Perché Red Bull dovrebbe comprare il Torino
In fondo, la storia granata non è stata già svuotata e lobotomizzata da Urbano Cairo?
Incurante che quella mattina il professore di latino avrebbe interrogato, non avevo aperto libro. Quando il docente del liceo di Torino che frequentavo ha estratto il mio nome, non ho avuto altra scelta che una misera, umiliante scena muta.
Mentre consegnavo il libretto consegnandomi al destino, aspettandomi un 2 tutto da spiegare a casa - mica c’era il libretto online, le cose le dovevi spiegare a voce, permettete la boomerata -, il professore, bianconero sfegatato, mise in atto uno dei suoi celebri coup de theatre: “Ebana, ti meriteresti 2. Ma capisco che è la settimana del derby. Sei teso. Sei granata, sai che perderai, non avevi l’animo per prepararti. Torna al posto, usa il weekend per guardare il derby e studiare, e torna lunedì preparato”.
Tornai al posto incredulo tra le proteste dei rappresentanti di classe. E pensando che il biglietto del derby forse avrei dovuto venderlo per studiare Seneca e sfruttare al meglio quella grazia ricevuta.
Effettivamente, in quegli anni la settimana precedente il derby era tesa, anche se non aveva grandi motivi per esserlo davvero: la Juventus lippiana, zeppa di campioni, sfidava un Torino in costante saliscendi tra la B e la A, presieduto da Cimminelli, che poi lo fece fallire. Eppure la febbre da derby esisteva: ha portato ad episodi famigerati come il 2-2 di Maresca con le corna, o la rimonta da 3-0 a 3-3 con buca di Maspero. Manco a dirlo, quest’ultimo era proprio il derby di quella domenica. Per fortuna non studiai Seneca nemmeno quella volta.
A ripensare a quei giorni, mi piacerebbe vivere la stessa ansietta, lo stesso sfottò, la stessa tensione, la stessa voglia di sognare l'ennesimo Davide contro Golia. Eppure oggi, che il Torino non è nemmeno così Davide ed la Juventus nemmeno così Golia, oggi che quello scherzetto sarebbe paradossalmente più possibile, di quelle sensazioni non c’è più manco l’ombra.
Questo avviene perché del Torino è rimasto poco: dopo l’operazione di castrazione operata da Urbano Cairo, il club granata è diventata una squadra come tante altre, senza alcun fuoco sacro e senza alcun legame a quella vocazione che, di fatto, portava allo stadio migliaia di persone anche in B contro il Castel di Sangro nelle annate pre-fallimento. Oggi il Torino naviga stabilmente a metà classifica in A, in una posizione che non permette di retrocedere (cosa che a Cairo costerebbe più in termini finanziari e di immagine che sportivi), ma con una proprietà che non permette nemmeno di sognare.
Ad oggi, se si chiede al tifoso granata se fosse attaccato più al Torino di Ferrante che azzannava i derby e rischiava di retrocedere o a questo, che nei derby si è sempre comportato da vittima sacrificale (1 derby vinto in 19 anni di presidenza), non ci sono dubbi sulla risposta: il Torino di oggi si avvicina al derby come “la seconda squadra perfetta in una città dove la prima ingombra, in un ruolo da vittima sacrificale che viene guardata dai concittadini non con rivalità, ma con compassione”.
In questo panorama, nelle ultime settimane si è stagliata una notizia sbalorditiva: Red Bull, multinazionale del beverage già profondamente radicata nel mondo dello sport, avrebbe manifestato un interessamento per l’acquisizione della società granata. Di più, si sussurra che ci siano stati incontri tra Urbano Cairo e l’AD Mark Mateschitz, addirittura con un piano di ingresso biennale in cui il brand austriaco diverrebbe main sponsor e poi proprietario della maggioranza del club.
Di fronte a tali congetture - al momento valide quanto il fantozziano “Si diceva che l’Italia stesse vincendo 21-0 e avesse segnato anche Zoff di testa” - sono arrivate secche smentite da parte dei vertici granata e di Cairo stesso, ma non proprio tutto sembra etichettabile come una boutade. Red Bull, ad oggi, è già entrato nel Torino FC, come energy drink sponsor (se si giudicasse la bontà del prodotto dall’energia messa dagli atleti in campo, peraltro, dubito che ne avrebbe un gran ritorno).
La convinzione che Red Bull voglia provare a scalare le gerarchie si appoggerebbe su basi abbastanza solide. In primis, lo sport è un investimento in cui l'azienda con sede a Salisburgo ha creduto da sempre: dall’arcinota presenza in Formula 1 e Moto GP, al ciclismo, dall’hockey su ghiaccio allo skydiving, la presenza del marchio dei due tori nel mondo sportivo è assidua.
In secundis, dopo le esperienze calcistiche con Salisburgo, Lipsia, Bragantino e New York, non è irreale pensare che, come sostengono alcune testate sportive e finanziarie, la multinazionale starebbe cercando un altro gate per entrare nei campionati più storici d’Europa, legandosi a club provvisti di una storia solida (non a caso, l’altro nome ventilato è quello del Genoa) e con qualche potenzialità europea in un futuro prossimo.
Insomma, al momento ci sono ottimi motivi per pensare che si tratti di qualcosa di più concreto dell’ennesima farneticazione attorno al mondo granata (la stampa aveva fantasticato più di una volta, accostando negli anni marchi del calibro di Ferrero, Benetton o Emirates all'acquisto del Toro), corroborato dal lecito sospetto sulla veridicità, quantomeno, di un avvicinamento.
Certo, sappiamo bene come si è mossa la Red Bull nel mondo dello sport: finora (eccetto il caso Leeds, in cui però è socio di minoranza) non si è mai accontentata di giustapporre il logo sulle magliette. Ha "costretto" a ridisegnare completamente la struttura del club acquisito, da quella societaria a quella sportiva sino ai colori sociali. In alcuni casi, si è arrivati allo spostamento di sede.
Nel vociare di questi primi rumors, una delle prime obiezioni rabbiose ma legittime che ho sentito è stato proprio riguardo a una potenziale operazione del genere ai danni della storia granata. Insomma, va bene l’acquisizione, ma pensare a un'operazione RB Lipsia sul Torino sembrerebbe infastidire buona parte del popolo granata.
Si capisce bene il motivo: in Italia, le tradizioni calcistiche rispondono a una vocazione più che religiosa, tendenzialmente immutabile. A mio parere però, non si considera un elemento: quel passaggio di svuotamento identitario, il Torino lo ha già fatto, e lo ha fatto proprio in questi ultimi 19 anni.
Urbano Cairo ha già svuotato il Torino del Toro che aveva dentro. Sotto la guida del patron di RCS, il Toro è stato spogliato, passo dopo passo, strato dopo strato. È stato privato della sua anima, reso semplicemente un’azienda nella galassia delle aziende del suo presidente, atto a fare plusvalenze senza curarsi del fatto che il calcio sia qualcosa che va oltre le regole del business. Certo, non ne ha cambiato i colori sociali e il logo: ha mantenuto le apparenze, ma di fatto ha compiuto gesti di vilipendio altrettanto gravi verso la tradizione e la storia granata.
L’ha fatto spostando la sede operativa del club a Milano, non trovando uno spazio per il Museo del Grande Torino (ora provvisoriamente in una residenza universitaria nel torinese, gestito da un’associazione che lo tiene vivo). L’ha fatto ricostruendo un Filadelfia plastificato e inagibile per le gare giovanili, poi chiudendolo al pubblico, montando addirittura delle vele per blindarlo - riaperto giusto per la rifinitura pre derby, a mo' di contentino, con la giusta dose di disprezzo mostrata dai pochi presenti. L’ha fatto considerando i giovani migliori non potenziali bandiere ma appetibili plusvalenze (Buongiorno è un caso limite, ma Bremer, Bellanova, Maksimovic, Ogbonna e Belotti aderiscono perfettamente).
L’ha fatto rinunciando alla battaglia legale sulle ipoteche necessarie all’acquisizione di uno stadio di proprietà (l’Olimpico Grande Torino, restaurato nel 2006, è uno degli stadi teoricamente migliori in Italia, ma resta in affitto, teatro così di un rimbalzo di responsabilità su una manutenzione che ne manterrebbe uno stato decoroso). L’ha fatto abbandonando al loro destino degradato i luoghi di culto granata come la lapide di Superga o quella di Gigi Meroni. Lo ha fatto condannando il Torino a un purgatorio in cui è vietato sprofondare, ma anche sognare. Il Torino ha già cambiato sé stesso quando ha cambiato il suo nome (da Torino Calcio a Torino FC, dopo che Urbano Cairo lo comprò a 0 grazie al lodo Petrucci, fiutando l’affare).
Ha già venduto la sua anima a un diavolo travestito da imprenditore alessandrino che furbescamente ha mantenuto un velo più trasparente che granata, dando un colpo di vernice sbiadita alla storia del club, mantenendone in vita un penoso downgrade lobotomizzato di cui i tifosi non possono essere orgogliosi.
In questo panorama, sinceramente, a me un restyling del brand non sembra così drammatico. Perché, a mio avviso, il patrimonio valoriale del Torino non è costituito solamente da colori sociali e logo: se i nuovi proprietari intendessero restituire al Torino la dignità della sua storia con operazioni sostanziali rispetto ai suoi luoghi fondamentali e al rispetto del suo passato, tutto questo varrebbe molto di più di qualunque modifica estetica.
Certo, mi farebbe specie non indossare una sciarpa granata ma biancorossoblù. O sventolare una bandierina con due tori anziché uno. Ma, da par mio, se la nuova proprietà si facesse carico di una rinascita strutturale, se volesse davvero intervenire per avere uno stadio di proprietà con Museo della storia granata, se davvero restaurasse il Filadelfia per farlo diventare un centro sportivo d’eccellenza per il settore giovanile e per il calcio femminile, se riportasse la sede nel luogo di fondazione della squadra, allora saprei che quel prurito nell’indossarla non sarebbe vano.
"E il lato sportivo?", mi starete chiedendo. Sinceramente, per me conta ma non è il punto cruciale: purché il Torino si riappropri di sé stesso, sarei disposto a tornare in B invece di vedere questa pantomima ogni domenica. Di certo, laddove Red Bull interviene cerca di essere efficiente anche sul lato dei risultati di campo: allora, se proprio ci si deve snaturare, è meglio farlo per sognare di vivere qualche momento gioia sportiva, soprattutto se alla soglia dei 40 hai visto vincere alla tua squadra solo una Coppa Italia.
Infine, un lato più romantico dice che la storia del Torino è fatta di cadute rovinose ma anche di rinascite. Partendo dalla più lontana e celebre, pensiamo ai ragazzini della Primavera costretti a scendere in campo dopo Superga, in pieno dopoguerra, raccogliendo un’eredità pesantissima tra le lacrime. Ancora, quel 22 ottobre 1967, la domenica del derby dopo la morte di Gigi Meroni: Nestor Combin si vestì da diavolo in nome del suo compagno di squadra; Alberto Carelli, che indossava la 7 appartenuta alla farfalla granata fino a pochi giorni prima, sigillò il risultato e tutto lo stadio, bianconeri compresi, si alzò al grido di “Gigi, Gigi”.
Ancor più recentemente, Mauro Borsano fu inchiodato da Tangentopoli e lasciò il club in braghe di tela, ma in qualche modo la società granata fu capace di sopravvivere tra mille stenti e presidenti discutibili, tra la A e la B. Quando infine con Cimminelli fallì miseramente, in una notte estiva fu salvato dai lodisti che ne scongiurarono la ripartenza dalle categorie interregionali, per poi esser comprato al prezzo simbolico di un euro da un affarista qual è, appunto, Urbano Cairo.
Da quel momento, da quell’entusiasmo sotto il balcone da cui spuntò l’imprenditore di Masio, sono passati 19 anni, e la grande occasione è stata sprecata, con l’aggravante di aver completamente fatto disamorare la tifoseria e l’ambiente.
Mi piace pensare che questa storia così travagliata non possa chiudersi con questa lobotomia a cui il presidente attuale cerca di sottoporci da quasi un ventennio, in cui ogni desiderio è stato represso. Ho voglia di sognare un po'. Sognare che un giorno porterò allo stadio mio figlio con la stessa fierezza con cui andavo con mio padre, che magari avremo ancora la sciarpa granata, perché Red Bull avrà deciso di salvare i colori sociali. Dovrò spiegargli come mai ora ci sono due tori al posto di uno, nello stemma societario, e magari porterò anche la mia di quando ero ragazzino, così che possano andare per mano, anche loro.
Mi piace sognare di vivere uno Scudetto insieme a lui, o che lui possa solo sognarlo, a differenza mia. Mi piace sognare che un giorno, un professore lo rispedisca al banco perché non ha studiato latino, o anche che prenda 2 perché non ha studiato. Di fronte a un’ansia da derby, non riuscirei a esser troppo severo.
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