Non avrai altro Dio all'infuori di Dennis
La 10 dell'Arsenal, da quando non riempie la schiena di Bergkamp, pare maledetta
Prima della Coppa Rimet 1958, in ambito calcistico, il numero 10 era uno come gli altri. Il fato volle che la federazione brasiliana, giunta nel buen retiro in Svezia, si accorga di aver dimenticato di comunicare alla FIFA la lista dei giocatori, con relativi numeri assegnati. Rimediano di fretta e furia, distribuendone una senza una particolare logica: l'1 al portiere di riserva Castilho, al titolare Gilmar l’inusuale 3; il 2 a capitan Bellini, il 4 al terzino Djalma Santos, il 5 all’anonimo Dino Siani, 6 a Didì, 7 a Zagallo, 8 e 9 a due difensori centrali come Oreco e Zozimo. E la 10?
La 10 finisce sulle spalle del 17enne Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelè. La perla nera del Santos, alla prima apparizione mondiale, con 6 reti trascina i verdeoro al titolo mondiale, scrivendo il primo capitolo della storia di uno del più grande calciatore brasiliano che abbia messo piede sulla Terra, legandosi indissolubilmente alle due cifre sulla schiena.
Senza quella dimenticanza della Seleçao, senza Pelè, non avremmo vissuto il mito di eroi come Diego Armando Maradona, Alfredo Di Stefano, Zidane, Platini, Roberto Baggio e Lionel Messi. Può non avere anche l'Arsenal Football Club, la squadra da più tempo nella massima serie d'Inghilterra, un 10 eroico?
I 10 della storia dell'Arsenal
I libri di storia raccontano che il primo calciatore a vestire la 10 dell’Arsenal sia stato l’attaccante Doug Lishman, comprato a fine anni ’40 per poco più di £10k pounds dal Walsall. Con la maglia biancorossa, in 8 anni di permanenza, metterà a segno 125 reti e aiuterà la squadra a vincere 2 Communtiy Shield, 1 FA Cup e l’edizione 1952/53 della Prima Divisione. Verrà ereditata nel corso dei decenni, seppur per brevi periodi, da altre icone come Charlie George o l’estroso Tony Woodcock, fino a trovare riposo sulle spalle di Paul Merson.
Un poeta maledetto, l’attuale opinionista di Sky Sports UK. Esempio di genio e sregolatezza di un calcio che non esiste più: passo cadenzato, tecnica sopraffina, temperamento da gangster che ha coccolato le generazioni passate dei tifosi dei Gunners prima che il DG David Dein non decidesse di guidare i Gunners - e l’intero movimento calcistico britannico - verso un’evoluzione che, oggi, permette alla Premier League di essere la lega più spettacolare e all’avanguardia.
Il punto di rottura è l’ingaggio di Arsène Wenger, alsaziano prelevato dalla panchina dei giapponesi del Nagoya Grampus, ma l’era glaciale che estinse i vecchi dinosauri britannici iniziò qualche mese prima. L'Arsenale decide di accontentare le pretese dell’Inter e versare nelle casse di Massimo Moratti i 19 miliardi di lire richiesti per poter liberare una meteora olandese: Dennis Bergkamp.
“Trovare Dennis Bergakmp al mio arrivo è stato come un regalo di benvenuto. Sono stato davvero fortunato”, dirà Wenger durante una delle solite conferenze stampa fiume. La genialità dell'olandese sarà la ciliegina sulla torta della suo primo ciclo con l' Arsenal, arrivando a formare con un altro gigante della storia calcistica moderna come Thierry Henry una delle coppie più iconiche che gli appassionati ricordano.
Il celeberrimo goal segnato al Newcastle, in cui con una piroetta ruba l'anima al greco Dabizas prima di insaccare la palla in rete, è solo una delle istantanee tra le centinaia di giocate iconiche, da 10 in purezza, a cui i supporters assiepati sugli spalti di Highbury hanno assistito durante i 9 anni di permanenza di Bergkamp a Londra.
Congedatosi dal calcio giocato col match d’inaugurazione dell’Emirates Stadium, internamente al mondo Arsenal si aprì il dibattito su chi fosse in grado di raccoglierne l’eredità. Oppure se, addirittura, ritirare la sua maglia sarebbe stata la scelta più giusta. Come sempre, Arsène Wenger scelse la terza strada, dando inconsapevolmente il via a una maledizione azteca che colpirà chiunque vestirà il numero di maglia lasciato vacante dall’olandese non-volante.
Willy Gallas, l'insolito 10
Nella tumultuosa trattativa che portò alla cessione di Ashley Cole al Chelsea, l’Arsenal riuscì ad ottenere in cambio l’esperto difensore William Gallas, nazionale francese dotato di una leadership allora mancante all’interno dello spogliatoio dei Gunners, largamente ringiovanito dopo gli addii di quasi tutta l’ossatura degli Invincibles e con un grosso punto interrogativo sulla testa anche di Henry. Per questo motivo, Arsène Wenger scelse di non aggiungere ulteriore pressione ai giovani calciatori presenti al club e accettare la provocazione di uno dalle spalle larghe come Gallas dell’investitura di erede di Bergkamp.
Mai decisione si rivelerà più errata.
L’esperienza del centrale difensivo transalpino assumerà contorni horror col passare del tempo, fino a raggiungere il culmine durante la decisiva sfida di campionato tra i Gunners ed il Birmingham City: al St. Andrew’s, le speranze di titolo dell’Arsenal naufragarono nei minuti di recupero dopo la concessione di uno sciocco calcio di rigore.
In un momento di impasse, condizionato dalla mancanza di concentrazione in seguito al cruento infortunio di Eduardo da Silva, il capitano e numero 10 del club preferì lavarsene le mani. Con un gesto plateale – sedendosi sul terreno di gioco – si isolò dal resto dei compagni di squadra.
La grande colpa dell’allora manager fu non porre subito un freno. La stagione successiva, complici dichiarazioni fuori luogo alla stampa sulle difficoltà di convivenza tra le differenti anime all’interno dello spogliatoio, la situazione deflagrò definitivamente: sembrò inevitabile esautorare Gallas dal ruolo di capitano e collocarlo sempre più ai margini della rosa in attesa della separazione, che avvenne nel giugno del 2010.
Robin van Who, l'erede naturale
Liberata da Gallas, la 10 trovò posto sulle spalle della stella della squadra: Robin van Persie. Olandese come l'idolo Bergkamp, bocca di fuoco del giovane attacco Gunners, van Persie aveva precedentemente vestito l'11 di Wiltord.
Un intervento killer di Giorgio Chiellini durante un’amichevole del novembre 2009 costrinse van Persie a stare ai box per metà stagione e tornare a regime solamente a inizio 2011, giusto in tempo per vestire i panni del supereroe e trascinare la squadra in red&white alla conquista di un piazzamento Champions. L’estate successiva, quella dell’esodo di Cesc Fabregas verso il Barça e del duo Clichy–Nasri verso il Manchester City, l’attaccante resta l'unica stella del club, ricevendo in cambio l’onore di vestire la fascia da capitano.
Con 37 reti e 11 assist, la 2011/12 sarà probabilmente la miglior stagione di Robin van Persie in carriera. Purtroppo porterà il calciatore a raggiungere la consapevolezza di essere arrivato ad un livello più alto del club stesso e di voler iniziare una nuova esperienza. In una separazione dalle ragioni pur comprensibili ma dalle modalità discutibili - almeno per chi dell’Arsenal ne è tifoso - club e calciatore divisero proprie strade nel 2012.
Da quel giorno, nonostante siano cambiati calciatori, dirigenti e generazioni di tifosi, van Persie e l’Arsenal viaggiano su binari paralleli, senza alcuna voglia d’incontrarsi. L’oranje, oltre a un ricco rinnovo di contratto che Wenger si sarebbe impegnato a fargli firmare, avrebbe voluto avere voce in capitolo sulla direzione calcistica del club, suggerendo l’ingaggio di calciatori a lui vicini come van der Vaart, De Jong e Boulahrouz.
Ingerenze mal tollerate dall'amministratore delegato Ivan Gazidis che preferì accontentare il ragazzo nella volontà di trasferirsi a Manchester piuttosto che continuare la convivenza.
La volontà, almeno da parte del calciatore, fu quella di relegare gli anni nel Nord di Londra, poveri di trofei, nello scatolone delle cianfrusaglie riposte in soffitta e presentarsi al grande pubblico come un simbolo degli arci-rivali della metà rossa di Manchester. L’ultimo ricordo resterà una lettera di congedo pubblicata sul sito ufficiale del calciatore che ancora oggi i tifosi non gli hanno perdonato.
Jack Wilshere, il 10 di cristallo
Il palpabile senso di smarrimento attorno al club dopo la cessione dell'ultima stella portò il board a dover mediaticamente dover correre ai ripari, per infondere un nuovo senso di speranza ai tifosi in vista del 2012/13. Col mercato già completo con gli acquisti di Santi Cazorla dalla Spagna, Lukas Podolski e il fresco campione di Francia Olivier Giroud, l'Arsenal presentò al grande pubblico anche il nuovo 10 e uomo copertina del club: Jack Wilshere.
Il local boy, entrato nell'Academy a soli 9 anni, compì tutta la trafila, arrivando a diventare il più giovane debuttante con la casacca biancorossa a 16 anni e 256 giorni, battendo il record di Fabregas. Come il catalano, l'impatto del centrocampista inglese sull'Arsenal e il calcio internazionale fu istantaneo: piccolo, baricentro basso, tecnica e velocità di pensiero fuori dal comune, Wilshere si guadagnò presto la fama di futura stella del movimento inglese.
Nell'album dei ricordi trova spazio sicuramente la notte di Champions League in cui gli alieni di Pep Guardiola capitolarono sotto i colpi di van Persie e Arshavin, ma ad impressionare fu proprio il piccolo (ancora) 19, capace di far ammattire Xavi e Iniesta.
Sulla carriera dal futuro luminoso piombarono, però, i problemi fisici. Nell'estate del 2011, Wilshere soffrì di una frattura da stress che lo avrebbe dovuto tenere ai box per solamente un paio di mesi. Nessuno si aspettava di dover aspettare più di un anno per rivederlo in campo, coi tratti somatici da bambino ormai segnati dalla fatica e la sofferenza e l'iconico 10 sulle spalle.
Nel giorno del ritorno, contro il QPR di Julio Cesar, Emirates ritrovò il suo guerriero, pronto a buttarsi alle spalle i momenti bui e caricarsi l'intero club sulle spalle. Purtroppo le cose non andranno granché bene, anzi: nel marzo del 2013 un contrasto assassino del danese Daniel Agger gli causò una microfrattura al piede sinistro, appiedandolo per il resto della stagione e rendendolo disponibile per la finale di FA Cup solamente per i minuti finali. Ripartito la stagione successiva, Wilshere fu costretto a finire di nuovo sotto i ferri a seguito dell'infortunio occorsogli ai legamenti del ginoccho.
Tornato a maggio fece in tempo a vincere il "Goal of the season" in Premier League, grazie alla volée contro il West Bromwich, e la seconda FA Cup consecutiva. La maledizione non aveva ancora compiuto tutto il suo corso: il 10 dei Gunners soffrirà di un altro brutto infortunio (perone destro) e salterà interamente il 2015/16.
In cerca di minutaggio si trasferirà al Bournemouth, salvo tornare a Londra nel 2017/18, in occasione della farewell season di Arsène Wenger. Ironia della sorte: si rivelerà anche quella di Wilshere. Nel giugno 2018, risolto il contratto con l'ex direttore Gazidis, il nativo di Stevenage lasciò il club. Il 10 è nuovamente vacante.
Mesut Özil, 10 dentro e fuori dal campo
La nomina a nuovo uomo simbolo di Mesut Özil - arrivato all'Arsenal nel 2013, dando vita all'ultimo ciclo di Wenger sulla panchina dei Gunners - sembrò la più logica e naturale conseguenza dopo l'addio di Wilshere. Purtroppo questo periodo si rivelerà tutt'altro semplice per il geniale trequartista turco-tedesco: da calciatore imprescindibile, dal 2018/19 si ritroverà ad essere trattato come un peso di cui disfarsi. Calcisticamente, vista l'attitudine pigra in campo, non si sposò bene né col pensiero tecnico-tattico di Unai Emery e neanche del sostituto - ex compagno di Özil tra il 2013 e il 2016 - Mikel Arteta.
A danneggiare ulteriormente la popolarità di Mesut all'interno del club fu l'extra campo. Özil, da sempre impegnato in attività sociali a tutela delle classi meno fortunate, si espose pubblicamente contro la repressione della Cina nei confronti della comunità musulmana degli uiguri, costretti a vivere in campi di rieducazione a causa dell'aumento di un sentimento indipendentista mal tollerato dallo stato centrale.
“In Cina il Corano viene bruciato, le moschee e le scuole teologiche chiuse, gli studenti uccisi uno ad uno. Eppure la comunità musulmana sta in silenzio”: parole che fecero crollare le quotazioni del club londinese nell'importante mercato cinese, causarono la cancellazione dai palinsesti televisivi delle partite dell'Arsenal, la rimozione dall'edizione allora presente sul mercato del simulatore calcistico Pro Evolution Soccer di ogni riferimento riconducibile al calciatore, addirittura la possibilità di ricercarlo sul web. Una censura di Özil in piena regola, insomma.
Il board, furioso, intimò a Özil di non esporsi più politicamente. Il rapporto continuò a deflagrare fin quando l'incoerenza del club fu palese a tutti: il nazionale tedesco si espose a favore del movimento Black Lives Matter ed espresse la vicinanza alle vittime della SARS in Nigeria, rendendosi ancora più inviso alla neutra dirigenza arsenalista. Come scrisse il New York Times, "Özil non aveva sbagliato ad esporsi politicamente, per il club aveva solamente sbagliato battaglia".
Durante la pandemia, ecco un altro duro scontro: il 10 si rifiutò di rinunciare a parte dello stipendio per aiutare le casse del club. A detta di Mesut, il “no” fu riconducibile alla poca chiarezza sull’uso realmente benefico che il club avrebbe fatto della somma. L'offrirsi di aiutare uno degli storici dipendenti - Jerry Quy, al club per oltre 27 anni nel ruolo della mascotte Gunnersaurus -, licenziato senza troppe remore, mise ancora una volta il club in imbarazzo davanti l'opinione pubblica rendendo inevitabile la separazione con Özil nel gennaio 2021.
Emile Smith-Rowe, l'ultimo 10
L'Arsenal ha impiegato qualche anno a ritrovare i valori e la propria anima, persa negli ultimi anni di dura contestazione verso la famiglia Kroenke - proprietari inermi di fronte al decadimento di un club passato dall’essere avamposto d’avanguardia del calcio inglese a quarta o quinta forza della lega senza alcuna ambizione o direzione -: in questo clima Josh Kroenke, figlio del proprietario della holding Stan, è salito in cattedra ed ha deciso di prendere in mano le redini del club, tracciando una nuova via.
Mediante gli ingaggi dell’ex calciatore Edu Gaspar come DS, la nomina di Per Mertesacker a capo del settore giovanile e quella di Mikel Arteta sulla panchina, l’Arsenal diede il via a un’opera di ricostruzione che vedeva nel ricucire il rapporto con la tifoseria uno dei punti principali da affrontare. Fuor di dubbio è che l’introduzione di tanti calciatori provenienti dell’Academy non abbia avuto solamente una ragione economica, legata all’abbattimento dei costi, ma anche una precisa strategia comunicativa: creare nuovi idoli nei quali la tifoseria si potesse sentire rappresentata.
Uno di questi è stato Emile Smith-Rowe, biondo trequartista, al club sin dall’età di 10 anni e già aggregato in prima squadra da Wenger nel 2018 durante l'International Champions Cup e da Emery per i match di Europa League. Tornato da due periodi di maturazione in prestito al Lipsia e all’Huddersfield, Arteta lo ritenne in grado di dare il proprio contributo con maggiore regolarità, impiegandolo nel peggior momento per il tecnico basco sulla panchina dei Gunners.
Emile ripagò la fiducia del tecnico, invertendo il trend negativo che porterà dirigenza, allenatore e tifoseria a guardare alla stagione 2021/22 con rinnovata speranza nonostante il pessimo 8° posto finale in Premier League. Sembrò giunto il momento adatto per investire il giovane di un’importante responsabilità: se per Saka fu riservata la 7, a Smith-Rowe – oltre a un ricco ritocco del contratto, rinnovato solamente 12 mesi prima - venne concesso l’onore di indossare la 10 di Dennis Bergkamp.
L’inizio di una nuova leggenda finalmente libera dalla maledizione lanciata inconsapevolmente da Bergkamp dopo il suo addio? Macché.
All’inizio del 2022/23, i continui fastidi all’inguine hanno reso necessaria un’operazione che ha tenuto il calciatore ai box da settembre fino a marzo, lasciando che fosse disponibile per una manciata di minuti nelle partite conclusive del campionato. Nel 2023/24, a tormentarlo è stato un fastidio al ginocchio: nonostante fosse convocato da Arteta per la maggior parte delle partite, Smith-Rowe non ha quasi mai visto il campo, partendo solamente 3 volte da titolare in stagione.
Una situazione misteriosa che sembra abbia trovato risoluzione: Smith-Rowe fisicamente sta bene, ma non da insidiare i pensieri di un tecnico che vorrebbe tenerlo - conscio delle qualità del ragazzo - ma anche lucido per comprendere che, a 23 anni, l’ultima cosa che un calciatore vuole fare è ammuffire in panchina alla ricerca di una reale chance che non arriverà mai più. L’offerta di £34 mln da parte del Fulham è bastata per tirare fuori Smith-Rowe dalla naftalina e donargli quel che desidera.
Con l’amaro in bocca, l’Arsenal lascerà probabilmente andare uno dei talenti più luminosi mai prodotti sui campi di Hale End e continuerà la ricerca di quel campione capace di poter scrivere pagine importanti con il 10 sulle spalle. A patto che la maledizione dell’olandese non-volante cessi di mietere vittime.
Tanto lo sanno già tutti, nel Nord di Londra. Non ci sarà altro Dio all’infuori di Dennis.
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