Megalopolis è impossibile da descrivere a parole
Megalopolis di Francis Ford Coppola è un film difficile da capire e da descrivere. Non in senso buono.
Non è facile riuscire a elaborare a caldo un discorso compiuto, a poche ore dalla visione, pesando con oculatezza le parole per spiegare cosa sia Megalopolis a chi non sta nella pelle per andarlo a vedere. Ancor più arduo sarebbe provare a mettere in guardia uno spettatore generalista, preparandolo a dovere su cosa lo attenderà una volta spente le luci, essendosi magari recato in sala nella speranza di godere di un buon film senza farsi troppe domande, senza alcuna riverenza nei confronti del regista o effettiva contezza dell’odissea produttiva che accompagna quest’opera attesa da decenni. I dieci milioni incassati in tutto il mondo (a fronte di un budget di centoventi, un centinaio del quale attinto dall’impero vinicolo californiano dello stesso Coppola) al momento in cui scriviamo certificano un dato che sembrava lapalissiano fin da prima che il film fosse presentato a Cannes e che trovasse una sua distribuzione in sala: Megalopolis non è un film per tutti. È un’opera che nasce conscia di non essere immediatamente accessibile a chiunque ma che potrebbe diventarlo un giorno, almeno nelle intenzioni del suo factotum, che ha voluto fortemente realizzare il proprio testamento artistico incanalandovi tutte le proprie risorse per donare un suo lascito ai posteri. Non sappiamo dunque se siamo noi a non essere pronti per questa musica che magari piacerà ai nostri figli, e ci assumiamo tutti i rischi del caso che il dovere di cronaca ci impone nel cercare di analizzare l’ultima fatica di uno dei più importanti registi della storia della settima arte. Quel Francis Ford Coppola che per oltre quarant’anni ha lottato con tutte le sue forze per dare forma e sostanza a quella che, a conti fatti, dovrebbe vagamente somigliare alla sua visione definitiva del cinema, dell’arte, del mondo e della vita.
È molto romantico e in un certo senso apprezzabile il fatto che proprio uno dei padrini, fondatori della New Hollywood, abbia voluto smuovere le fondamenta del sistema, bypassando le logiche produttive di un’industria che sembrava averlo dimenticato, giocandosi tutto (un po’ come Kevin Kostner con il suo Horizon: An American Saga) ipotecando i propri averi per realizzare il suo (ultimo?) film più personale, rigettando il controllo e il giogo delle majors per poter dare libero sfogo alla sua arte senza tagli, finali imposti e senza alcun condizionamento di sorta. Per dare subito un’idea del tipo di risultato che è stato ottenuto, ora che il film è arrivato finalmente nella sale italiane dal 16 ottobre, oltre a Il capolavoro sconosciuto di Balzac faremo riferimento a una puntata di un’opera magari meno elevata ma sicuramente altrettanto utile allo scopo: la serie tv Malcolm in the middle. Nell’episodio in questione Hal, il capofamiglia, in preda a un’improvvisa crisi di mezza età, abbandona il lavoro per diventare un pittore a tempo pieno, con il solo scopo di creare l’opera artistica magna e definitiva chiamata a dare un senso a tutta la sua vita. Per settimane il personaggio interpretato da Bryan Cranston spennella e imbratta una tela (che non vedremo mai) delle dimensioni di una parete con chili e chili di colore, cambiando ripetutamente idea senza riuscire a dare compiutezza alla sua visione. Divorato dall’ossessione, arriva a terminare anzitempo l’opera, presentandola frettolosamente alla famiglia che, a ben donde, è incapace di cogliere un qualsivoglia significato. All’improvviso, Hal ha un’epifania: bastano due ritocchini e un punto piazzato in una zona non meglio definita per dare un senso a tutta l’interezza del quadro, che di colpo si manifesta in tutta la propria magniloquenza agli occhi degli increduli congiunti e del sollevato artista. La gioia purtroppo dura solo pochi attimi, perché le quintalate di pittura finiscono per far staccare la tela dal muro facendo crollare l’opera addosso al malcapitato autore, che finisce così schiacciato dal peso delle sue stesse ambizioni. Più che le accuse di hybris che hanno contraddistinto tutta la gestazione produttiva fino all’uscita su la Croisette, c’è da porsi la domanda se Megalopolis abbia raggiunto, anche solo per poco, quella bellezza abbacinante che ha abbagliato la famiglia di Malcolm alla vista dell'opera compiuta. Difficile a dirlo, specie se il film con al centro un’utopia diventa a sua volta una chimera intangibile e inafferrabile.
Megalopolis è una favola, come esplicitato anche dai materiali promozionali, con un’impalcatura narrativa tipica della tragedia shakespeariana, ambientata in una realtà alternativa in cui New Rome è la città più importante del mondo e l’America assurge a Impero decadente. In questo scenario emerge Cesar Catilina (Adam Driver), un architetto visionario premio Nobel per aver inventato un materiale portentoso, il Megalon, su cui intende basare la ricostruzione e la rinascita dell’intera città. Il suo idealismo indefesso ha come contraltare il pragmatismo del sindaco Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito), corrotto e ammanicato simbolo dell’establishment che al megalon preferisce il cemento ed è interessato solo al mantenimento dello status quo. Tra i due litiganti si trova Julia (Nathalie Emmanuel), devota figlia del sindaco affascinata dalla visione dell'architetto, il quale, non vi è dato sapere come, ha tra le altre cose il potere di fermare letteralmente il tempo. Sullo sfondo si muovono una reporter ambiziosa e bramosa di potere (Aubrey Plaza), un eccentrico e moralmente discutibile magnate (Jon Voight) e il suo avido figlio Clodio (Shia LaBeouf), cugino e acerrimo rivale di Catilina. Se, partendo da questi presupposti, vi immaginate una narrazione che verrà portata avanti in modo canonico, con intrighi di palazzo e lotte intestine di potere, lasciate ogni speranza, voi ch'intrate. Megalopolis è un film allegorico, cerebrale, in cui i personaggi si esprimono attraverso un artificioso citazionismo, spesso e volentieri volto a disquisire sui massimi sistemi attraverso aforismi o massime di Marco Aurelio o Ralph Waldo Emerson. Il sogno idealista e paternalista di Catilina, che altri non è se non l’alter ego di Coppola in tutto e per tutto, è quello di cambiare le cose per migliorare la vita di tutti, ma il paradosso alla base del film è che, per sua stessa ammissione, la pellicola non vuole indicarci la via o spiegarci cosa sia necessario attuare affinché il cinema, la società o il mondo stesso volgano a una conversione migliorativa. Megalopolis è un’utopia, e come tale per definizione non dovrebbe servire a dare risposte ma a porre domande: Coppola non sembra interessato a fornire chiavi o espedienti per sovvertire le iniquità del presente, ma piuttosto a scuotere le coscienze affinché si affronti La conversazione su come risolvere i nostri problemi sociali. Attraverso gli sproloqui di Catilina, un genio controverso, superbo, volubile e fallibile, che è un po’ Robert Moses e molto Coppola stesso, ci viene ricordato che l'eterno ritorno dell'uguale insegna che anche l’America, culla putrescente della nostra civiltà moderna, è destinata a diventare polvere come fu per l'Impero di Roma. Come, quando e perché non ci è dato saperlo, ma l’augurio del regista è quello di anticipare l’inevitabile accompagnandolo, invitando a convergere tutti insieme, mettendo da parte le nostre divergenze, verso una transizione tecnologica ed ecosostenibile che possa garantire una nuova età dell’oro all’umanità. Un mondo migliore per i nostri figli. È questo il proposito quasi infantile che un ottantacinquenne, un nonno, augura ai propri nipoti, un grido di speranza che si staglia nella notte di un cinema sempre più cupo che si fa megafono di un mondo sempre più depresso e tendente al nichilismo, visti i chiari di luna socio-politico-ambientali che si scrutano all’orizzonte. Megalopolis rappresenta il sogno filantropico di un uomo che al tramonto della propria esistenza riflette su se stesso, grande architetto e inventore di mondi e sull’arte, intesa come unica forza capace di cristallizzare e resistere al tempo. Coppola denuncia un mondo in cui il progresso viene sempre ostacolato dalle barriere di chi ha interesse affinché nulla cambi, sia chi lo dice apertamente come il sindaco Cicero sia chi, come il personaggio di LaBeouf (chiaro riferimento a Trump), lo fa altresì in modo subdolo, facendosi espressione di quell’élite che sobilla il popolo mascherandosi da suo pari, cavalcandone il malcontento solo per mero tornaconto politico e personale.
Questo genuino messaggio di ottimismo che tanto ricorda un vecchio spot dell’intramontabile Tonino Guerra deve purtroppo fare i conti con una messa in scena non all’altezza delle sue ambizioni. Chi si attendeva un kolossal potrebbe difatti rimanere deluso dalla portata di Megalopolis che, fatta eccezione per una ricercatezza nelle scenografie e nei costumi della grandissima Milena Canonero (lanciata da Kubrick), anche limitandoci all'impianto visivo convince solo in parte. Non mancano di certo le scene affascinanti tipiche della mano inconfondibile di chi ha segnato un'epoca irripetibile per la cinematografia mondiale, ma la patina barocca tendente al kitsch che avviluppa ogni inquadratura, i suoi momenti squisitamente camp e la mostruosa discontinuità di ritmo, figlia di una sceneggiatura masticata fino all’inverosimile, impedisce di entrare appieno nel film, di emozionarsi e di affezionarsi ad ogni personaggio. La sensazione durante la visione è quella di aver preso parte a un gioco di cui si intuiscono a malapena le regole, che ricorda vagamente qualcosa di già visto ma che non diverte particolarmente, se non per brevi tratti, a eccezione di colui che dà le carte. L’avanguardia visiva di questa New Rome che un po’ strizza l’occhio al Metropolis di Lang e un po' ai film di gangster degli anni Trenta e che nei suoi interni ricorda vagamente le location della trilogia prequel di Star Wars dell’amico Lucas, è alla meglio altalenante, con picchi di delirio visivo e CG traballante tipici delle director’s cut che di solito trovano spazio nei contenuti extra delle edizioni home video. Un grande problema di Megalopolis è la sua contraddizione in termini, il voler essere un film avanguardista nonostante una concezione estremamente classica del racconto, legata a un tipo di cinema e a una letteratura bonariamente novecentesca. Il ruolo dei personaggi femminili in questo senso è perfettamente esemplificativo, essendo le donne principali del film relegate a femme fatale o a devota compagna di uomini potenti, da assecondare e spalleggiare affinché realizzino i propri scopi.
Adam Driver, che curiosamente aveva già preso parte a un altro sogno proibito e covato per anni da Terry Gilliam, qui è in un insolito e totale overacting, così come tutto il cast, ma se c’è da aspettarselo da uno Shia LaBeaouf lasciato libero di andare a briglia sciolta è molto più inusuale veder recitare in questo modo un interprete che ci aveva abituato, specie in tempi recenti, a performance molto più morigerate. Per tacere di un Jon Woight probabilmente mai visto in una veste così macchiettistica. In Megalopolis tutto è talmente denso di concetti e aforismari ambulanti dalle sembianze di implausibili esseri umani che niente risulta davvero tangibile o interessante ai fini della visione: non si coglie il dramma, la storia d’amore tra i personaggi, i loro scoramenti, le loro gioie e le loro pulsioni. Tutto rimane nell’iperuranio delle idee di un regista che sembra non avere più tanto chiara la grammatica alla base della narrazione di un film del 2024, che non scorre mai veramente fluida appesantita com'è, fino allo sfinimento, da spiegoni e dialoghi solenni che finiscono per confinare lo spettatore in un limbo di atarassia e disinteresse verso ciò che si alterna di fronte ai suoi occhi. L'opulenza generosa di un genio che forse avrebbe avuto bisogno proprio di quelle figure tanto vituperate che avrebbero potuto porre un'argine alla sua smania di raccontare tutto ciò che gli è frullato in testa in tutti questi anni. Aiutandolo magari a concepire per il suo messaggio universale una forma più consona, come si confà alle favole più rinomate, atta a diventare fruibile e comprensibile per più gente possibile. A conti fatti l’unica emozione, vera e tangibile, che traspare e pulsa potente durante le due ore e venti del film (curioso che abbia la stessa durata di un altro celebre flop di queste settimane) è l’amore di Coppola verso sua moglie Eleanor, mancata lo scorso aprile e a cui è dedicato Megalopolis. Un amore raccontato trasversalmente come profondo, difficile e travagliato ma non per questo imperituro, alla pari solo di quello del Maestro verso il Cinema. Un'adorazione reciproca che ci auguriamo tutti possa continuare ancora per tanti anni, viste le sue recenti dichiarazioni su ben altri due progetti in cantiere. Con la speranza che un giorno questa recensione finisca nel novero di quelle che avevano preso un granchio commentando i capolavori storici del regista, che furono mostrate nel primo trailer rilasciato e poi ritirato. Anche se, forse, sarebbe meglio non indagare sul perché di quest’ultimo aspetto e ricordare anche quello come una bella favola incompiuta.
Ti potrebbe interessare
Dallo stesso autore
Newsletter
Iscriviti e la riceverai ogni sabato mattina direttamente alla tua email.