Le regole di Spalletti sono davvero esagerate?
Il CT ha dettato alcune linee guida di convivenza civile per l'Italia di Euro 2024.
Qualche giorno prima della gara inaugurale dell'Italia a Euro2024, hanno iniziato a circolare in rete le regole imposte da Spalletti da osservare nel corso del ritiro di Iserlohn. Questi precetti, sulla falsa riga di quelli tecnico-tattici, sono stati riassunti sotto forma di pentalogo. Nessun ritardo concesso; limitazione all’uso dei cellulari; no cuffie; utilizzo limitato della playstation; niente scherzi e risate sopra le righe.
Spalletti, un paio di mesi prima dell'inizio della competizione, aveva già avuto qualcosa da dire sull'uso improprio delle console da parte dei calciatori. Aveva speso parole abbastanza dure, facendo riferimento a un episodio specifico accaduto poco prima di aver rilasciato l'intervista a La Gazzetta dello Sport. Sull'uso dei videogiochi in ritiro, poi, ha chiarito la sua posizione in una conferenza stampa più recente: non ha vietato l'utilizzo della playstation, ma ad Iserlonh è stata adibita ad hoc una stanza per i giochi dei calciatori.
Playstation a parte, le regole imposte da Spalletti hanno destato l’attenzione del grande pubblico, volta - in assenza di impegni calcistici concomitanti - esclusivamente alle vicende dell'Italia. Se nel calcio di tutti i giorni commenti e polarizzazioni attorno a un argomento già si sprecano, quando i nostri beniamini vestono le maglie della nazionale ogni aggiornamento - comprensibilmente - si amplifica. Anche chi non è patito di calcio per club vuole avere il suo sacrosanto spazio di esprimere la propria opinione.
Dal dibattito, sulla scia del metodo moderno di costruzione del confronto (anche in ambiti extrasportivi), non potevano che emergere due fazioni completamente opposte. La prima sostiene strenuamente che Spalletti abbia fatto bene a limitare la tecnologia e a imporre delle regole ben delineate. Fulvio Collovati, ad esempio, alla domanda se si trovasse d’accordo con le scelte di Spalletti (con particolare riguardo al limitato uso alla tecnologia), ha chiosato: «Finalmente un allenatore che lo fa. Sembravano tutti dj, ha ragione Spalletti. Io la concentrazione la trovavo pensando e riflettendo. Se senti il rap non è che ti concentri, la concentrazione è un'altra cosa a meno che non senti Beethoven o la musica di Zimmer, perché in quel caso ti carichi e ti rilassi. Ma con il rap è solo distrazione, è un non pensare alla partita».
Dall’altro lato, si potrebbe obiettare che le regole siano un tantino stringenti: al di là delle partite e delle sessioni di allenamento, i calciatori saranno circondanti quasi esclusivamente dalle mura del quartier generale dove alloggeranno - più o meno a lungo - nel corso della più importante kermesse sportiva continentale. Uno svago in più non avrebbe fatto di certo male?
Sarebbe tanto, troppo facile andare a pescare un argomento dalla faretra del qualunquismo. Troppo semplice rispondere a chi non apprezza le regole di Spalletti: «Sono ragazzi fortunati. Guadagnano tanto e fanno una vita che tutti vorrebbero fare». Tuttavia, chi muove queste argomentazioni spesso dimentica che si parla di una percentuale infinitesimale di persone, che si sono distinte nel corso degli anni per delle capacità difficilmente replicabili. Ricordate la posizione di Vittorio Sgarbi in uno dei siparietti più famosi e iconici della televisione anni ’90?
Per di più, trattandosi di giocatori d’élite, molti dei giocatori scelti da Luciano Spalletti per la spedizione tedesca hanno giocato a un ritmo incessante nel corso dell'intera stagione. Aggiungere agli ormai consueti ritmi folli una competizione europea estiva è fonte di forte stress fisico e mentale per il singolo calciatore; significa anche tempo in meno da dedicare alla propria famiglia e ai propri affetti. Un aspetto per noi normale, ma che troppo spesso tendiamo a dimenticare nel valutare quanto siano privilegiati i calciatori.
Al di là di questa infinita diatriba - destinata a non sopirsi a breve - le regole di Spalletti hanno dato vita anche a un dibattito intergenerazionale. Almeno in linea generale, non stupirà se i cinque principi etici siano stati guardati con favore da chi è un po' più âgée e con meno favore dai nativi digitali.
Sia chiaro: non vuol dire che una posizione appoggiata da una generazione più giovane sia automaticamente giusta, ma è anche vero che quando le fazioni si differenziano in base all’età esiste un problema di incomunicabilità di fondo. Questa generazione di calciatori è una delle prime quasi interamente composta non solo da nativi digitali ma con anche qualche componete nativo social: ragazzi e persone che non possono nemmeno immaginare com'era il mondo prima di Facebook o Instagram.
Sarebbe stupido pensare di mettere a confronto una generazione nata con il cellulare tra le mani con una generazione che, per la mancata esistenza di questi, aveva fisiologicamente altri svaghi su cui concentrare la propria attenzione. Per non parlare del fatto che, senza voler mettere in discussione la professionalità di alcuno, di storie nei vari ritiri (anche prima di gare particolarmente importanti) se ne sono sentite parecchie.
I motivi alla base della scelta di appoggiare i principi indicati da Spalletti ruotano tutti intorno al concetto di disciplina. Un termine che, a detta di molti, i giovani calciatori non avrebbero adeguatamente compreso. Un po' la stessa critica che, astraendosi dal calcio, viene mossa alle nuove generazioni, con anche qualche riferimento (tutt'altro che sporadico) all'opportunità di reintrodurre il servizio militare obbligatorio per impartire disciplina a queste - un'esagerazione, ma nemmeno troppo.
Che ci sia un problema diffuso con l’abuso della tecnologia e dei videogiochi, anche da parte dei calciatori, è cosa abbastanza risaputa. Il rimprovero di una mancanza di disciplina a calciatori professionisti - peraltro la maggior parte presente da tempo nel giro della selezione nazionale - assume però tratti surreali: come si può pensare che dei giocatori a questi livelli non abbiano adeguata disciplina? Come si spiegherebbe, in assenza di questa, la quantità di partite giocate a ritmi particolarmente sostenuti?
La sorpresa non è tanto nelle regole imposte da Spalletti - de facto sono regole non scritte di buonsenso - quanto nella necessità di doverle prima "formalizzare" e poi renderle pubbliche. Come per far vedere che il gruppo è costantemente tenuto sotto tensione, anche per compiacere gli spettatori da casa. Si tratterebbe, insomma, di una mera strategia comunicativa.
Queste regole, cioè, rappresentano un modo per rassicurare i più diffidenti del fatto che i giocatori della nazionale saranno concentrati sugli impegni che il campo da gioco gli riserverà. Una sorta di excusatio non petita di fronte alle critiche piovute sul livello della nazionale, rea di non essere così forte secondo i nostri standard di riferimento.
Per compensare l’assenza di talento, seguendo questo ragionamento, è necessario creare un gruppo forte. Questo, a sua volta, non può ottenersi se non per mezzo di regole ferree. Il pretendere un comportamento esemplare va ben oltre il buon esempio che si potrebbe dare ai ragazzi più giovani: è proprio un mezzo per ottenere un risultato migliore. Quante volte nella storia del calcio si è chiuso un occhio di fronte a episodi di poca professionalità da parte dei giocatori di maggior talento?
Se dovessi esprimere un'opinione in prima persona, non mi trovo in disaccordo sul comune denominatore delle regole dettate da Spalletti: voler garantire condizioni psicofisiche adeguate e creare un gruppo compatto non è un'ambizione strampalata. Non sono però un sostenitore - eufemismo - di regole imposte a professionisti - in alcuni casi addirittura genitori. O comunque, se proprio si devono imporre, che rimangano all'interno del ritiro e non pubblicizzate con il rischio di alimentare il circolo calciatore-privilegiato-viziato.
Un allenatore, e ancora di più un selezionatore, ha (o dovrebbe avere) a disposizione materiale umano già formato: ogni tentativo di trasporre regole di buonsenso e privazioni temporanee non fa altro che portare a galla un recondito (e forse non così necessario) senso di paternalismo. Abbiamo colpevolmente, almeno per un attimo, influenzati dalla bellezza del gioco vincente proposto a Napoli, accantonato il ricordo del carattere non certo mansueto di Luciano Spalletti?
Abbiamo avuto il piacere di intervistare Filippo Galli: nel corso della chiacchierata si è insistito molto sul concetto di responsabilizzazione del calciatore. Si parlava di un ambito di campo, ma con dei chiari riferimenti al fatto che quel tipo di gioco (si parlava di costruzione dal basso) potesse avere dei risvolti pratici nella vita di gruppo e privata. Si voleva dire, in estrema sintesi, che il ragazzo deve essere allenato a prendere una scelta, a prendersi le proprie responsabilità.
Queste regole previste per i calciatori della Nazionale stridono con i princìpi di gioco che hanno reso Spalletti - senza timore di smentita - uno dei migliori allenatori di tutta Europa e forse del mondo. Il calcio simil-relazionale che ha caratterizzato il gioco delle sue squadre si basa proprio su connessioni spontanee tra giocatori e non tra rigidi pattern propri di altre visioni di calcio. Non è questo un controsenso?
Così come nel calcio relazionale, in assenza di queste regole non avrebbe di certo regnato l'anarchia. Tra il dare regole rigide e accettarne la totale mancanza c'è un mondo di mezzo: semplicemente, si sarebbe dato più spazio al buonsenso del singolo calciatore. Né l'episodio di un singolo può condizionare tutto il resto del gruppo.
Può essere tutto il frutto di una precisa strategia comunicativa? Non lo sappiamo: magari le regole sono meno stringenti di quanto lo sembrano sulla carta. Ma in questo caso, allora, il tutto sarebbe ancora più grave: la mera dimostrazione regole di comportamento non farebbe altro che creare ancora più distanza tra i tifosi e la Nazionale, che non parte tra l'altro coi favori dei pronostici.
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