La pelota siempre al Diez
L'addio di Luis Alberto alla Lazio, sul confine tra follia e lucidità.
C'è stato un tempo in cui l'imprevedibilità e l'irrazionalità hanno guidato il pallone e l'hanno fatto rotolare tra i fitti steli verdi del campo da gioco. Momenti in cui l'occhio dello spettatore non riusciva a codificare l'idea di quanto potesse avvenire di lì a qualche istante. I fiati erano sospesi nell'attesa mistica della giocata. Il tempo viene cristallizzato, ibernato, dedicato all'eterno.
Perché, in fondo, il 10 nel gioco del calcio ha esattamente questo ruolo: relegare l'infinitesimale attimo e sublimarlo all'infinito, regalare memoria collettiva, farne narrazione e permettere che un'azione fisica divenga parola da tramandare.
La fonetica del termine Diez, specie se declinata in lingua spagnola, lo rende incredibilmente vicino al Dios: il Gioco è una religione politeista, un Olimpo popolato da figure semidivine. Il Dieci non può assurgere a una completa astrazione dal mondo in cui vive: non può e non deve divenire mistico e ascetico estrapolandosi dalla realtà che lo circonda ma, anzi, ha necessità di sfogare quella sua sporca mezza umanità fuori dal perimetro regolamentare di un semplice campo da calcio.
Un contorno rettangolare, uno spazio definito e limitato nel quale la genialità viene espressa, un recinto per un animale selvatico e selvaggio. Non è forse grandissima contraddizione? Non appare del tutto insensato che l'estro possa essere espresso unicamente in un determinato limite spazio-temporale? Anche questo è il calcio: sublime insensatezza.
Tutto ciò appare chiaro quando questo numero lo si vede scomparire dalla maglia iniziando a divenirne ricordo, quando si inizia a distillarne le giocate isolandole in purezza e nascondendone le mille imprecazioni che l'attesa della prodezza generava.
La nostra contemporaneità, fatta di attenzione maniacale al particolare tattico, alla necessaria prestanza fisica e all'abnegazione modulistica, ha un problema: questo numero ispiratore delle partite sull'asfalto di mezzo mondo stia lentamente scomparendo. Non se ne riesce appieno ad apprezzarne la bellezza dell'essenza. Esso era (è ancora? sarebbe?) Calcio.
Tutto questo è Luis Alberto.
Ultimo di una lunghissima tradizione di giocatori feroci nelle reazioni, imprevedibili nei comportamenti, che ispirano scosse sentimentali costanti e discussioni infinite. Apre in due le menti generando manicheismo nel pensiero di ciascuno e in ciascuno. Luis Alberto faceva innamorare quando decideva di tranciare il percorso netto di un pallone disegnandone traiettorie immaginifiche ma, al contempo, faceva invocare divinità sconosciute quando dimostrava tutta la sua indolenza.
Amore, per l'appunto. Perché Luis Alberto muoveva nei tifosi della Lazio proprio questo, un magnifico e spaventoso sentimento.
Ingestibile, incontrollabile, bellissimo.
Non ne potevi fare a meno anche se provavi ad allontanartene, dipendenza delle sinapsi estetiche che ognuno di noi vuole riempire di suprema bellezza.
Se si dovesse condensare il Luis Alberto, il suo essere mago, la sua innata capacità di riuscire a generare illusione visiva e sensoriale, proveremmo a rivedere queste immagini.
Un pomeriggio dal clima brumoso e brutalista. Ogni cosa diviene grigia per osmosi, come può fare solo in Pianura Padana. Una partita di metà pomeriggio di un sabato invernale da vedersi allo stadio bardato di cappotti sintetici e borghetti, che dopo soli 4 minuti viene squassata da un gioco di pura illusione.
Il pallone non appare dove è realmente. Perdita di raziocinio nei difensori avversari. Stop, carezza di suola, collo esterno a pizzicare, buffetto di suola, collo esterno a controllare, tocco di suola, apertura dolce del piatto.
Gol.
Sì, forse ce ne sarebbero altri tra assist e reti più importanti ma questo, senza dubbio, rimane uno squisito riassunto della genialità di un calciatore che ha reso paradiso e inferno una meravigliosa sintesi. Que te vaya bonito Mago y permite a este tìo de llorar un poquito!
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