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Carini Khelif
, 2 Agosto 2024

Khelif-Carini e i pugni della propaganda


Come un incontro di pugilato è diventato un campo di battaglia politico.

Non volendo per bontà d'animo cedere a suggestioni machiavelliche, una cosa che più di altre appare evidente nel ritiro di Angela Carini nella sua brevissima sfida contro Imane Khelif valida per ottavi di finale dei pesi welter, è lo schiacciante, devastante peso della tensione. Tensione alla quale la due giorni di grancassa mediatica nazionale (e istituzionale) non possono non aver contribuito.

Come ha scritto su queste pagine Alessandro Acquistapace, "la sua testa è stata riempita dall’idea che non ce la potesse fare, che fosse pericoloso anche solo provarci. A dimostrazione che dietro queste voci non ci fosse mai un intento benefico ma solo la voglia di attaccare una comunità, tutti questi discorsi assomigliano tremendamente a quando i futuri atleti si sentono dire che non riusciranno ad arrivare in cima, che i numeri sono contro di loro".

Senza speculazioni di sorta, Carini è salita sul ring già battuta, travolta dai tamburi che risuonavano di una sua inevitabile sconfitta poiché destinata a scontrarsi "contro un uomo". E se la paura è sentimento comprensibile per il suo esser genuinamente umano, non ha nemmeno senso stare qui a giudicare la scelta o invocare la necessità di spiegare nel dettaglio (a caldo o più lucidamente) quella decisione di ritirarsi.

Anzi, la scelta ancor più scioccante di un suo addio definitivo alla boxe può perfino assumere un senso di consapevolezza, per quanto confuso: in fondo che un pugile che ha paura del dolore resta un pugile che ha già perso, che forse ha perso la capacità di combattere alla pari con l'avversario. Esattamente come profetizzato sui giornali i giorni prima. Bella fregatura, le profezie autoavveranti.

All'altro angolo del ring, la vincitrice Imane Khelif, un'atleta di nuovo al centro di una kermesse mediatica devastante, che magari avrebbe preferito vincere il suo combattimento nello spirito della spesso esaltata sportività del pugilato, con un incontro avvincente, e con il saluto di rito da parte dell'avversario. E, questo lo si può affermare con ragionevole certezza, senza diventare di nuovo oggetto di una campagna propagandistica velata di transfobia relativa ai controlli di genere nello sport, campagna che per convesso ha finito per agevolare la sua rapida vittoria, ben più dei suoi discussi (e regolari) livelli di testosterone.

Per quanto esista un'enorme frammentarietà di notizie, alcuni punti fermi su Khelif li possiamo mettere. Il primo è che non è una pugile transgender, ma è una pugile donna, nata donna, cresciuta e vissuta donna. Di certo, lo è sotto il profilo fenotipico, pur vivendo probabilmente una condizione di iperandrogenismo e rientrando nella categoria dei DSD, ovvero dei Disturbi della differenziazione sessuale. Eventualmente, un termine ombrello per categorizzare il suo caso può essere intersex, poiché il suo fisico “non corrisponde alla definizione tipica dei corpi maschili o femminili”.

Gli sbalzi dei suoi livelli di testosterone, discutibile deus ex machina delle verifiche sull'identità di genere nello sport, potrebbero confermare questa condizione. Una casistica simile - ma non identica e sovrapponibile - a quella ben nota di Caster Semenya, velocista sudafricana degli 800 già due volte oro olimpico, squalificata dalle modifiche normative della World Athletics sui livelli di testosterone: un potenziale caso di scuola in termini di nuovi e condivisi regolamenti, ma ad oggi un nulla di fatto che ha in sostanza arenato la carriera dell'atleta africana.

Il secondo punto fermo è che Imane Khelif, avvantaggiata o meno dalla sua struttura muscolare naturale, non è una pugile invincibile. Sicuramente quotata, ma non invulnerabile né qualcosa avvicinabile alla parodistica rappresentazione di Ivan Drago in Rocky IV. Fino a questi ottavi di finali olimpici, aveva 36 vittoria e 9 sconfitte in carriera, tra cui quella nella finale dei campionati mondiali dilettantistici nel 2022 e quella nei quarti di finale di Tokyo.

Sulla carta, Carini con più di 80 vittorie negli oltre 100 incontri in carriera, sarebbe stata una pugile più esperta dell'avversaria (nel 2019, anno del suo argento ai Mondiali, Khelif chiuse 33esima), seppur probabilmente oggi inferiore sul piano tecnico. Un'inferiorità di certo ampliata dal macigno insopportabile della tensione in quei tremendi 46" di combattimento, dove, al netto della tanto evidenziata potenza dell'algerina, anche un occhio inesperto poteva notare la lunga sequela di errori posturali e tecnici della pugile campana.

Qualcosa di così palese da andare oltre le carature delle due atlete, e tantopiù le loro identità di genere: Carini non poteva vincere, non già perché alle prese con una sfida impari contro un uomo (per favore, su), ma perché già psicologicamente sconfitta dall'esplosione mediatica della sua sfida contro Khelif.

Il terzo punto fermo che si può mettere è che Khelif gareggia alle Olimpiadi nella categoria welter (66 kg) perché in regola con i livelli di testosterone richiesti dal CIO, ovvero 5 nanomoli per litro di sangue, con rilevazioni a partire da un anno prima di Parigi 2024. Ed è proprio qui che la questione etica irrisolta da decenni, quella dei controlli sul genere riservati alle atlete donne, diventa caso politico-mediatico. Perché per il CIO può gareggiare, e per la IBA (la federazione internazionale di boxe) no, vista la sua esclusione nel 2023 dai mondiali?

Perché IBA e CIO sono ai ferri corti da tempo, al punto che la boxe è clamorosamente "sospesa" nell'ambito dell'organizzazione di Los Angeles 2028. E l'intricata rete di relazioni (ostili) tra le due organizzazioni rientra nel quadro più ampio delle relazioni geopolitiche est-ovest, ma anche del loro inasprimento post 2022 e annessa escalation ucraina: come ha spiegato Valerio Piccioni su Domani, il mondo della boxe vede oggi una federazione internazionale a rischio scissione, e uno sport persino sfibrato dal lungo corpo a corpo con il Comitato Olimpico, condotto dall'uzbeko Gafur Rakhimov, e dal 2020 dal russo Umar Kremlev, uomo di fiducia del Cremlino e pesantemente sponsorizzato da Gazprom.

Non si parla di dettagli: per Mosca, dall'intervento militare in Ucraina la boxe e soprattutto l'egemonia sulla IBA sono uno dei pochi ponti aperti sul mondo dello sport, ambito che ha quasi visto sbriciolarsi il suo sistema di soft power al punto che, dopo due anni, ancora vige il tanto discusso (e discutibile) ban degli atleti di nazionalità russa, anche in questi giorni presenti a Parigi solo in veste individuale e sotto i colori della bandiera olimpica.

In questo, il "caso" Khelif già all'epoca dell'esclusione dal Mondiale assunse fosche tinte propagandistiche, proprio per bocca del suo presidente e del non meglio specificato "test sul DNA" al quale fu sottoposta l'atleta algerina. Test "accessorio" peraltro non esplicitato - per motivi di privacy - dalla IBA nei suoi comunicati, e non nominato dal CIO a proposito di tale squalifica.

Oltretutto, nel quadro della scivolosa e ampiamente irrisolta questione dei controlli sul genere nello sport, dove sempre aleggia un'aura di pervasiva ossessione rispetto alle atlete e alle loro caratteristiche fisiche, i test sul DNA sono stati esclusi da almeno trent'anni in quanto strumento inaffidabile e inutilmente pervasivo, tendente più a utilizzare il maniera discriminante la rivelazione di disordini genetici che a garantire la "regolarità delle gare", con svariati casi di atlete escluse dalle competizioni senza che esse, sotto alcun aspetto, presentassero alcun carattere tipicamente considerato maschile, tantomeno tale da dar loro un vantaggio.

D'altronde, gli stessi test sui livelli di testosterone per molti aspetti sono una soluzione di compromesso, mancando effettive e univoche rilevanze sul vantaggio fisico e atletico che la produzione naturale (e si sottolinea naturale, altrimenti si parla di doping) in eccesso dell'ormone maschile possa dare alle atlete. Alessia Tuselli, ricercatrice del Centro interdisciplinare di studi di genere dell'Università di Trento e autrice sportiva, ha efficacemente spiegato tali questioni in questo su post su Instagram.

La questione sull'identità di genere è un tema che le contrapposte propagande utilizzano con l'accetta per costruire e definire immaginari, propri e del nemico. Lo fanno spesso in maniera ipocrita, o con picchi che rasentano l'ossessione come già mostrato dalla governance russa. Un tritacarne dove Carini e Khelif sono state trascinate dentro, seppur in maniera molto differente: la prima come vittima sacrificale (e, in fondo, sacrificabile), la seconda come "mostro".

La strumentalizzazione del caso Khelif - non il primo, né ahinoi l'ultimo - rientra in questo scenario di "montanti mediatici": per Kremlev, nella guerra contro il presidente del CIO Bach, le più severe restrizione sui livelli di testosterone per le boxeur (2.5 nanomoli contro 5) sono valse il porsi "a tutela delle atlete donne", ovvero una carta propagandistica importante capace di far leva su un tema che il Comitato Olimpico non riesce a risolvere in maniera netta. Oltre a Khelif, ne ha già fatto le spese anche la pugile taiwanese Lin Yu-ting, anch'essa esclusa dai mondiali di boxe e anch'essa ammessa alle Olimpiadi parigine.

D'altronde, sempre la stessa questione è stata altrettanto spendibile per la comunicazione più strettamente politico-elettorale, come nel caso di Vox in Spagna nel 2023 (con miseri risultati) e oggi per le forze dell'arco governativo in Italia, ben pronte ad agitare lo spauracchio dell'atleta trans in un'Olimpiade che fin dalla cerimonia di apertura ha giocato forte (e forse fuori tempo massimo visti gli sviluppi elettorali in Francia) sull'immagine di una Parigi capitale dell'inclusività e della parità.

A chiudere, e a evidenze per l'ultima volta quanto è distorsiva e usurante la pressione politico-mediatica sulla kermesse olimpica e sugli atleti, resta curioso come, in giorni dove gli atleti italiani sono talvolta colpiti da un'implacabile severità nelle narrazioni a mezzo stampa (dal forfait di Sinner al quarto posto millesimale della diciannovenne Pilato nei 100 rana), sia così omaggiato e coccolato l'abbandono dopo pochi istanti di una sconvolta Carini, per quella che, svanita la nebbia propagandistica e digeriti tutti gli umori feroci di questi giorni, resta soprattutto una pessima prestazione sportiva. Probabilmente, l'ultima della sua carriera.

  • Scribacchino schierato sull'ala sinistra. Fiorentina o barbarie dal 1990. Evidenzia le complessità di un gioco molto semplice.

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