La Stella di Zhang e Marotta
La Seconda Stella dell'Inter passa anche dalle scelte di proprietà e dirigenza, guidate da Zhang e Beppe Marotta.
Nel freddo di una domenica notte meneghina, Simone Inzaghi e i giocatori dell'Inter hanno avuto il giusto e meritatissimo omaggio da parte di un popolo nerazzurro in trance estatica dopo una stagione semplicemente straordinaria, culminata con la vittoria del ventesimo Scudetto, per molti semplicemente il più bello di tutti.
Tra i protagonisti della serata non potevano mancare Barella e Dimarco in versione capipopolo, un Calhanoglu quasi completamente afono e, soprattutto, un Demone Inzaghi finalmente più sciolto e rilassato e acclamato da una piazza che, probabilmente, per affetto e stima lo colloca solo un gradino sotto l'inarrivabile Josè Mourinho.
A fare rumore, oltre ai caroselli e ai fuochi d'artificio dei tifosi nerazzurri, è stata l'assenza dai festeggiamenti della famiglia Zhang e in particolare di Steven: al di là di una indimenticabile comparsata nelle live Instagram post Derby di Calhanoglu e un breve messaggio ufficiale di congratulazioni, il 32enne di Nanchino ha optato per un profilo basso e distaccato, alimentando ulteriormente le voci complottiste che lo vorrebbero arrestato o addirittura sostituito per volontà dei plenipotenziari del Partito Comunista cinese.
Se Inzaghi è diventato il beniamino di un'intera tifoseria, quasi specularmente Steven Zhang è probabilmente il rappresentante di una proprietà poco amata, se non addirittura odiata e in continua contestazione da parte di un'opinione pubblica che vede nella proprietà cinese la radice di tutti i mali passati, presenti e futuri dell'Internazionale. Eppure, per certi versi, quello conquistato il 22 aprile è prima di tutto lo Scudetto della famiglia Zhang.
Parlare dei meriti avuti dalla proprietà cinese nella conquista della Seconda Stella è davvero complesso. Può apparire quasi paradossale. Come abbiamo già accennato in precedenza, la narrazione assolutamente maggioritaria in merito alle vicende societarie nerazzurre ci racconta di una famiglia Zhang che ha finito i soldi, braccata da creditori e ufficiali giudiziari, che sfrutta l'Inter come un salvadanaio per conservare denaro da cessioni e plusvalenze. Una narrazione ormai fin troppo radicata nell'immaginario collettivo, amplificata da una certa stampa con tendenze scandalistiche. Rafforzata dalle vicende giudiziarie che accompagnano da qualche anno la famiglia Zhang e dalla ricorrente questione del rifinanziamento del prestito con Oaktree, che non restituisce un'immagine pienamente solida della proprietà.
Accanto a questa, quasi impossibile da scardinare, la seconda ragione che rende difficile parlare dei meriti di Suning è legata al fatto che, in effetti, Zhang parrebbe non averne affatto: la gestione tecnica e amministrativa della società è stata demandata, come normale che sia, ai dirigenti di stanza a Milano. Difficile pensare a scelte operative di rilievo che siano state concretamente prese ed eseguite dalla proprietà.
Se tutto questo è in effetti vero, che senso ha allora parlare dei meriti di Suning nella conquista dello Scudetto? Premessa. La difficile situazione economico-finanziaria che si prospettava all'indomani dello scoppio della pandemia era, semplicemente, insostenibile. A prescindere dalle questioni interne al gruppo Suning ma comunque esterne alla realtà interista, indipendentemente dalla voglia o disponibilità da parte degli Zhang a continuare i massici investimenti effettuati fino almeno al 2019. I problemi economici erano dell'Inter come società e solo dell'Inter, al di là di quella che sarebbe potuta essere la proprietà. Le politiche di ridimensionamento ed efficientamento dei costi sarebbero state di conseguenza attuate da qualsiasi nuovo proprietario che avrebbe voluto rendere l'Inter una società profittevole e sostenibile, invece di un buco nero per investimenti a fondo perduto.
Qui sta il merito. Qui c'è il contributo di Suning alla conquista della Seconda Stella. Molto banalmente, la proprietà cinese avrebbe potuto scegliere la via più facile e immediata: una rapida liquidazione dei principali asset della squadra, infischiandosene bellamente dei risultati sportivi e ricercando piuttosto una cessione del club al miglior offerente nel minor tempo possibile, decisione più che legittima.
Zhang ha invece optato per una soluzione mediana. I sacrifici sono stati tanti e dolorosi ma, nella loro inevitabilità, non hanno portato al ridimensionamento che nell'estate del 2021 era sventolato da stampa e tifosi come la fine della storia nerazzurra. Malgrado tutto, l'Inter non è stata smantellata.
Ha operato cessioni importanti ma comunque mirate o francamente irrinunciabili. Ha ridotto la sua capacità d'investimento sul mercato ma non l'ha azzerata. Ha stretto la cinghia ma nel complesso ha aumentato la sua competitività, inaugurando il terzo ciclo più vincente della storia nerazzurra. Vero che la paternità di questi successi va prima di tutto ai giocatori, a un allenatore semplicemente ideale per il contesto e ad un gruppo dirigente competente. Ma alla radice di tutto ciò c'è la decisione della proprietà di credere nella squadra e nei suoi uomini, di credere ancora nella futuribilità di un progetto societario allo sbando appena tre anni fa, di optare per un risanamento graduale, costante ma sostenibile piuttosto che procedere alla liquidazione per chiusura attività.
Non ci addentreremo nei tecnicismi di diritto privato e societario che ci racconterebbero di quanto denaro ha immesso la famiglia Zhang nel gruppo Inter. O di come il famigerato prestito con Oaktree sia stato contratto dalla proprietà e non dalla società. Lo Scudetto è quindi il giusto premio per una proprietà che, seppur apparentemente in maniera passiva, ha permesso la costruzione e la crescita del ciclo inzaghiano. E dietro a questo ragionamento, badare bene, non c'è la benché minima istanza aziendalista ma la semplice consapevolezza - spesso sfuggente a parte del tifo nerazzurro - che il calcio moderno non ammette conti in rosso e non conosce più i ricchi mecenati à la Moratti. L'Inter deve guarire da sola e imparare a camminare con le sue gambe e lo sta già facendo, trovando anche il tempo di vincere uno Scudetto. Chissà se un'eventuale passaggio nelle mani di Oaktree o di altri fondi d'investimento, come auspicato da tantissimi interisti, permetterebbe di fare la stessa cosa.
La conquista della Seconda Stella è stata, inevitabilmente, opera di una dirigenza nerazzurra che all'inizio di questa stagione si trovava in una condizione perlomeno interlocutoria. Anche per una società oberata da pesanti limitazioni economiche, sostanzialmente in autogestione e autofinanziamento da 3 anni, gli errori commessi nei mesi precedenti da Marotta, Ausilio e dal resto dei dirigenti interisti cominciavano a essere forse troppi. Troppo importanti per pensare di aver costruito una squadra in grado di poter ambire alla vittoria dello Scudetto. Nella stagione 2022/2023, i quadri nerazzurri hanno sbagliato praticamente ogni scelta che erano chiamati a compiere, almeno nel processo di allestimento e gestione della squadra.
Nel gennaio 2022 l'acquisto di Robin Gosens, giocatore d'alto livello ma evidentemente poco funzionale del calcio voluto da Inzaghi, aveva messo in evidenza come la dirigenza interista avesse le idee poco chiare e un feeling tutto sommato basso con l'allenatore. Tutto ciò è stato confermato prima dagli eventi dell'estate successiva e poi da quelli di una stagione che verrà giustamente ricordata per lo splendido percorso in Champions League ma che è stata, per lunghi tratti, molto più simile ad un disastro.
Al netto delle responsabilità di squadra non ancora consapevole e di un tecnico non ancora pienamente maturo, le colpe per quella splendida stagione fallimentare sono da ricercare principalmente nelle scelte dirigenziali. Dalla creazione del dualismo Onana-Handanovic alla gestione del caso Skriniar, dal mancato acquisto di Bremer alla decisione di preferire l'insostenibile ritorno di Lukaku in prestito oneroso all'arrivo di Dybala a parametro zero. L'approssimazione con cui era stata costruita l'Inter del 22/23 era quella di una dirigenza che navigava a vista. Il risultato era stata l'aggregazione di una rosa disfunzionale e l'avvelenamento di uno spogliatoio che, non a caso, è tornato a vincere lo Scudetto grazie anche un profondo repulisti.
Per loro fortuna, e per fortuna dei tifosi nerazzurri, i dirigenti interisti non hanno sbagliato (o forse non hanno avuto modo di poter sbagliare) la decisione più importante e delicata. Nonostante la gestione della comunicazione nei giorni più difficili della scorsa stagione sia stata un completo disastro a tutti i livelli, la scelta di non esonerare Simone Inzaghi dopo 12 sconfitte stagionali e un andamento terrificante in Serie A è stata la migliore che potessero prendere. Non sappiamo se sia stata una decisione presa per lungimiranza o per mancanza di risorse e tempistiche idonee ad una degna sostituzione ma la fattuale permanenza di Inzaghi ha permesso alla squadra di continuare a crescere e a maturare senza farsi tentare da inutili ribaltoni. Il lungo cammino verso la Seconda Stella comincia da qui, da questa singola decisione (non) presa.
Marotta, Ausilio e il resto del gruppo dirigente avevano di che farsi perdonare nella preparazione della stagione 2023/24. Le premesse non sono state delle migliori. Il mercato irrequieto, quasi improvvisato e concretizzatosi praticamente solo nel mese di agosto sembrava confermare i dubbi sulla mancanza di un piano strategico che non fosse quello dell'occasione e del parametro zero. Il tragicomico fallimento di obiettivi di mercato come Scamacca e Samardzic. Le tante cessioni. L'inutile rincorsa al ritorno scellerato di Lukaku. Le soluzioni di ripiego come Arnautovic, Cuadrado e Sanchez. Soprattutto, una rosa che fino alla seconda settimana di agosto contava solo un portiere e due attaccanti. L'Inter appariva pronta a ripetere l'andamento dell'annata appena conclusa.
Invece, come direbbe qualche utente di X o qualche commentatore televisivo, Padre Tempo ha operato in silenzio. Nel calcio, come in guerra e in politica, vince chi sbaglia meno. A conti fatti la dirigenza interista è quella che ha sbagliato davvero meno di tutte. Nonostante rimangano alcune criticità, come la questione relativa alle punte di riserva, gli errori sono stati appunto davvero poche ed è impossibile non riconoscere il buon lavoro svolto da Marotta, Ausilio e gli altri nel porre le basi necessarie per una stagione scudettata, forse in maniera anche imprevista, forse andando anche oltre le aspettative, grazie soprattutto all'immenso lavoro di Inzaghi e dello staff tecnico.
In particolare, sono state "sufficienti" quattro scelte decisive. La prima, neanche a dirlo, è quella di confermare la fiducia a Simone Inzaghi, cosa tutt'altro che scontata anche dopo la finale d'Istanbul. Per la prima volta in tre anni questa appare per davvero la squadra del Demone, molto più vicina alle sue esigenze e preferenze e, anche se piccoli, la dirigenza ha provato comunque a fare dei passi verso le richieste dell'allenatore, soprattutto in tema di cessioni. La seconda è stata quella di rimettere al centro del progetto l'ossatura di una squadra che in estate ha cambiato addirittura 12 elementi: la fascia data in "cogestione" a Barella e Lautaro, i rinnovi di Dimarco, Darmian e Mkhitaryan, quelli vicini e probabili di Calhanoglu e Bastoni. A differenza di quanto fatto nell'estate del 2022 con Skriniar, la dirigenza ha voluto mettere le cose in chiaro e far sentire i suoi leader apprezzati e messi al centro del progetto.
La terza, come è facile immaginare, è l'acquisto di Marcus Thuram, il giocatore che ha segnato la discontinuità più netta rispetto al passato a suon di gol e accelerazioni. Il francese ha messo a tacere ogni critica (anche un po' tendenziosa) sulle commissioni relative al suo ingaggio e ha stravolto la capacità offensiva dell'Inter in modi che in pochi hanno saputo prevedere, sia tatticamente che per caratteristiche tecniche. La quarta, per rimanere in tema transalpino, è stato l'acquisto disperatamente voluto di Benjamin Pavard, il più costoso negli ultimi cinque anni di mercato interista. Al di là dell'amore tenero e viscerale nato tra l'ex Bayern e tutto il mondo Inter, Pavard è stato un investimento avallato da Zhang e orchestrato da Marotta che ha portato a Inzaghi ciò che desiderava di più, aumentando esponenzialmente la velocità, il palleggio, la fluidità di tutta la squadra.
La dirigenza interista ha saputo così redimersi dai suoi errori, rimediare ai suoi fallimenti, mettendo più d'ogni altra società il suo allenatore e i suoi giocatori nelle condizioni di far bene. La paternità della vittoria nerazzurra è prima di tutto di Simone Inzaghi e sarà interessante valutare, nei prossimi mesi, come si evolverà l'approccio di Marotta e Ausilio alla gestione della squadra a partire dalla spinosa questione del rinnovo di Lautaro fino ad arrivare allo sfruttamento sempre più intensivo dello scouting. Davanti ad un futuro incerto, rimane il presente: un pezzo di questo ventesimo Scudetto è certamente anche loro. Di Zhang e Marotta.
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