Vedere una partita a Siviglia
Un fine settimana in Andalusia, nobilitato da Betis-Leganes al Benito Villamarin di Siviglia
Siviglia è una città che si può sempre declinare al plurale, con mille anime che non si contrastano ma anzi contribuiscono a formare un humus umano e culturale che rende la capitale andalusa un unicum nel panorama spagnolo. Pur conservando un’anima immanentemente cristiana – la quantità di Madonne e processioni è sorprendente e a tratti rasenta l’opulenza – Siviglia ha una spiccata personalità moresca che la fa risultare molto più nordafricana di quanto la tradizione cattolica, e forse i suoi abitanti, desidererebbero.
Siviglia è una città in cui tradizione e modernità si mescolano creando una miscela esplosiva e magnetica per chiunque riesca a farsi contagiare. Siviglia è claustrofobica – passeggiando per il barrio Santa Cruz si percorrono spesso vicoli dove farebbe fatica a passare una bicicletta – ma anche agorafobica fino allo spasmo, attraversata dal Guadalquivir che più che un fiume sembra un mare che ha deciso di assumere una forma sinuosa e languida per dividere in due la città.
Siviglia è una città flamenca e torera, due arti a cui i suoi abitanti – facciamo tutti gli andalusi – non sanno rinunciare e anzi che vengono utilizzate per sublimare l’anima e innalzare ancora di più la temperatura corporea, già rovente per via dell’umidità che sale dalle falde acquifere del sottosuolo.
Il flamenco e la corrida hanno più punti in comune di quanto si creda, entrambi sono caratterizzate da un approccio gitano, inteso nel significato più puro del termine: spavaldo, sfacciato, a tratti anche maleducato ed esagerato se non si conosce quel mondo; entrambi, poi, rappresentano una sfida: quando si scende nell’arena ci si para davanti ad un toro che ha come unico obiettivo annientare il torero, quando ci si para davanti ad una ballerina di flamenco l’unico obbiettivo è sostenere lo sguardo sofferente e crudo che cerca di scavarti nell’anima.
Entrambe sono sfide mentali e in una città così poco razionale rappresentano un modo per mettersi alla prova, continuamente, in pieno stile gitano.
Un’altra arte di cui i sivigliani non possono fare a meno – e che divide la città – è il calcio. Ci sono al mondo cinque o sei città – forse – dove la contaminazione esterna non attecchisce. Per esempio, a Rosario, in Argentina, o si è del Ñuls o si è del Central; la stessa cosa vale a Roma dove Lazio e Roma egemonizzano la scena cittadina, senza che le grandi del nord abbiamo mai realmente sfondato. Siviglia non è da meno e come le due città sopracitate ha due squadre che danno vita ad una lotta fratricida: il Siviglia e il Betis.
La squadra più antica della città, fondata nel 1890, è il Siviglia, e raccoglie il sentimento più sivigliano-centrico della città. Il Betis, fondato diciassette anni dopo, è la squadra più andalusa delle due e questa identità è ostentata ed esonda anche solo ad un primo sguardo: la maglia del Betis riproduce i colori della bandiera andalusa (bianco e verde, ndr) e anche il nome è un richiamo alla tradizione della regione, Betis, infatti era il nome che gli antichi romani avevano dato al Guadalquivir, il grande fiume che si snoda per tutta l’Andalusia.
Nello scegliere quale partita andare a vedere nei miei giorni a Siviglia non ho avuto dubbi e ho comprato subito i biglietti per il Benito Villamarin, lo stadio del Real Betis Balompié. Sapevo che il Betis ha una delle percentuali più alte di presenze allo stadio in tutta la Spagna, ma trovare i biglietti non è stato difficile. Vicino a noi, nella tribuna scoperta, alcuni posti sono rimasti vuoti, nonostante gli spettatori fossero 48'000: non male per un venerdì sera.
Prima di andare allo stadio è stata obbligatoria una visita allo store del Betis, in Avenida Constitución, per ingrossare la collezione di maglie da calcio e non essere la pecora nera in mezzo alla marea bianco-verde. Da lì, camminando qualche minuto si arriva in Paseo de las Delicias e si inizia a respirare il clima della partita imbattendosi in tantissimi ragazzi e ragazze con la maglia o la sciarpa che stanno andando a prendere il bus in direzione Heliopolis, il barrio dove è situato lo stadio betico.
Il bus è senza dubbio l’alternativa più rapida per arrivare allo stadio (il viaggio dura appena quindici minuti e il biglietto costa 1,40 €) ma la tentazione di prendere un motorino e percorrere i lunghi viali che costeggiano il fiume per sentirsi local è stata davvero forte.
Visto da fuori lo stadio sembra un grande carcere senza il tetto, una grande struttura di cemento che più che uno spettacolo sembra destinata al silenzio e alla noia che, però, hanno ben poco a che vedere con lo spirito con cui i beticos irrorano il prepartita. L’atmosfera prima di entrare è rilassata e chiassosa, con bimbi sulle spalle dei genitori e un sacco di maglie retro – quelle della Kappa le mie preferite – che sfilano verso l’ingresso.
I controlli - come sempre succede in Spagna e quindi figuriamoci nella sua regione proverbialmente più rilassata - sono minimi e dopo averli superati ci si ritrova in questo budello di scale di cemento – ancora il carcere – che però non portano ad una cella bensì a godersi una vista della città pari a quella godibile dalla Giralda, la torre di Siviglia. Lo stadio, come la città stessa, dentro ha un’altra anima: se da fuori sembrava vetusto e triste dentro è esplosivo, elettrico e pieno di vivacità. Fin da prima della partita c’è un brusio che ti riporta ai callejon di Santa Cruz e sembra quasi che ogni persona presente abbia un drappo bianco-verde da agitare.
Il clima è disteso tanto che davanti a noi c’era una famiglia – mamma, nonno e nipote (completamente vestito del Betis) – e molte coppie si godevano la partita come fosse una liturgia laica. Il Betis ha imposto subito il suo gioco anche grazie alle giocate da funambolo di Ez Abde che mi avrà fatto alzare dal seggiolino venti volte nel solo primo tempo, e la partita è piano piano scivolata via con il ritmo cadenzato di una buleria flamenca scandito dal ritmo imposto dagli ultras del gruppo Supporters Sur che si sono anche pronunciati con uno striscione contro le partite il venerdì sera.
I Supporters Sur erano i direttori e il resto dello stadio è stato un’orchestra perfetta che ha accompagnato la squadra con cori ispirati ai ritmi flamenchi ma anche con un assaggio di modernità, mi è rimasto impresso un coro ispirato da una canzone dei Callejeros, una band argentina con testi molto di sinistra e di rivendicazione sociale.
A proposito di Argentina, la partita è cambiata totalmente quando in campo è entrato Lo Celso – altro motivo per cui ho scelto di vedere il Betis – che ha deciso di giocare una partita molto torera: sfacciata, sensuale, cerebrale e infatti ha ispirato il primo gol facendo il passaggio per l’assist di Bellerin – TVB Hector – e facendo vibrare lo stadio al ritmo delle palmas flamenche. È stato davvero inebriante ascoltare 96.000 mani che vibravano a ritmo per sospingere la squadra.
La partita è poi terminata 2-0 con gol di Vitor Roque ma la sensazione, usciti dallo stadio, è che il Betis non si viva come una squadra di calcio e non possa essere confinato ai novanta minuti in cui la sua liturgia si celebra ma che debba andare sempre oltre, per toccare e contagiare tutta l’Andalusia, come il fiume che gli da il nome e che, come i bianco-verdi non smetterà mai di scorrere.
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