Il dolore è personale
Quello percepito da Angela Carini dopo il pugno di Imane Khelif non dice niente.
Circa 11 anni fa, mi sono rotto le gambe. Non vi annoierò coi dettagli sanitari, ma mi interessava citare questo dettaglio della mia biografia per raccontare come avevo capito che qualcosa fosse andato storto alle mie ginocchia senza neanche guardarle. Immediatamente dopo essere caduto, ricordo distintamente di non aver sentito niente. Ancora più in allarme più di quanto un dolore più intenso – o forse meno, forse il dolore era tanto intenso che il mio corpo ha cercato di non farmene accorgere – avrebbe potuto fare.
Non mi sentivo più le gambe. Se provavo a rimetterle dritte non sentivo più né il meccanismo né il peso che doveva essere rimesso nella posizione consueta. Le gambe erano effettivamente ancora lì, ma a me sembrava di averle perse.
Si chiama sindrome dell’arto fantasma: è un disturbo che può colpire pazienti a cui è stato amputato un arto e che percepiscono, spesso dietro impulsi dolorosi, il pezzo del corpo che gli è stato reciso. Un disturbo estremamente comune, che può colpire fino a 7 persone su 10 a cui è stato amputato un arto. Un disturbo che provoca delle sensazioni anche estremamente vivide, così ovvie e lampanti che ci si può dimenticare di non avere un arto e, ad esempio, iniziare a camminare come se ci fossero due gambe a cui poggiarsi.
Si possono avere ancora le gambe attaccate al corpo e sentirsi di non averle più, ma si può anche aver subito un’amputazione e credere di avere ancora la gamba. Situazioni opposte provocano reazioni opposte: ci sono persone per cui il dolore è talmente intollerabile da andare dal medico ad ogni occasione buona, altre che si azzittiscono, sviluppando un rapporto personale - quasi mai mediato da professionisti - col dolore.
Anche senza rappresentare una di queste due categorie, non vi è mai capitato di sentirvi male in uno specifico posto, o provare sintomi di una specifica malattia? E poi sentirvi dire, da un medico o da un vostro genitore con il termometro, che non avevate niente?
Nel campo dell’antropologia medica esistono tre termini inglesi, quasi mai tradotti, che pongono dei contorni a queste divergenze: disease intende la malattia in senso biomedico, quella cosa che la medicina rileva prendendo in analisi parametri organici; illness si riferisce all’aspetto soggettivo della malattia - come viene vissuta dal paziente, il livello e la locazione del dolore; sickness, invece, è l’aspetto sociale e culturale della malattia, tutte quelle credenze e reazioni che possono influenzare il modo in cui il paziente reagisce, o anche solo la definizione di quale sia una malattia a cui riservare un trattamento clinico.
Il dolore è un’esperienza personale, ed è solo una nostra esperienza personale. Non esiste una scala, perché non esiste un linguaggio comune che ci permetta di quantificare allo stesso modo una fitta della stessa intensità e perché non è possibile utilizzare gli stessi parametri che la biomedicina usa per definire il nostro disease per comprendere la nostra illness.
Come possiamo spiegare questa differenza, allora? Cosa fagocita la nostra sensazione del dolore e l’intensità con cui lo viviamo? È una risposta complicata: non esiste una spiegazione univoca. Non sono accettabili dati quantitativi, si tratta piuttosto di un’operazione qualitativa.
L’antropologo Byron J. Good parla di mondi di esperienza, basandosi su una lunga storia filosofica per proiettare l’idea di diverse sfere di analisi e concezione del circostante, dei quali il mondo oggettivo della realtà scientifica rappresenta solo una delle tante sfere possibili. Edmund Husserl parlava di Lebenswelt, il mondo della vita, delle nostre esperienze vissute, e teorizzava che fosse questo il mondo su cui quello delle scienze andava a costruirsi, e non viceversa.
Arthur Kleinman ha dimostrato come “il significato viene creato nella malattia”, o, per dirla con Good, che cita lo psichiatra di Harvard nel suo “Narrare la malattia”, “come i valori culturali e i rapporti sociali plasmano l’esperienza del corpo e della malattia, e collocano la sofferenza in mondi morali locali”. Nel suo libro, lo statunitense elenca una serie di narrazioni delle malattie fatte dai pazienti stessi: spesso nei racconti rientrano non fattori di tipo organico, ma si ritengono fondamentali eventi chiave nella loro vita.
Good fa l’esempio di alcune donne iraniane che assegnano la responsabilità del loro mal di cuore a litigi con le suocere o a screzi coi mariti. Qualsiasi sia il loro disease, se anche sia rintracciabile da un medico, la percezione dell’illness è fondamentalmente informata da ciò che sta intorno a queste persone, e non ciò che vi sta dentro.
Nelle ultime ore si è parlato molto, in Italia ma anche nel mondo, del dolore. Non di uno qualsiasi, ma di quello di Angela Carini, boxeur italiana sconfitta al primo turno di Parigi 2024 dall'algerina Imane Khelif - vittima, quest’ultima, di un attacco coordinato da forze politiche, organi mediatici e account X con la spunta blu “anti-woke” che l’hanno accusata, in maniera infondata e ignorante, di essere una/un transgender.
Per definizione, una persona transgender non si riconosce con il genere assegnato alla nascita: Khelif è stata registrata all’anagrafe come donna e si identifica come tale, per di più in un paese in cui qualsiasi chirurgia di riassegnazione del sesso è vietata e con una legislazione molto repressiva per la comunità LGBTQ+.
Lo scontro tra Carini e Khelif
Il video del match mostra Carini che, a 36" dall’inizio del Round 1, si avvicina due volte al proprio allenatore, Emanuele Renzini. Il maestro ha parlato a Fanpage di un dolore al naso derivante da un paio di colpi di Khelif. Incoraggiata dapprima dal tecnico ad arrivare almeno fino alla fine del round, Carini avrebbe resistito pochi secondi prima di rivolgersi di nuovo al suo angolo dicendo “No, maestro, basta, io non voglio combattere”.
Inizialmente, Renzini aveva pensato che il dolore potesse essere legato a un problema di salute avuto recentemente da Carini: un ascesso dentale, che l’ha costretta a rimanere sotto antibiotici nei giorni precedenti alla gara. La stessa pugile napoletana avrebbe però confermato a Renzini di essersi ritirata perché non vedeva un modo per vincere l’incontro.
In seguito alla sconfitta di Carini, la sua decisione di non salutare l’avversaria - forse influenzata parzialmente dal dolore provato - è stata analizzata. Finanche strumentalizzata, da una consistente parte della critica, che ha voluto intravedere un gesto politico. La realtà è questa: non sappiamo come stia Angela Carini, non viviamo la sua esperienza del dolore, non conosciamo cosa l’abbia motivata, e questo vale qualsiasi sia la nostra opinione sul suo ritiro e sul suo mancato saluto.
Se nei prossimi mesi Angela Carini dovesse sfruttare la sconfitta per fare campagna d’odio contro Khelif o contro la partecipazione di atlete transgender nello sport femminile – che ricordiamo essere due questioni diverse, e nel secondo caso non giustificata da alcuna prova concreta – alla pari della nuotatrice statunitense Riley Gaines, finita 5° a parimerito con l’atleta transgender Lia Thomas ai campionati NCAA di nuoto sui 200 stile e diventata volto dell’alt-right USA, allora avremmo mezzi più chiari per interpretare le sue azioni.
Idem se facesse il gesto esattamente opposto: e se difendesse ad alta voce Khelif dagli attacchi che continuano a pioverle addosso? Fino ad allora possiamo solo speculare.
Quello che sappiamo è che Angela Carini, prima dell’incontro, si è detta assolutamente disponibile a gareggiare contro Khelif. Che se al CIO andava bene la partecipazione dell’atleta algerina, andava bene pure a lei. Sappiamo che le due si conoscono, hanno probabilmente già fatto sedute di allenamento insieme - Renzini ha parlato di una nazionale algerina ospitata al centro federale di Assisi - e hanno rapporti quantomeno cordiali.
Sappiamo che in 47 incontri, Imane Khelif non ha mai costretto al ritiro una sua avversaria al ritiro, e che ha raccolto 38 vittorie, con soli 5 KO, e 9 sconfitte, una delle quali in finale mondiale nel 2022 contro la britannica Amy Broadhurst. Sappiamo che Khelif ha effettuato numerose volte controlli per determinarne la capacità di competere contro donne, e che è sempre passata, inclusa a quelli per Tokyo 2020. In un unico caso non li ha superati, dopo un controllo eseguito dall'IBA, una federazione che, per altre questioni, è stata esclusa dal CIO.
La finale mondiale del 2022
Nulla di tutto questo può darci una spiegazione esaustiva di ciò che è successo: potrà arrivare solo da Angela Carini, se lo vorrà. Possiamo provare a identificare una lettura alternativa - sapendo quello che sappiamo su cosa muova il dolore, su come la sua percezione sia totalmente soggettiva e influenzata dal mondo che ci circonda, oltre che dalle cause fisiche dei nostri incidenti corporei - ma che non sarà necessariamente vera, che non vuole e non può essere usata per prendere decisioni sul corpo di Imane Khelif.
Sappiamo che per un paio di giorni Angela Carini è stata esposta a una pressione enorme. Ha sentito quasi tutte le cariche più importanti dello Stato italiano esprimersi sulla sua lotta. Ha letto voci che le chiedevano di ritirarsi per proteggere la sua incolumità. Ha letto bugie e illazioni non provate sulla sua rivale. Ha dovuto rispondere a giornalisti che le chiedevano se fosse una lotta giusta, equilibrata, legale.
La sua testa è stata riempita dall’idea che non ce la potesse fare, che fosse pericoloso anche solo provarci. A dimostrazione che dietro queste voci non ci fosse mai un intento benefico ma solo la voglia di attaccare una comunità, tutti questi discorsi assomigliano tremendamente a quando i futuri atleti si sentono dire che non riusciranno ad arrivare in cima, che i numeri sono contro di loro.
E per quanto spesso storie di questo genere siano dietro ad atleti di successo, come Jaylen Brown in NBA, non è normale né ragionevole attendersi che la reazione a questi dubbi si risolvano in una spinta motivazionale. Possono avere, e nella maggioranza dei casi hanno, un effetto contrario.
L’intera vicenda del match Carini-Khelif è stata monopolizzata dall’idea che ci sia del maligno, che qualche organo abbia preso o debba prendere decisioni non sulla base del singolo caso ma su principi tagliati con l’accetta, alcuni fondamentalmente antiscientifici, alcuni certamente errati nel momento in cui identificano Imane Khelif come una donna transgender.
È una storia che nello sport si ripete da tanto, ben prima di Caster Semenya nell’atletica, e che a questi giochi ha coinvolto anche le calciatrici zambiane Rachael Kundananji e Barbra Banda. È l'ulteriore evidenza di uno stereotipo fortemente occidentale e razzista di cosa debba essere la donna, e un desiderio neanche troppo nascosto di eliminare tutti i corpi non conformi dall’agone.
Che si lavori sulle singole situazioni o sui grandi schemi, comunque, non si può prescindere dall’idea che non sia possibile usare il dolore come strumento d’analisi e prova utile a prendere una decisione di questo genere: non solo la soglia del dolore è differente e soggettiva per qualsiasi persona, ma anche i mezzi della comunicazione del dolore sono sfasati e individuali.
Puntare il focus sull’aspetto del dolore, della sofferenza, della decisione di Angela Carini di ritirarsi perché non riusciva a continuare, è una fondamentale incomprensione dei meccanismi in atto. Non rappresenta un tentativo in buona fede di aprire un tavolo di discussione, ma un tentativo di ammutinare il discorso, di confondere le idee alle persone a scopi propagandistici.
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