prima la sua nipotina Sarah Scazzi. Voglio partire da qui, da questa concitazione esperienziale diretta, per spiegare come in realtà la miniserie di Pippo Mezzapesa sia stata una sorpresa di portata enorme sotto tantissimi punti di vista. Qui non è Hollywood rende giustizia e dà finalmente un ordine e una forma ad ogni singolo attore coinvolto, termine usato senza alcuna casualità. Ma, cosa più importante, restituisce dignità e identità alla vittima della storia, la giovanissima Sarah, forse fin troppo dimenticata e depersonalizzata durante tutto il caos mediatico generatosi con dolo durante la sua scomparsa.
Qui non è Hollywood sarebbe dovuta essere preceduta nel titolo dal nome della cittadina di Avetrana, ma alcune questioni politiche hanno costretto i creatori della serie ad eliminare il nome del comune tarantino. La storia ripercorre i passi del caso Scazzi, vicenda che aveva scosso l’Italia e l’opinione pubblica fino alla più totale delle psicosi: il 26 agosto 2010, una ragazza di 15 anni sparisce durante il breve tragitto che separa la sua casa da quella degli zii. Verrà ritrovata morta quasi un mese e mezzo dopo, in fondo ad un pozzo di campagna, gettata in mezzo alle acque dopo essere stata strangolata altrove, proprio a casa dei suoi zii, da sua cugina Sabrina e dalla zia Cosima. Prima di procedere con i commenti a Qui non è Hollywood, è doveroso far presente che il contenuto di questo articolo presenta alcuni spoiler: magari c'è chi, comunque, questa vicenda non la conosce in tutte le sue sfumature, nonostante sia stato detto - anzi, tantissimo - e anche il superfluo è sia mostrato dalle trasmissioni televisive dell’epoca dei fatti.
Pippo Mezzapesa, regista bitontino, si assume la responsabilità di raccontare attraverso Qui non è Hollywood una delle vicende di cronaca nera più borderline e controverse del nuovo millennio: il delitto e la scomparsa di Sarah Scazzi. Il caso viene trattato dal regista non come un banale poliziesco, dalla narrazione cronologica degli eventi: Mezzapesa decide di farlo attraverso gli occhi dei quattro protagonisti principali della vicenda - Sarah, Sabrina, Michele e Cosima - delineandone il profilo psicologico, aspetto che gioca un ruolo fondamentale nello svolgimento dell’opera e nell’ottimo esito della stessa.
Questa scelta narrativa va a stagliarsi con forza sul taglio ben identificabile di Qui non è Hollywood, come già il titolo stesso suggerisce: ciò che colpisce della riproduzione su piccolo schermo di questo caso così agghiacciante e disturbante è come Mezzapesa sia riuscito ad aderire alla realtà non solo dei fatti ma anche del discorso sociale di quel limitato periodo di tempo in maniera cruda e ai limiti della perfezione. L’utilizzo della figura di Daniela - giornalista interpretata da Anna Ferzetti - altro non è che uno strumento narrativo per spiegare la follia italiana di quel momento, la lotta interna ai media per accaparrarsi l’esclusiva, lo scoop, una pseudo-notizia qualsiasi che avrebbe scatenato la macchina della visibilità. Flavia Piccinni, autrice insieme a Carmine Gazzani del libro “Sarah. La ragazza di Avetrana” da cui è tratta la serie, aveva descritto nel podcast “Indagini” di Stefano Nazzi la frenesia mediatica di quel periodo, che si è spinta fino a lucrare sulla pelle di una ragazza scomparsa per produrre una sorta di soap opera cucita intorno una tragedia reale, viva e dolorosa, come fosse un gioco a puntate: “Avetrana si trasforma e diventa improvvisamente un set a cielo aperto. […] Quindi Valentina (la primogenita dei Misseri, ndr) piuttosto che la mamma di Sarah Scazzi, ma anche la famiglia Misseri e gli abitanti di Avetrana non sono più persone, ma diventano dei personaggi in mano agli autori televisivi e in balia di un pubblico che h24 accende la televisione e può assistere all’ennesima novità, l’ennesima puntata di questo show dell’orrore.”
L'approccio di Mezzapesa non è distante da quello che è accaduto: in Qui non è Hollywood crea una sorta di soap incentrata sui quattro personaggi-attori della vicenda per ricreare a sua volta una realtà inquietante, cruda, tenuta ottimamente in piedi dalla fotografia di Giuseppe Maio e dalle musiche, passando anche per le ottime interpretazioni degli attori, su tutte quella di Vanessa Scalera nei panni della zia Cosima Serrano.
Questa schizofrenia televisiva nasce dall’intuizione della cugina di Sarah, Sabrina Misseri - motivata forse dal desiderio di mostrarsi e non da una reale volontà di controllare l’informazione, come la Magistratura tarantina ha invece più volte evidenziato. L’episodio incentrato su di lei, il secondo, diventa un compendio perfetto per la comprensione della sua personalità, animata dai meccanismi malati della gelosia e dell’invidia, e della sua voglia di essere notata tanto quanto la cuginetta Sarah, ingranaggi deviati che risulteranno essere i fattori scatenanti dell’omicidio della ragazzina di cui si è macchiata insieme alla mamma Cosima. Sabrina viene ritratta perdutamente innamorata di un ragazzo, Ivano, un amore portato ai limiti della malattia: la ragazza riceve un messaggio dal giovane, e la scelta di utilizzare un pezzo latinoamericano di inizio millennio, Obsesiòn degli Aventura, risulta anacronistica rispetto al momento in cui si svolge la vicenda ma si adatta perfettamente al contesto, aiutando a consolidare ancor di più questo concetto.
Questo è uno dei casi in cui le musiche di Qui non è Hollywood vengono utilizzate per rafforzare l'immagine psicologica e narrativa dei personaggi e della storia, portandola allo stesso livello di importanza dello sfondo hollywoodiano su cui si basa. L’amore non è l’unica ossessione di Sabrina: la ragazza è ritratta come una persona che non ama il suo corpo, completamente diverso da quello della cugina filiforme e in piena formazione adolescenziale. Persino Ivano - che passerà alla storia come il ragazzo conteso - sembra iniziare a notare più Sarah che Sabrina, scatenando i primi moti di gelosia.
L'ossessione diventa la massima declinazione della gelosia non solo nel personaggio di Sabrina. Uno dei passaggi finali dell’ultimo episodio di Qui non è Hollywood vede protagonista Cosima: la donna si trova nella sua casa in quello che presumibilmente è l’ultimo incontro con la sorella Concetta, mamma di Sarah, che ha già pienamente compreso l’impossibilità che Cosima sia all’oscuro di tutta la macabra vicenda accaduta all’interno della sua villetta. Proprio in questo frame di Qui non è Hollywood, la donna ammette come sua sorella Concetta sia sempre stata quella più amata senza aver mai concesso amore ad altri, compresa sua figlia: è il motivo per cui “per una volta” qualcuno (Sarah) abbia amato più sua zia di sua madre.
Al momento dell’annuncio dell’uscita su Disney+, Qui non è Hollywood è stata accolta con scetticismo dal web, derubricata a prodotto trash immorale ancor prima di vederla. Con queste premesse, realizzare un ottimo show era obiettivamente complicato, ma Pippo Mezzapesa è riuscito a farlo attraverso la coerenza asciutta con cui non solo racconta le vicende che tutti conosciamo da fuori, dalle trasmissioni e dai servizi giornalistici dell’epoca, ma anche per come è riuscito a ideare e collocare un filone narrativo ben funzionante. Fatto salvo per il personaggio di Michele, che le cronache porteranno a diventare protagonista assoluto solo a processo avviato, le figure di Cosima e Sabrina si trovano a essere talmente assorbite dai personaggi che si sono create da credere quasi fermamente ad una verità alternativa, quella della loro innocenza e dell’unica colpevolezza di Michele Misseri. Una spettacolarizzazione della vicenda esasperata a tal punto da renderle prigioniere di sé stesse.
A questo punto, laddove ricostruzioni e sentenze dicono chiaramente cosa è accaduto e dimostrano l’inattendibilità delle dichiarazioni dello zio, anche Michele diventa parte integrante di questo schema di autoconvincimento di una realtà diversa da quella fattuale.
Lo spettatore di Qui non è Hollywood viene portato a una lettura che diventa di duplice interpretazione: esiste davvero questa realtà in cui l’uomo è completamente in balìa delle donne della famiglia, della moglie su tutte, o c’è una verità che si avvicina a quella raccontata a favore di telecamere? È una domanda la cui risposta appare pressoché scontata, per ciò che sappiamo e che abbiamo visto nei quattro episodi della serie, ma che era doveroso per Mezzapesa porre allo spettatore affinché l’esperimento riuscisse.
Qui non è Hollywood riesce anche in quello che è forse l’intento più importante: restituire il valore che la vittima aveva perso durante questa caotica vicenda, passando semplicemente per un mezzo tramite cui alimentare un sistema giornalistico e televisivo malato, spesso non professionale e ben oltre i limiti della deontologia dimenticando la cruda realtà dei fatti: l'omicidio e l'occultamento del cadavere di una quindicenne.
A Sarah, infatti, è dedicato interamente il primo episodio di Qui non è Hollywood, mentre nelle altre puntate la vittima rimane volutamente sullo sfondo, così da dare senso alla struttura della serie. Il suo è però un rimanere sullo sfondo forte, è un incombere, un tormento per le anime degli altri protagonisti: la ragazza diventa rappresentazione del senso di colpa dei suoi aguzzini. Persino di Cosima, nonostante questa venga disegnata come è apparsa o ha voluto apparire davanti alle telecamere all'epoca dei fatti: una donna inespressiva e impenetrabile che sembra assumere a tratti la durezza e l'insensibilità di un capo-mafia più che di una casalinga, fino al passaggio finale dell’ultimo episodio.
“Sembra sia scomparsa una mosca”, dice la madre nel terzo episodio di Qui non è Hollywood: una frase che Concetta ha davvero pronunciato anche 14 anni fa, ma che arriva allo spettatore come un pugno dritto sul volto. Cinque parole che rappresentano perfettamente come tutto quel circo stesse giorno dopo giorno mangiando la figura di Sarah, fino a farne quasi dimenticare il viso.
Qui non è Hollywood restituisce dignità a Sarah Scazzi per tutta la durata della serie e, soprattutto, grazie al giusto finale: un primo piano malinconico e spaventato, mentre i giornalisti le passano vicino senza vederla, per assistere all’imminente arresto della zia, accompagnato dal capolavoro dei Queen “Who wants to live forever”. Pienamente consapevole di ciò che le è accaduto e con la precisa volontà di ricordarci una volta per tutte la verità, il volto di Sarah chiude Qui non è Hollywood mostrandosi lontana dallo spettacolo scabroso di spettacolarizzazione del dolore e dell'orrore che è stato creato intorno al suo omicidio.
Con la giustificata pretesa, quindi, di mostrarci il suo viso: una ragazzina brutalmente uccisa per gelosia da persone della sua stessa famiglia. Laddove tutti, oramai, lo avevano dimenticato.
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