Novak Djokovic, campione olimpico
Istantanee e significati della vittoria di Djokovic su Carlos Alcaraz a Parigi 2024.
Nelle Res gestae, opera storica terminata poco prima che gli antichi Giochi Olimpici venissero aboliti da Teodosio, Ammiano Marcellino racconta un aneddoto sull’imperatore Costanzo II. Il figlio di Costantino, già in possesso dell’Oriente, si è impadronito della parte occidentale dell’impero e si presenta a Roma per celebrare il trionfo. L’Urbe è da decenni una città ai margini, l’istantanea sbiadita della megalopoli che fu caput mundi. Costanzo si presenta alla plebe romana per soggiogarla al fascino del suo potere, eppure è la storia millenaria della città a conquistare lui. Voleva stupire ed è rimasto stupito, commenta Ammiano.
Voleva mostrare la sua grandezza, ma si è sentito minuscolo al cospetto dell’immensità di Roma, di fronte al glorioso passato. Gli occhi fissi, impietriti dallo stupore, sono il dettaglio pittorico con cui Ammiano Marcellino visualizza questo inatteso ribaltamento di prospettive.
Molti secoli più tardi, in un mondo del tutto mutato ma ancora legato alla tradizione delle antiche gare di Olimpia, l’ispanico (spagnolo) Carlos Alcaraz si prepara alla finale di Lutezia (Parigi) con una sicumera degna del sovrano nativo di Sirmio (Sremska Mitrovica, Serbia). A fronteggiarlo c’è un illustre conterraneo di quell’imperatore, Novak Djokovic.
Il serbo è, per alcuni, l'uomo più forte mai esistito nel colpire palline con una racchetta, ma è un 37enne che si è inchinato più volte allo strapotere del suo giovane rivale. È un tennista dal passato glorioso e ingombrante come quello della Roma tardoantica, dal quale Alcaraz si attende un omaggio trionfale, il riconoscimento definitivo della propria unicità. Il passaggio di consegne, ufficializzato dalla sacralità agonistica del contesto olimpico, sembra imminente.
Alla vigilia le dichiarazioni di Alcaraz tradivano una sicurezza ai limiti dell’arroganza. Eppure, le sue parole erano in linea coi pronostici. Chi avrebbe potuto neutralizzare nel suo momento migliore il campione di Roland Garros e Wimbledon, il più precoce #1 della storia? La medaglia d’oro sembrava già cingergli il collo. Lo stesso Nole si era uniformato a questa narrativa: «No, non mi considero assolutamente il favorito. Giocare contro Carlos, in questo momento, è probabilmente la sfida più grande che si possa affrontare nel circuito». Pretattica?
Sapevamo che Djokovic avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di conquistare un oro agognato da sempre, ma queste parole mansuete, quasi arrendevoli, non facevano che confermarci nelle previsioni.
Il match doveva ancora iniziare e già ci immaginavamo impegnati ad ampliare i confini del dominio di Alcaraz, a interrogarci su quanto presto potessero diventare incommensurabili.
Tre ore circa di tennis lunare più tardi, al termine di una tra le finali migliori del 2024, vediamo Alcaraz qualche secondo dopo la stretta di mano. Un involucro catatonico, le certezze sgretolate in mille pezzi. Ne osserviamo la presa di coscienza nello sguardo: stupito e poi inquieto, gli occhi di Costanzo di cui parlava Ammiano. Una statua di sale: si guarda intorno, per un attimo sembra scollegato dalla realtà, sconcertato da uno Chatrier in festa per un tennista che non è lui. Pochi minuti più tardi faticherà a sostenere l’intervista, sopraffatto dalle lacrime.
Dall’altra parte della rete si consuma una scena inedita. Novak Djokovic che si segna crollando in ginocchio sulla terra battuta, i palmi da orante rivolti al cielo, il volto deformato dal pianto. Se non fosse per le braccia, che tremano in modo convulso, potremmo pensare a una commozione artefatta, un momento di pathos iperbolico e posticcio. La regia indugia sui particolari di questo corpo martoriato: il tutore grigio al ginocchio operato un mese e mezzo fa, l’asciugamano in cui ora Djokovic sembra soffocare le lacrime.
C’è sempre qualcosa di teatrale nelle esultanze di Novak, ma giocare con i colori della Serbia lo rende ancor più sensibile agli smottamenti emotivi di una partita. Ricordiamo bene l’altalena psicologica contro Sinner in Davis, i tre famosi match point mancati.
Lo stupore di Alcaraz è anche il nostro. Eravamo pronti a salutare il nuovo tiranno del tennis mondiale, invece vediamo sfumare, per l’ennesima volta, l’abdicazione dell’ultimo dei tre cannibali. Il palmarès di Djoker è così mostruosamente ricco che fa un effetto particolare vederlo vincere un titolo per la prima volta. L’oro olimpico è il suo 99°. Il Golden Career Grand Slam è raggiunto, il gioco del tennis completato.
Novak Djokovic è in una fase della carriera in cui il solo motivo per continuare a giocare potrebbe essere quello, vagamente compulsivo, di produrre combinazioni numericamente soddisfacenti: la vittoria degli US Open lo porterebbe a 5 trionfi a Flushing Meadows, 25 Slam totali, 100 titoli complessivi.
La finale che ha ristabilito il primato nei confronti diretti con Alcaraz (4-3) e lenito come un balsamo i dolori della sconfitta di Wimbledon è stata una partita di altissimo livello (7-6 7-6), che ci ha ricordato lo spettacolo unico del tennis d’élite. In giorni in cui può capitare che in TV un quarto di finale tra due top-20 venga interrotto per dare spazio al tiro al volo, alla pallamano, a un incontro in pedana tra due individui mascherati che cercano di toccare il busto l’uno dell’altro con una lama, Djokovic-Alcaraz ha riportato all'intoccabilità elitaria del tennis dei grandissimi.
Quelli delle Olimpiadi sono giorni di arricchimento, durante i quali si impara, si vedono facce, si scoprono talenti, si apprezza la genuinità agonistica degli sport dilettantistici. Anche a Parigi 2024 si sono vissuti giorni in cui il tennis è rischiato di passare in secondo piano, e in fondo è giusto così. Ma è proprio il contesto dei Giochi – il luogo del riconoscimento ufficiale dell’eccellenza sportiva – ad amplificare la portata di questa finale, ad assolutizzare i suoi risvolti.
Il match è stato per molti versi un remake della finale di Cincinnati 2023: un braccio di ferro esaltante, un incontro equilibrato dai picchi tennistici fuori scala, deciso su una manciata di punti e alla fine vinto da Djokovic. Poco dopo Nole avrebbe vinto anche a New York, poi alle Finals. Per Alcaraz iniziava un periodo di luci (poche) e ombre (molte), da cui sarebbe riemerso, in modo scintillante, alcuni mesi dopo.
L’identità dei protagonisti non deve ingannarci: il circuito di oggi non è quello di un anno fa, prigioniero del dualismo tra l’ultimo dei Big Three e il loro unico erede. Quell’aut-aut è oggi invalidato da Jannik Sinner, campione Slam e #1 ATP senza cessare di essere il tennista involontariamente più divisivo del mondo. In finale a Parigi 2024, Alcaraz non è stato perfetto (Djokovic praticamente sì), ma ha perso una partita in cui non ha concesso break e ha prodotto più del doppio dei vincenti dell’avversario, ottenendo punti impossibili per qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra.
In generale, ha pagato una risposta poco continua ed è apparso troppo spesso in balia del servizio del serbo. Per il resto, solo piccole sbavature su un quadro d’autore: nel primo tiebreak si è disunito dopo una risposta fotonica di Nole sul 3-3 pari, nel secondo ha patito il confronto sulla diagonale del dritto e di colpo è apparso smarrito, mentalmente privo di energie.
Per Djokovic, la vittoria contava molto di più. Era l’ultima occasione per regalare l’oro alla Serbia, e ha saputo coglierla con l’unico piano gara che aveva a disposizione: dare fondo a tutte le energie dal primo 15, affrontare ogni punto come un match point, chiudere in due set per impedire allo spagnolo di trasformare la partita in una di quelle lotte gladiatorie che tanto gli piacciono.
A Wimbledon, 4 settimane dopo l’intervento al menisco, Djokovic era giunto in finale grazie a un tabellone poco probante. Aveva raggiunto l’ennesima finale Slam, ma contro Alcaraz era apparso impotente, macchinoso, passivo. Avevamo atteso per tre set la rinascita del demone, una crepa improvvisa nel gioco scintillante dello spagnolo. Ma non era accaduto nulla.
Era davvero quello, Djokovic? L’uomo un tempo capace di imbrigliare gli avversari con le sue arti oscure, di invertire l’inerzia delle partite con la telecinesi? Oppure era stato sostituito, come in Twin Peaks, da un doppelgänger docile e remissivo persino col suo angolo, la versione buonista del Djoker che celebra le sue vittorie come uno spietato conquistatore?
La reazione mancata dei Championships è arrivata a Parigi, concentrata in un distillato di tennis in purezza. Nole ha servito ai limiti della perfezione, ha tirato a tratti più forte di Alcaraz, ha disegnato il campo, mescolato le carte con la smorzata, risposto con la continuità soffocante dei tempi d’oro. Ha giocato la migliore partita dell’anno, indiscutibilmente tra le migliori della sua vita. A 37 anni è stato in grado di battere un giocatore di 21 che sulla terra rossa (e non solo) pare ingiocabile per (quasi) chiunque. Non solo non ha abdicato, ma ha fornito l’ennesimo argomento a suo favore a coloro che amano le discussioni di lana caprina sul cosiddetto GOAT.
Visto che parliamo di Parigi 2024, però, non possiamo ignorare il rovescio della medaglia: all’ammirazione per un atleta inimitabile si accompagna l’indefinito senso di nausea che avvertiamo nel vederne estesa, ancora una volta, l’irritante longevità. Centinaia di partite hanno impresso nella nostra mente il più infinitesimo dettaglio del Novak Djokovic tennista.
Da anni conosciamo a memoria il modo particolare in cui irrigidisce le gambe prima di servire, il tic di sgranare gli occhi prima di un punto importante, la maniera plateale con cui si scompone dopo un errore, le espressioni di sua moglie Jelena in tribuna, gli «idemo Nole», persino il taglio di capelli da omino Playmobil. Una parte di noi è stanca. Desidera la novità, qualunque essa sia. Non lo ammettiamo, ma vorremmo essere proiettati in un mondo in cui il Djokovic tennista esiste ormai solo nei filmati d’archivio, nei cimeli di una bacheca straripante.
Ammirazione e repulsione sono da sempre le componenti inestricabili del nostro giudizio su Djokovic, lo yin e lo yang da cui nasce il fascino chiaroscurale da despota illuminato. Lo vediamo sul podio di Parigi 2024 addentare l’oro, sventolare la bandiera serba. Ci chiediamo se un’uscita di scena adesso, all’apice, non sarebbe il modo migliore per riconciliarci con Novak - o meglio con noi stessi, con la stessa natura di tifosi.
Al termine del suo racconto, Ammiano Marcellino immagina che l’imperatore Costanzo, osservando attonito il Foro di Traiano e la statua equestre dell'ineguagliabile predecessore, riconosca di poter e voler imitare, al massimo, solo il cavallo di Traiano. Forse ieri, sul secondo gradino del podio accanto al più grande tennista della storia, anche al 21enne Carlos Alcaraz, giunto a Parigi per stupire ma rimasto stupito, è passato per la mente un pensiero del genere.
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