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Del Piero
, 9 Novembre 2024

Frammenti di Alessandro Del Piero


Un ritratto intimo e personale del rapporto tra un tifoso ed Alessandro Del Piero, che oggi compie 50 anni.

L’estate del 1998 mi trovavo in vacanza e passeggiavo per Padova, conosciuta anche come la città dei “senza”: Padova è quella realtà in cui esiste il Santo senza nome, il Caffè senza porte e il Prato senza erba. Quel Prato senza erba, detto della Valle, è una piazza che, dati alla mano, è la seconda più grande d’Italia e la sesta in Europa: ha una forma ellittica, nella praticità è un vero e proprio spazio monumentale circondato da 77 statue dove, ogni sabato da anni, si svolge il mercato dei padovani.

Quell’estate passeggiavo lì con la mia famiglia, il sole batteva ma il tasso di umidità era ben lontano da quello che siamo costretti a sopportare oggi, fino a quando una bancarella ricca di colori catturò la mia attenzione: un uomo e una donna vendevano magliette da calcio non ufficiali ed io, rapito dall’estetica delle divise profondamente diverse da oggi per vestibilità e fonts, mi metto alla ricerca di quella del mio calciatore preferito: strisce bianconere verticali strette, tricolore a sinistra, cognome e numero in rosso sulle spalle. 

Avevo trovato la maglietta di Alessandro Del Piero e, quasi vergognandomene, feci pressione ai miei genitori per farmela comprare.

Così sono tornato in hotel con la maglia di quello che, non per caso, ho definito il mio calciatore preferito e non il mio idolo a livello umano: da ragazzino hai una conoscenza dei personaggi dello sport che è limitata all’atto, alla giocata, al loro grooming e alla loro estetica, soprattutto in un contesto dove, a differenza dell’attualità, le notizie private e le caratteristiche umane filtrano con una costanza talmente bassa da essere quasi irrilevanti. 

Solo con il tempo, con la crescita e con l’andare dei tempi e delle informazioni sempre più accessibili, ho avuto la possibilità di scoprire Del Piero in maniera diversa: questa scoperta ha creato un legame che posso dal canto mio definire platonico, nella misura in cui si riesce a provare affetto e stima per qualcuno che non conosci e che, con ogni probabilità, non conoscerai mai.

Il punto di maggior contatto iniziale è stato però questo, a Padova, nella città che lo ha visto nascere calcisticamente dopo aver passato un’infanzia intera ad abbattere gli interruttori della luce nel suo garage di San Vendemiano: quella maglietta era diventata per me una sorta di tatuaggio, una compagna inseparabile indossata ogni qualvolta nel cortile dei miei nonni o nella via di casa provavo a colpire il pallone in modo tale che prendesse quell’effetto che la cultura pop aveva ribattezzato come tiro — e gol — alla Del Piero

Se questi capolavori prendevano in prestito il suo nome, doveva esserci un motivo: poche volte i miei tentativi di emulazione avevano successo, quindi mio padre ha provato ad iscrivermi alla scuola calcio più vicina a casa nel tentativo di imparare i fondamentali che, nella testa di un ragazzino, avrebbero consentito di riprodurre i suoi dribbling e i relativi movimenti.

Accelerazioni, frenate, passetti caracollanti: ad un certo punto mi ritrovavo a passare pomeriggi interi col pallone nel tentativo di emulare le finte con cui Del Piero ha nascosto la palla a Hierro prima di infilare Casillas all'angolino nella semifinale di Champions del 2003, anno in cui la Juventus ha ribaltato uno dei Real Madrid nell’accezione più galactica che sia mai esistita e conquistando la finale di Manchester, in un’annata che non solo ha visto la consacrazione di Pavel Nedved come giocatore più forte al mondo ma che ha rafforzato ancora di più la connessione tecnica esistente tra Del Piero e Trezeguet. 

Ricordo che dopo quella partita ebbi tanta difficoltà a prendere sonno, non solo per l’importanza della gara in sè quanto perché gli occhi spiritati di Del Piero, che racchiude la sua esultanza a braccia aperte in un grido lanciato al cielo capace di superare pesantemente i decibel del vecchio Delle Alpi, mi avevano lasciato addosso una carica emotiva talmente grande da essere impossibile da sfogare.

La stessa cosa accadde, con sensazioni stavolta opposte, due settimane dopo per la finale di Manchester contro il Milan di Ancelotti: lì ho percepito la stessa malinconia che aveva Del Piero al termine di quei maledetti rigori, e mi resi conto che già in un’altra occasione avevo empatizzato in quel modo con lui: non tanto in quel funesto pomeriggio di Udine del ’98, quando il suo ginocchio fece un crac talmente rumoroso da coprire il frastuono della sua disperazione, quanto in quello sguardo malinconico che fissava il vuoto dopo la delusione europea di Rotterdam con la Nazionale ad Euro 2000.

Prima la caduta all’indietro, portandosi le mani al volto dopo il Golden Gol di Trezeguet; poi quegli occhi come anfore colme di lacrime pronte ad essere versate ininterrottamente su chiunque avesse offerto la propria spalla. Provò ad avvicinarsi Zinedine Zidane, suo amico, ma gli concesse soltanto una carezza ad occhi chiusi con la precisa volontà di non manifestare il suo sconforto a chi viveva di quello, a chi non vedeva l’ora di puntare il dito sui suoi errori di quella serata che forse ci sono costati un titolo che arriverà con 21 anni di ritardo.

Io, come lui ma meno in vista di lui, avevo assunto la sua stessa posizione sui freddi mattoni della mia veranda: sotto il piccolo Amstrad nero, con i tasti del telecomando quasi tutti rotti, c’eravamo io e i miei otto anni seduti per terra con le braccia che mi cingevano le ginocchia, abbracciandomi da solo per togliere la possibilità a chiunque di avvicinarsi, mentre le immagini della tv proiettavano luci e colori di quella festa che non sarebbe stata la nostra.

Del Piero

Ero troppo piccolo per capirlo, ma nel dolore di una sconfitta al Golden Gol ho iniziato a creare quel legame con Del Piero meno superficiale, più empatico, di vicinanza tra uomini e di indissolubilità malgrado restasse tutto confinato ai limiti dello spirituale e dell’immaginario.

Allora lì ho pensato che avremo avuto modo di rifarci insieme non appena ci sarebbe stata occasione, che semmai avesse dovuto correre per tutto il campo a Dortmund, dove era iniziata la sua parabola ascendente, avrei corso e chiamato la palla a pieni polmoni insieme a lui per riceverla e scaraventarla sotto l’angolino: così avremmo battuto la Germania in una semifinale del Mondiale prima di consumare la vendetta perfetta ai danni della Francia, magari grazie alla lotteria dei calci di rigore dell’Olympiastadion. Magari avremmo vinto quella finale e avremo consolato noi Zidane mentre usciva dal campo sfilando di fianco alla coppa del Mondo. 

Prima di farlo, però, avevo bisogno di superare l’altra delusione condivisa con Del Piero, ovverosia quella di Manchester: in quegli anni la rivalità con uno dei Milan più forti che sia passato nella storia è talmente accesa da rendere il nostro campionato ancora una lega dal fortissimo appeal internazionale. 

Il pomeriggio dell’8 maggio 2005, San Siro ribolle nell’attesa che Milan e Juventus scendano in campo per dare un colpo decisivo al campionato, in un senso o nell’altro: dalla finestra di casa lasciata aperta per godere di quel clima primaverile trovo la concentrazione guardando il luccichio del mare visibile in lontananza. In campo ci vanno loro, ma è come se dovessi andarci anch’io nonostante non abbia mai più imparato a calciare come Del Piero. 

Al 27° Alex sta portando palla sulla sinistra, tallonato da Gattuso: prima frena, poi torna indietro, Ringhio cerca di affrontarlo mentre lui si sposta il pallone sul sinistro nel tentativo di mettere in mezzo per Trezeguet ma il numero 8 rossonero ribatte scivolando. In quell’istante, di spalle alla porta e con la palla a mezz'aria, l’unico gesto istintivo facilissimo da applicare è quello di metterla giù e cercare il compagno più vicino. 

Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione.” 

Una frase tratta da una famosissima commedia del cinema italiano completamente in antitesi con la normalità di un’azione di gioco come quella, ma che prende plasticamente vita in quel momento: la fantasia e l’intuizione di un gesto acrobatico abbagliante, la decisione nel compiere l’unico movimento possibile e controintuitivo e la velocità d’esecuzione con cui quella palla si metterà nelle condizioni di farsi colpire nello spazio dove David Trezeguet anticipa Dida.

Guardo la televisione tra l’incredulo e lo sconvolto, tra l’ammirato e il meravigliato: Alex Del Piero ha assistito il compagno di squadra in rovesciata, senza nemmeno guardarlo, mosso da una memoria identica alla nostra quando raggiungiamo il frigorifero al buio di notte per bere dell’acqua, sapendo che lo troveremo esattamente lì dov’è senza bisogno di accendere la luce. 

In quel momento è torcida vera e propria, nell’anello bianconero del Meazza come nella mia anima: laddove la meccanica ricerca dello spazio non ha portato i suoi frutti, lui lo ha creato con la fantasia, con la geniale astuzia di chi ha tolto le ragnatele dagli alti incroci dei pali per una lunga serie di partite ammantate di mito e leggenda.

La verità nuda e cruda è che non mi sarei mai rassegnato al suo inevitabile declino, che forse era già in atto da prima della finale di Rotterdam: nemmeno le panchine con Capello, tantomeno quelle con Conte, mi avrebbero dissuaso dal volergli bene in questo modo viscerale, e se qualcuno avesse avuto qualcosa da ribattere gli avrei mostrato le immagini e le vibrazioni di uno stadio come il Bernabeu tutto in piedi ad applaudirlo.

Se qualcuno mi avesse contraddetto, gli avrei fatto vedere come si piega l’Inter a 38 anni e come si battono le punizioni nei momenti più importanti, quelli che valgono uno scudetto dopo gli anni di purgatorio cadetto. 

Per questo, durante l’ultimo atto del nostro sodalizio immaginario, mi sono alzato in piedi con lui per salutare la gente dello Stadium in occasione della sua ultima partita in bianconero. Per questo ho pianto, vergognandomene un po’ ma non come il codice etico maschile richiederebbe, nel vedere uno stadio intero omaggiarlo con una pañolada di maglie e sciarpe.

Avrei voluto essere lì, magari tirargli proprio quella maglia che mia madre e mio padre mi regalarono in Prato della Valle, ma forse è stato meglio così: è il mio ricordo d’infanzia bellissimo, nato da una passeggiata spensierata con degli affetti reali e non platonici, e lo conserverò con gelosia in uno spazio cristallizzato e protetto dal tempo, pronto a riemergere anche oggi che Alessandro Del Piero ha compiuto 50 anni

  • Terrone del nord arrivato con tutti gli accenti nel bagaglio a mano. Un tempo bucava le reti di sinistro, poi ha scoperto i libri e il vino.

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