Qarabağ, una squadra senza città
La storia del Qarabağ tra guerre, esilio e nazionalismo azero.
Il nome dell’FK Qarabağ suona familiare a chiunque, negli ultimi dieci anni circa, abbia seguito Champions o Europa League. In pochi sanno, tuttavia, che dietro i successi sportivi di quella che è con ogni probabilità è la più forte squadra nella storia dell’Azerbaijan, si cela una storia di resilienza e identità, conseguenze di un legame indissolubile tra il Qarabağ e la guerra che oppone Armenia e Azerbaigian dal 1988 per il controllo della regione montuosa del Nagorno-Karabakh.
La città natale dell’FK Qarabağ, Ağdam (letteralmente, “città bianca”) era un tempo una fiorente cittadina di circa 40’000 abitanti, situata nella zona orientale del Nagorno-Karabakh e fondata a metà Settecento da Panah Ali Khan, primo sovrano del khanato del Karabakh, come riserva di caccia. Conobbe un periodo di grande espansione negli anni Trenta del ventesimo secolo, quando l’Unione Sovietica diede grande impulso all’industria (sopratutto agricola e alimentare) fornì Ağdam di un aeroporto, due stazioni ferroviarie, diversi ospedali e teatri. Insomma, era una tranquilla cittadina di campagna come molte altre. Tuttavia, durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh, la “città bianca” scoprì a suo malgrado di avere una grande importanza strategica per la sua posizione rispetto alla capitale ribelle e armena Stepanakert: Ağdam, a differenza delle aree circostanti, era a grande maggioranza azera e fedele a Baku ed era da lì che l’esercito lanciava missili e operazioni offensive.
Il 12 giugno l’esercito armeno attaccò la città, che cedette dopo oltre un mese di bombardamenti d’artiglieria. Ağdam era armena, ma Ağdam non esisteva più. L’intera città fu rasa al suolo e i suoi abitanti fuggirono in massa. Da allora, è rimasta una città fantasma, un simbolo della devastazione del conflitto, e l'FK Qarabağ ha vissuto in esilio. Costretta a spostarsi nella capitale azera, Baku, la squadra ha giocato le sue partite casalinghe nello Stadio Tofiq Bahramov, ma ha mantenuto forti legami simbolici con la sua città originaria e con l’ormai scomparso tra la vegetazione Imarat Stadium. Nonostante le difficoltà logistiche e emotive legate allo sradicamento, il Qarabağ è diventato un simbolo del popolo azero fuggito dal Karabakh e della retorica irredentista della dinastia presidenziale/dittatoriale degli Alyiev che, non a caso, dopo la vittoria nell’ultima fase delle guerra combattuta nel 2020, ha iniziato la ricostruzione dello stadio come uno dei primi passi del “Primo Programma Statale sul Grande Ritorno nei Territori Liberati della Repubblica dell'Azerbaigian”.
Nonostante le tragedie, l’FK Qarabağ ha continuato a crescere sia a livello nazionale che internazionale. Negli anni successivi alla guerra, la squadra è emersa come una delle più forti del calcio azero, vincendo numerosi campionati e coppe nazionali. Tuttavia, è stata la partecipazione alle competizioni europee a catapultarla sotto i riflettori internazionali. Nel 2017, il Qarabağ ha raggiunto un traguardo storico, diventando la prima squadra azera a qualificarsi per la fase a gironi di Champions League. Questo successo ha acceso i riflettori non solo sulle qualità tecniche del club, ma anche sulle tensioni politiche legate alla sua storia. Ogni volta che il Qarabağ gioca in Europa, il suo viaggio è accompagnato dal richiamo alla questione del Nagorno-Karabakh e dal dramma umano che accompagna la sua storia.
Intervistato da The Independent, l’ex centravanti Müşfiq Huseinov racconta con le lacrime agli occhi il ricordo dell’ultimo giorno passato nella città dove è nato e cresciuto e l’amore per la propria squadra, lacerato per sempre dal dramma del conflitto: Huseinov si era trasferito insieme ai suoi compagni di squadra nella città di Mingecevir diversi mesi prima, all'inizio dell'anno, quando il bombardamento aereo aveva reso Ağdam inabitabile per tutti, tranne che per coloro che erano rimasti a difenderla in armi. Tornato brevemente per visitare suo fratello, ricorda di un falò una sera nel cortile di un amico: "Un missile ci è passato sopra la testa", ricorda. "A quel punto della guerra potevamo riconoscere esattamente dove sarebbe caduta la bomba, di chi sarebbe stata la casa che avrebbe colpito. Lo si capiva dal rumore. Dopo quella volta non sono più tornato ad Ağdam”, dice.
Ai tempi in cui giocava, dopo aver debuttato in prima squadra a soli 14 anni sotto l’ala dell'allenatore ed eroe di guerra azero Allahverdi Bagirov, ucciso proprio nel primo giorno di assedio della città, Huseinov ha segnato oltre cento gol in una carriera decennale che ha attraversato tutta la storia che stiamo raccontando, dal crollo della Repubblica Sovietica dell’Azerbaijan, alla guerra, all’esilio a Baku. “È stato qualcosa di terribile, un trauma che ha quasi portato il Qarabağ alla scomparsa. Ad Aghdam tutti amavano il calcio e durante la guerra è quello che abbiamo dato loro. Abbiamo continuato a giocare, sia per noi stessi che per la gente, ma a un certo punto sentivamo che era diventato un obbligo assurdo. Ogni minuto pensavi che una bomba sarebbe potuta cadere sullo stadio, su casa tua, distruggendoti la vita”.
Nel 2020, il conflitto tra Armenia e Azerbaigian è riesploso in una seconda guerra. Questa volta, le forze armene hanno perso il controllo di parte del Nagorno-Karabakh e, nel novembre dello stesso anno, Ağdam è stata riconsegnata all’Azerbaigian nell’ambito dell’accordo di cessate il fuoco mediato dalla Russia. Il ritorno di Ağdam sotto il controllo azero ha riacceso le speranze per l'FK Qarabağ di poter tornare un giorno nella sua città natale, speranze che, come abbiamo visto, stanno diventando sempre più concrete. Tuttavia, nonostante la retorica, il ritorno rimane ancora incerto. Sebbene le forze armene abbiano lasciato la città, la zona è gravemente danneggiata e disseminata di mine.
Il processo di ricostruzione sarà lungo e complesso, ma l'idea che il Qarabağ possa un giorno giocare di nuovo nella sua città di origine offre una potente narrativa di rinascita. Anche perché da ben prima della guerra, era una squadra speciale e straordinariamente legata al territorio, un territorio dallo straordinario valore simbolico. Una sorta di Athletic di Bilbao azero. Racconta, sempre a The Indipendent, Shahid Kasanov, ex capitano del Qarabağ, che prima della guerra era l'unico club nel paese – e forse l’unico di alto livello in tutta l’URSS – che utilizzava solo e soltanto giocatori locali: “Erano tutti di Ağdam, dirigenti, staff, giocatori e tifosi. Erano i nostri parenti e i nostri vicini di casa. Era speciale, era autoctono. La squadra era di tutti. Il club e lo stadio sono diventati un tempio per gli esiliati”.
Ağdam, dicevamo, cadde sotto i colpi dell’artiglieria armena il 23 luglio 1993, un mese dopo la morte (il martirio, dicono a Baku) del suo storico allenatore. Dieci giorni dopo, il Qarabağ sconfisse l'FK Khazar della città di Sumgayit per 1-0 conquistando il suo primo titolo azero, ma quello fu l’inizio della fine – o quasi. Il club, in esilio, entrò in un costante declino e nel 2001, senza una dirigenza forte e senza una vera e propria casa, si trovò praticamente in bancarotta. Secondo il racconto ufficiale del club, il Qarabağ venne salvato per volontà dell’ex presidente (e padre dell’attuale presidente) Heydar Aliyev, che diede il nulla osta per l’acquisto della squadra da parte della holding statale Intersun. La successiva rinascita, fino all’attuale zenit, delle fortune del club è quindi stata pesantemente politicizzata e soprattutto è legata a doppia mandata ai più che torbidi affari di Intersun, dei suoi fondatori e del sistema corruttivo di stato legato ad Aliyev, agli idrocarburi e a una serie di società offshore intestate alle sue tre figlie, come rivelato dall’International Consortium of Investigative Journalists.
L’accesso alle coppe europee per la squadra che rappresenta, anche nel nome stesso, il Kharabak, è anche e soprattutto un’ottima vetrina per operazioni di marketing politico e di sportwashing. Anche chi non sa nulla della politica internazionale nell’area del Caucaso (immagino la maggior parte delle persone), se ha seguito la Champions o l’Europa League nelle ultime stagioni assocerà automaticamente il nome Qarabağ all’Azerbaijan, nonostante il territorio rimanga conteso ed effettivamente una grande fetta di popolazione della regione sia di lingua e cultura armena. Nello stesso articolo di The Independent, un portavoce del First Armenian Front, ultras nazionalisti armeni, si è espresso così: "Raccontano la storia che vogliono raccontare. Chiamano il club Karabakh e poi lo promuovono come Azerbaigian. È un gioco psicologico. Per noi in Armenia, come tifosi di calcio, è doloroso, perché a causa delle regole FIFA e UEFA non possiamo avere una squadra che porta il nome Artsakh (il nome della regione in lingua armena). Forse è perché in Armenia non abbiamo gli stessi soldi che hanno a Baku e in Azerbaigian”.
Questo articolo è uscito originariamente su Catenaccio, la newsletter di Sportellate. Per ricevere Catenaccio gratuitamente o leggere i numeri arretrati, puoi cliccare qui.
Ti potrebbe interessare
Dallo stesso autore
Newsletter
Iscriviti e la riceverai ogni sabato mattina direttamente alla tua email.