Il trionfo di Tadej Pogačar
Mentre Pogačar cannibalizza il Giro, il ciclismo italiano trova nuove consapevolezze.
«Molti non provano nemmeno più ad attaccare Pogačar perché è una causa persa. È così forte che distrugge completamente gli avversari. Ma non genera frustrazione, solo ammirazione: è un ragazzo molto gioviale, non ho altro che rispetto per questo. Pogačar non lascia nemmeno una briciola ma è un bravo ragazzo e nessuno lo odia. Non è come Armstrong, che vinceva e ti umiliava: è impossibile detestare una persona come lui». Poco più di 400 caratteri per sintetizzare le parole pronunciate in questi giorni da Mauri Vansevenant. È uno degli "eroi" che ha terminato il Giro 2024. Non si è fatto notare molto questo belga che, solo qualche anno fa, in patria veniva indicato come possibile alter ego di Remco Evenepoel. Qualche tentativo di fuga e soprattutto opera di gregariato per i compagni di squadra: nelle tappe di pianura per le volate di Tim Merlier, in quelle di montagna per il capitano Jan Hirt. Vansevenant si è notato - come al solito - soprattutto per la sua inconfondibile pedalata: è uno dei più dinoccolati del gruppo, procede sulla bicicletta - spesso in maniera molto efficace - muovendo tutto il corpo. Non sarà un bel vedere per gli esteti di posizioni e aerodinamicità. Intanto Vansevenant ha raggiunto un obiettivo. L'uomo capace di sintetizzare al meglio ciò che ha rappresentato per questo Giro d'Italia e, più in generale, ciò che rappresenta per l'intero mondo del ciclismo Tadej Pogačar. Ha vinto l'alieno sloveno, non poteva essere altrimenti. Ha trionfato regalando spettacolo, trasformando ogni pedalata in una gioia che difficilmente, in tempi recenti, un atleta ha saputo regalare alla "festa di maggio". Il capitano della UAE è stato talmente dominante che c'ha fatto interrogare sulla sua provenienza, ché le cose che ha disegnato sulle strade d'Italia non sono di provenienza terreste ma aliena. E osservando quel ciuffetto biondo che spunta dal suo casco, qualcuno ha pensato che provenga da Vegeta, il pianeta che in Dragon Ball, il mitologico manga disegnato dal compianto Akira Toriyama, ha dato i natali ai Saiyan. Sì, Tadej sulle strade d'Italia è sembrato proprio un saiyan. Un Super Saiyan. Anzi, il Super Saiyan, il più amato della saga che ha appassionato milioni di ragazzi. Pogačar si è trasformato in Goku: così forte da essere imbattibile ma allo stesso tempo scanzonato, rispettoso, divertente. Immagini destinate a restare nella storia della corsa rosa e, probabilmente, dello sport. Riempiendo ancora di più un album clamoroso, quello di Pogačar , ormai destinato a raggiungere le vette dell'Olimpo del ciclismo.
I numeri dicono che Pogačar ha dato i numeri. Sei i successi di tappa (nell'ordine Oropa, Perugia, Prati di Tivo, Mottolino, Monte Pana e la perla finale di Bassano del Grappa: potevano essere anche di più...): era dal 2004 che non si registrava un numero così ampio di successi parziali. Allora fu Alessandro Petacchi ad alzare le braccia al cielo in ben nove occasioni. Ma Ale Jet era un velocista - forse l'ultimo esponente della generazione degli sprinter puri, adesso trasformati anche in uomini da classiche - che sfruttò a pieno le tante occasioni del percorso che prevedeva tanti arrivi "tutti insieme". Pogačar, invece, ha vinto le frazioni mostrando ogni sfaccettatura del suo (immenso) repertorio: ha dominato sulla salita resa mitica dalla rimonta di Marco Pantani del 1999, mettendo subito in chiaro le sue ambizioni; ha battuto gli specialisti della cronometro (partendo da Filippo Ganna) in Umbria con una mirabolante rimonta nel tratto finale in ascesa; ha dimostrato in salita la sua superiorità nel "tappone" appenninico, sverniciando poi i rivali nella volata ristretta. Si è destato un attimo e poi ha schiantato tutti sul colle sopra Livigno così come nell'arrivo sulle Dolomiti, sfruttando a pieno non solo l'ottimo lavoro dei suoi compagni ma anche le tattiche un po' bislacche (vero, Movistar e Dsm?) di altre squadre che, chiudendo sulle fughe in atto, gli hanno servito il successo sul piatto d'argento dando addirittura l'impressione che in quelle occasioni Tadej non avesse alcuna voglia di vincere e che sia stato quasi "obbligato". Poi ha concluso come meglio non poteva, con un altro assolo in solitaria: quasi trenta chilometri di scalata solitaria sul Monte Grappa, riprendendo quegli adagi che quest'anno l'hanno visto partire molto da lontano già alla Liegi-Bastogne-Liegi e (soprattutto) alle Strade Bianche.
Il risultato di questo dominio è quasi imbarazzante per gli avversari: il secondo in classifica, il solido Daniel Martinez della Bora, per pochissimi secondi non ha chiuso con oltre 10 minuti di ritardo, precedendo di poco lo stoico Geraint Thomas della Ineos che, a 38 anni, ha avuto la capacità di andarsi a prendere l'ennesimo podio in una grande corsa a tappe. Un vantaggio così ampio sugli avversari non si vedeva addirittura da quasi sessant'anni, dal trionfo di Vittorio Adorni del 1965. Gli avversari, di fatto, sono stati dispersi: l'australiano Michael Storer, ad esempio, ha chiuso con 21 minuti e 11 secondi di ritardo ma, nonostante questa voragine, è riuscito a prendersi il decimo posto. Soltanto in 19 - ventesimo lo splendido Domenico Pozzovivo che ha concluso, eguagliando il record di Miro Panizza, il suo 18esimo Giro d'Italia all'età di 41 anni - non hanno beccato più di un'ora da Pogačar. L'alieno ha dominato (quasi) tutte le classifiche: si è preso la maglia azzurra del leader dei gran premi della montagna, finendo "soltanto" quinto nella graduatoria a punti solo e soltanto perché negli arrivi non in volata vengono dimezzati i punteggi. Cannibalismo puro, insomma, che ha ricordato il più forte atleta che la storia di questo sport ricordi, Eddy Merckx: Tadej, per il momento, ha eguagliato i suoi sei successi di tappa dell'edizione 1973. I puristi e gli storici ancora non lo avvicinano al fenomenale belga, accostandolo invece a un altro campione, il "tasso" Bernard Hinault. E - per il momento - sono d'accordo. Ma non per il valore dell'atleta, anzi. Pogačar rischia di essere qualcosa di unico anche per quello che è fuori dalla bici e per gli avversari: le parole di Vansevenant rendono bene l'idea. Così come le immagini che ci porteremo del suo Giro 2024: gli inchini e le esultanze per il pubblico sui vari traguardi, l'abbraccio con lo splendido Giulio Pellizzari dopo il sorpasso al Mottolino, con tanto di regalo di occhiali e maglia rosa ma anche la borraccia donata a un bimbo che lo rincorreva festante lungo l'ultima scalata del Grappa. Scalda il cuore, Tadej: è un alieno umano, insomma. Che ha clamorosamente caratterizzato un Giro destinato a restare negli annali per il suo incontrastato dominio. E perché forse - l'appuntamento del prossimo luglio sarà giudice senza diritto d'appello - diventerà il primo tassello di quella clamorosa doppietta Giro-Tour che manca dal 1998, dall'estate di grazia di Marco Pantani. E che soltanto i più grandi hanno saputo realizzare
C'è da ringraziare il Super Saiyan Pogačar: è stata l'unica luce costante in un Giro che, altrimenti, rischiava di andare in archivio senza particolari sussulti. Il giudizio generale senza lo sloveno sarebbe da pollice verso: non hanno convinto i contendenti alla maglia rosa, non hanno convinto il percorso e alcune decisioni degli organizzatori. Si diceva di Daniel Martinez secondo: il redivivo colombiano ha agguantato la piazza d'onore, di fatto, senza mai attaccare, difendendosi molto bene a cronometro e risultando essere il più costante in salita. Male tutti gli altri: da Thomas, nonostante l'età avanzata, si attendeva un sussulto. Ma niente: gli è bastato per il terzo posto, nonostante il calo prestazionale anche a cronometro. L'australiano Ben O'Connor si è preso la medaglia di legno facendosi notare soltanto per il tentativo folle di seguire Pogačar sulle rampe d'Oropa e per alcune polemiche forse esagerate. Tiberi, quinto e maglia bianca, merita discorso a parte. Altri attesi protagonisti sono subito usciti fuori dalla contesa (vedi alla voce Romain Bardet) o eliminati da acciacchi e malanni (Cian Uijtdebroeks, qui per la pronuncia corretta). Si diceva del percorso: bene le crono, buona la scelta di una partenza molto dura con gli arrivi di Torino e Oropa e il tracciato di alcune frazioni (in particolare quella dei muri marchigiani con traguardo a Fano e l'ultima di montagna con la doppia scalata al Monte Grappa). Tante altre tappe non hanno convinto, come quella dei (pochi) sterrati di Rapolano Terme. A questo si è aggiunto l'ormai consueto psicodramma del taglio dal percorso in corso d'opera di un colle da 2000+ metri causa condizioni meteo. Questa volta è toccato allo Stelvio, il mitico colle alpino prima mutilato con il previsto passaggio più giù, all'Umbrailpass, e poi totalmente cancellato dopo le proteste dei corridori a causa di eventi meteo estremi. Nulla da dire sulle recriminazioni degli atleti: la pioggia mista a neve è capace di mettere alle corde anche le resistenze di chi, ogni giorno, si sfianca su una bicicletta. Hanno fatto bene ad alzare alla voce, non c'è dubbio. Ciò che ha convinto poco - e già da qualche anno non convince - è l'ostinazione degli organizzatori di RCS Sport ad inserire questi colli nei percorsi, in un periodo ancora a rischio fenomeni meteorologici estremi per disputare una corsa ciclistica: purtroppo il calendario approntato dall'UCI ha anticipato - ormai da qualche stagione - il Giro con queste inevitabili conseguenze. Il Giro per godere di un clima decisamente migliore dovrebbe tornare indietro di qualche anno, quando lo start era fissato a metà maggio e il gran finale agli inizi di giugno. La cosa è nota anche agli organizzatori che, però, ogni anno incappano nello stesso errore. Con le inevitabili polemiche. E figuracce..
Non è tutto nero, ci sono delle cose belle del Giro 2024 da salvare (ed elogiare) oltre a Pogačar. Come Julian Alaphilippe: il due volte campione del mondo ha dimostrato di essere tornato, chiudendo in crescendo - con la "gamba che gli scappa" - la corsa rosa. Ha fatto commuovere tutti gli appassionati trionfando a Fano, con un attacco un po' bizzarro in cui, probabilmente, ha misurato anche i suoi limiti: a differenza del suo momento d'oro di qualche stagione fa ha anticipato gli avversari, probabilmente conscio di non essere il più forte; ha fatto piangere con i molti ringraziamenti al suo compagno di fuga, quel Mirco Maestri che pur consapevole di essere spacciato contro il suo idolo ha dato tutto, venendo ripagato di abbracci, regali e complimenti. Il Giro d'Italia 2024, poi, ha messo in mostra alcuni talenti inattesi come lo spagnolo Pelayo Sanchez, vincitore della tappa degli sterrati e sempre all'attacco in salita, o il tedesco Georg Steinhauser, fra i più brillanti nell'ultima settimana. Ma soprattutto dalla corsa rosa è l'Italia, dopo anni difficili in cui ci si è dovuti aggrappare prima a Vincenzo Nibali e poi a Filippo Ganna, ad uscire con nuove consapevolezze. E non solo per le cinque tappe conquistate. Innanzitutto, gli appassionati ora sanno davvero che il velocista più forte è uno dei nostri. Non accadeva da qualche stagione, da quando l'olimpionico della pista Elia Viviani seppe conquistare successi a ripetizione. Fortissimo nei velodromi e su strada è anche Jonathan Milan: tre successi per lui (Andora, Francavilla al Mare e Cento che hanno caratterizzato il bottino azzurro insieme alla crono di Desenzano conquistata da Ganna e alla splendida fuga a Sappada di Andrea Vendrame) al termine di sprint di pura forza in cui ha saputo annichilire i rivali. Potevano essere anche di più i successi parziali (ben quattro i secondi posti conquistati dalla maglia ciclamino, fra cui il clamoroso della tappa finale di Roma dove ha forato a pochi chilometri dal traguardo e con una pazza rimonta è stato battuto soltanto da Merlier, altro splendido protagonista degli sprint con tre successi) per un giovane velocista che ha ancora qualche dettaglio da affinare per diventare implacabile. Il tempo è dalla sua e Milan può contare anche su una squadra, la Lidl-Trek, esemplare nel condurlo agli sprint dove spicca la figura di un altro pistard, il sontuoso "ultimo uomo" Simone Consonni. Ma l'Italia sa di aver trovato anche due giovanissimi che negli anni a venire si faranno valere in salita. Partendo da Antonio Tiberi: il frusinate è riuscito nell'obiettivo - non certo scontato - di ottenere una top 5 in classifica generale e portarsi a casa la maglia bianca. Nonostante tutto: il suo Giro d'Italia, infatti, è partito malissimo, con un doppio incidente meccanico lungo l'ascesa verso Oropa che gli ha fatto perdere oltre due minuti dagli altri favoriti. Poteva essere una mazzata per il giovane capitano della Bahrein che, invece, assistito anche da un Damiano Caruso in versione "chioccia", si è ripreso alla grande, mostrando grandi qualità a cronometro e vivendo soltanto un altro mezzo passaggio a vuoto in salita, nella tappa del Mottolino. Tiberi ha chiuso in crescendo - è stato fra i più brillanti sul doppio Grappa - rispondendo a tutti i dubbi sulla sua tenuta sulle tre settimane. Il ragazzo c'è e si farà: nei prossimi anni, con un po' d'esperienza in più, non potrà essere considerato un semplice outsider. E poi c'è la luccicante gioventù di Giulio Pellizzari: il più giovane alla partenza del Giro 2024 ha iniziato in sordina, soffrendo per alcuni malanni che gli avevano minato il fisico e la mente, portandolo a un passo dal ritiro. Ha tenuto duro, si è ripreso e nella terza settimana si è scatenato: sul Monte Pana ha chiuso secondo, superato soltanto dallo stratosferico Pogačar (che lo ha relegato alla piazza d'onore anche nella classifica dei Gpm) che si è fatto "perdonare" con tanti abbracci e il dono di maglia rosa e occhiali. Pellizzari è stato assoluto protagonista anche nel tappone del Monte Grappa, con un attacco da urlo nella prima scalata e il tentativo d'assolo solitario stroncato solo dal lavorone della Uae e dall'infermabile (sempre lui) Pogačar. Era un'incognita questo giovane di belle speranze che fra i dilettanti aveva dimostrato grande smalto: al primo anno fra i "grandi" ha saputo subito mettere su strada le sue qualità, regalando agli appassionati italiani un paio d'ore palpitanti in salita, come non si vedevano da tanti anni. Il successo più bello: l'Italia, adesso, sa di avere uno scalatore dal sicuro avvenire.
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