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Rossi Ungheria
, 1 Maggio 2024

L'Ungheria a Euro2024, intervista a Marco Rossi


Una lunga chiacchiera con Marco Rossi, CT dell'Ungheria: Szoboszlai, Euro2024, FIFA 97, l'Italia del calcio e molto altro.

Euro2024, che catalizzerà le attenzioni del Vecchio Continente tra la fine dei tornei nazionali e l'estate olimpica, è una storia di cicli e rinascite. Una delle più suggestive è quella che Marco Rossi sta vivendo sulla panchina dell'Ungheria, qualificatasi al terzo Europeo consecutivo per la prima volta nella storia.

Dal 20 giugno 2018 a oggi, Rossi è il CT più vincente della storia della nazionale magyarok. Grazie alla disponibilità del mister torinese, al press officer della Federazione ungherese Gergő Szabó e alla MLSZ stessa, abbiamo avuto il piacere di intervistare il CT. Dal percorso di qualificazione a Euro2024 all'esperienza di Euro2020, dal futuro del pallone magiaro al presente di quello italiano, dalla crescita da auspicare nella cultura sportiva tricolore a un bug storico di FIFA: più di un'ora a parlare di Marco Rossi, di Ungheria e di molto altro.

Quello in Germania è il suo secondo europeo consecutivo sulla panchina dell'Ungheria. Nella preparazione, nell'avvicinamento al torneo, una volta ottenuta la qualificazione, sta notando delle differenze di approccio tra i due o state seguendo un percorso simile a livello di staff e anche di giocatori?

In linea di massima, al di là del fatto che noi ci qualificammo al precedente Europeo attraverso i Playoff che disputammo a novembre, a livello di tempistica di preparazione direi che non ci sono molte differenze. Abbiamo fatto due amichevoli a marzo, ne faremo altre due prima dell'Europeo: la preparazione sarà sulla falsariga di quella effettuata per il precedente Europeo. Mentre adesso abbiamo giocato due amichevoli, all'epoca, a marzo 2021, giocammo tre gare di qualificazione al Mondiale, a causa delle pause che il Covid ci obbligò ad avere: il calendario fu un po' compresso in questo senso. Però fondamentalmente il cammino di preparazione a Euro2024 rimane lo stesso.

A proposito del Covid, lei non si è potuto godere insieme al suo gruppo la vittoria decisiva con l'Islanda proprio perché positivo a un test alla vigilia della gara. Come è stato invece in questo caso, anche se non era un momento così catartico come la partita con l'Islanda, la qualificazione matematica? Che sensazione è stata?

Il denominatore comune credo che... diciamo, una sorta di karma. Non ricordo di aver mai ottenuto qualcosa in maniera semplice. Dire che la qualificazione al primo Europeo, con quella partita contro l'Islanda, fu sofferta è un eufemismo: andiamo in svantaggio e la pareggiamo solo all'88'. Facciamo il secondo gol nei minuti di recupero, dopo aver addirittura rischiato di subire il 2-1. Un susseguirsi di momenti difficilissimi... L'ottenimento della qualificazione, seppur da casa, seppur con il Covid, fu veramente una sorta di liberazione che arrivava dopo, devo dire la verità, una grande sofferenza.

La seconda qualificazione, invece, è stata leggermente diversa. Abbiamo avuto un cammino non facile ma regolare: abbiamo avuto risultati tali che già in Lituania avremmo potuto, con una vittoria, centrare la qualificazione dopo solo sei partite. Così non è stato, in Lituania abbiamo disputato un primo tempo da dimenticare. L'abbiamo conquistata in Bulgaria, con un'autorete nel recupero: la dinamica e la modalità è stata anche fortunata, perché è arrivata a tempo quasi scaduto, però effettivamente è stata una liberazione. Anche in Bulgaria è stata una partita soffertissima: a quel punto della gara meritavamo di essere in vantaggio con più gol; abbiamo avuto varie opportunità per un motivo o per un altro fallite; decisioni arbitrali, sulle quali normalmente non recrimino, abbastanza strane. Il tutto ha finito per penalizzarci moltissimo: segnare il gol a tempo quasi scaduto è stato un rivivere quasi la qualificazione che ottenemmo con l'Islanda. L'ultima partita con Montenegro in casa è stata una festa per tutti, in primis per i nostri tifosi.

A proposito del seguito che avete, non solo durante l'anno ma durante le partite... Un occhio italiano è disabituato a un'esperienza simile: l'Italia non è una nazionale seguita durante la gara come se fosse un club. La cosa ha solo aspetti positivi o c'è una pressione ulteriore, un senso di appartenenza maggiore di chi è sugli spalti che può anche avere degli effetti negativi in termini di ansia nei giocatori e nello staff?

Personalmente, questo lo si percepisce da qualche anno a questa parte, dal momento in cui l'Ungheria è riuscita a far ritrovare gradualmente entusiasmo agli ungheresi. Non è sempre stato così. Noi arriviamo e iniziamo a lavorare con la Federazione nel 2018: la Nazionale, quando giocava partite non propriamente di cartello, faceva 10-15 mila spettatori. Adesso facciamo amichevoli con l'Estonia e c'è tutto esaurito, 65 mila spettatori.

Abbiamo ricreato, grazie ai ragazzi che hanno ottenuto questi risultati, un entusiasmo che ormai era sopito da tempo immemore. Chiaro che ora il nostro obiettivo deve essere far sì che questo non si perda: sotto certi aspetti è magari una responsabilità in più che abbiamo, ma quello che assolutamente sentiamo e percepiamo è che i nostri tifosi non ci chiedono per forza di vincere. Ci chiedono sostanzialmente di dare tutto di quello che abbiamo a nostra disposizione, di produrre il massimo sforzo in campo e di non mollare mai. Da quando siamo alla guida della Nazionale, queste prerogative solo rarissimamente sono venute meno: la gente tende a supportarci, in qualche maniera a identificarsi con la nazionale proprio per il tipo di atteggiamento che abbiamo in campo.

Ovviamente non sempre riusciamo a giocare come vorremmo, non sempre riusciamo a fare bene come vorremmo: abbiamo di fronte avversari che non sono proprio degli sprovveduti. Nell'ultima amichevole col Kosovo noi avevamo in campo, a parte Szoboszlai e Attila Szalai, tutti ragazzi che provenivano dal campionato ungherese o da campionati minori: il Kosovo aveva sei giocatori dalle top league (Muric, Vojvoda, Rrahmani, Muslija, Zhegrova e Muriqi, ndr). Anche quando affronti squadre così, sulla carta sono inferiori ma solo per via dei risultati ottenuti, non certo per la qualità dei giocatori di cui dispongono.

Molte volte ci viene difficile coniugare il bel gioco alle vittorie: ci sono anche gli avversari, per tratti di partita riusciamo a fare bene, per altri tratti dobbiamo soffrire. I nostri tifosi ci accompagnano, ci sostengono perché nella maggior parte dei casi capiscono che non si può vincere dominando dall'inizio alla fine.

Ha fatto riferimento a Nazionali di livello anche superiore al vostro. Quella che forse ha più in mente in questo momento è la Germania? La Mannschaft è una squadra che torna più volte nella vostra esperienza: seguendo il filo che unisce i due Europei, com'è stato vivere la partita di Euro2020 quasi a porte chiuse? Come si immagina invece di rivivere la stessa partita contro però una nazionale con un commissario tecnico diverso? I precedenti possono essere utili o, immaginandoselo, è qualcosa di totalmente diverso e quindi imprevedibile?

Credo che sarà tutto abbastanza diverso. Con la Germania abbiamo giocato recentemente tre volte, abbiamo pareggiato 2-2 in un Europeo in cui lo stadio era semivuoto. C'era la possibilità per i tifosi di accedere ma non completamente, ricordo perfettamente una nutritissima schiera di tifosi ungheresi. Però non possiamo pensare di trovare in Germania lo stesso ambiente che abbiamo trovato allora a Monaco o più tardi nella Nations League a Lipsia.

Sarà diverso il contesto, diverso l'ambiente, diversa la squadra e diverso l'allenatore. Ci aspettiamo sicuramente una Germania molto difficile da affrontare, i tedeschi li conosciamo bene. Abbiamo visionato anche le ultime amichevoli nella finestra di marzo e ci hanno impressionato, hanno sciorinato una proposta di calcio offensivo notevole. Considerando i risultati degli ultimi tornei e il fatto che giocheranno in casa, sicuramente la Germania è una delle favorite principali per la vittoria.

E invece l'assenza di precedenti durante la sua gestione con Scozia e Svizzera lo vede come un vantaggio o come un'ulteriore variabile, potenzialmente rischiosa e pericolosa?

Questo è probabilmente il girone di Euro2024 col livello medio più alto della competizione. Lo sarà per merito della Germania ma anche per merito nostro e di Scozia e Svizzera. Sono squadre estremamente fisiche, che hanno un grande impatto atletico nella partita. Non li abbiamo affrontati come Nazionale ma i giocatori hanno la fortuna di conoscersi, incontrandosi tante volte nel corso della stagione tra Premier League, Bundesliga e gli altri principali campionati. Da un lato è per noi una sfortuna non poter mettere in conto un risultato certo a nostro favore contro nessuno, ma abbiamo la consapevolezza che nessun altro lo possa fare quando ci incontrerà.

Se si parla di Ungheria è impossibile non menzionare, a livello individuale, Dominik Szoboszlai. Lei lo ha seguito in tutto il suo percorso in Nazionale, dall'esordio nel 2019 a oggi. Come valuta il suo percorso tra club e Ungheria e quali, se ne vede, gli ulteriori margini di miglioramento?

A livello prestativo credo che siamo cresciuti parallelamente alla sua parabola: Dominik ha ovviamente una funzione più centrale e dominante centrale nel nostro gioco, però abbiamo saputo farne a meno. Nell'Europeo precedente, ad esempio, Dominik non era parte della squadra perché vittima di un infortunio agli adduttori. Era rimasto fuori 8 mesi quando passò dal Salisburgo al Lipsia, non ha potuto passare l'estate 2021 con noi. In questo, come in altri casi, abbiamo dovuto farne a meno e abbiamo comunque trovato contromisure.

Dominik è un giocatore che, se è a nostra disposizione - ultimamente lo è con buonissima continuità, speriamo che continui, facciamo gli scongiuri (ride, ndr) - noi impieghiamo in una maniera più totalizzante. Il nostro gioco è più incentrato e accentrato su di lui di quanto non lo sia in Inghilterra. Ovviamente al Liverpool hanno tantissimi campioni dello stesso livello, possono decidere di giocare affidandosi a diversi elementi. Noi non è che non possiamo farlo, ma riteniamo che sia più utile e vantaggioso per noi assegnargli una porzione di campo e una richiesta nella manovra più centrale. Se guardiamo alle nostre ultime 15 gare, Dominik ha fatto sì che spesso e volentieri l'ago della bilancia pendesse nella nostra parte: è stato sicuramente decisivo e ha tutto per continuare a esserlo.

Oltre a Szoboszlai, ci sono altri elementi che ritiene ugualmente cardini per l'Ungheria?

Abbiamo 7-8 elementi che sono giocatori chiave nella nostra squadra. Molti tra questi, per una ragione o per un'altra, sono venuti meno durante le Qualificazioni. Gulácsi è stato ottimamente sostituito da Dibusz, portiere del Ferencváros, che ha espresso lo stesso livello di prestazioni. Nel ritorno del nostro girone abbiamo dovuto fare a meno di Willi Orbán. Per tutte le qualificazioni non abbiamo potuto contare su Schäfer, nelle ultime due gare era infortunato il centravanti Varga.

In queste qualificazioni non abbiamo mai avuto la squadra al completo: il mio augurio è di poter avere tutti i nostri uomini chiave a disposizione e in buona forma fisica per Euro2024. Vorrebbe dire aumentare di non poco le nostre possibilità di ben figurare.

Ha accennato alle convocazioni dell'ultima finestra di qualificazione, con tanti elementi impegnati in campionati non di prima fascia, tra i quali la OTP Bank Liga. Rispetto a quando allenava l'Honvéd, anche se sono passati pochi anni (2012-2017, ndr), seguendo da vicino l'andamento del torneo ha notato un miglioramento globale o i passi da fare a livello di proposta di gioco ancora sono molti?

Contro il Kosovo abbiamo giocato con giocatori selezionati a ogni livello. Serie B tedesca (Dárdai), inglese (Styles), italiana (Ádám Nagy) e belga (Vancsa); Cipro (Lang), Svizzera (Bolla), Turchia (Mocsi), Croazia (Kleinheisler), Ungheria (Dibusz, Zsolt Nagy e Varga), Stati Uniti (Gazdag) e Corea del Sud (Ádám). È stato un pot pourri di giocatori provenienti da leghe non proprio di primissimo livello. Dal campionato ungherese non penso potremo attingere molto in vista degli Europei: nel momento in cui, speriamo, fossero tutti disponibili, non ne chiameremo più di 4 o 5. Ma verrebbero vari giocatori che appunto in Croazia, Cipro, Svizzera e da campionati di serie B. Contiamo di averne 8 che giocano nelle top league, tra Germania, Inghilterra e Francia.

Il campionato ungherese oggi è il 23° in Europa (21.875 punti nel ranking 2023/24, ndr): qualche anno fa era più indietro, ma credo che ci fosse maggior competitività all'interno del campionato. C'erano almeno 3-4 squadre di buon livello. Oggi vedo una squadra che, per la OTP Bank Liga, è fuori concorso, il Ferencváros: viene da 6 campionati vinti consecutivamente.

Prima di questa striscia, prima l'aveva vinto un anno il Videoton (così noto per ragioni di sponsorizzazione, altrimenti Fehérvár Football Club, ndr) e l'anno prima con me l'Honvéd. All'epoca la lotta poteva essere tra qualche outsider, come appunto l'Honvéd, o quando per qualche anno il Videoton ha conteso al Ferencváros la leadership. Ora il Ferencváros vince facilmente il campionato, e i suoi risultati in Conference League sono la ragione per cui il campionato ungherese è cresciuto nel ranking UEFA. Non c'è stato un generale innalzamento degli standard.

Credo che ci sia grandissimo spazio di sviluppo perché il campionato ungherese possa migliorare, e questo avverrà solo e soltanto nel momento in cui altri club si avvicineranno agli standard del Ferencváros. In quel caso, anche il futuro selezionatore della Nazionale potrà attingere di più, diversamente la vedo difficile. Gli standard del campionato ungherese non si avvicinano a quelli richiesti al top del livello internazionale, del quale invece la Nazionale fa parte.

Questo essere quasi all'esterno dell'aristocrazia del calcio europeo, questo sfiorarla soltanto dopo aver vissuto un passato da calciatore e da allenatore all'interno di un contesto come il calcio italiano, non è spiazzante? In Italia il mondo del calcio ha dinamiche peculiari e poco riproducibili in giro per il mondo, ma fare esperienza oltre i nostri confini è un qualcosa che l'attirava di per sé? O, dopo la volontà di allontanarsi dai riflettori, era più il timore di non ritornarci più?

Quando sono venuto in Ungheria per la prima volta, nel giugno di 12 anni fa, feci il contratto con l'Honvéd. Ma lungi da me il pensare, nemmeno lontanamente, che la mia carriera potesse avere un'evoluzione così positiva. La ragione per cui decisi di venire in Ungheria fu assolutamente casuale che più casuale non poteva essere: venni in Ungheria a trovare un amico, ero già fermo da quasi un anno dopo che ero stato esonerato dalla Cavese in Lega Pro.

Da febbraio 2011 a giugno 2012 non ho lavorato, e riprendere a farlo con l'Honvéd fu un caso. Il mio obiettivo era fondamentalmente solo quello di pensare di poter fare in Ungheria quello che io ritenevo di essere in grado di fare, cioè l'allenatore. Ero uno dei pochi a crederci all'epoca. In quel momento avevo seriamente pensato di fare altro: a 47 anni, però, uno che è sempre solo vissuto di calcio come fa a reinventarsi in un altro ruolo? Difficile... Mi spaventava molto il ripartire da zero in altri ambiti.

Ho preferito venire in Ungheria e provare ancora una volta a fare l'allenatore. Non pensavo né a vincere Scudetti con l'Honvéd, cosa che abbiamo fatto nel 2017, né tantomeno mi sfiorava lontanamente l'idea di poter guidare una Nazionale. Non mi ero mai neanche sognato di poter un giorno sedermi sulla panchina di una Nazionale che non fosse quella dell'Italia. Il fatto che l'Ungheria sia oggi così rispettata a livello internazionale, molto di più di quanto non lo fosse prima che venissimo noi, mi riempie assolutamente di orgoglio e di soddisfazione.

Dà un senso anche ai "sacrifici" che ho voluto fare: oggi si parla per me anche della possibilità di allenare anche in campionati come la Premier League, dove sei effettivamente al top. Ma fino a qualche tempo fa era tutta un'altra storia: i primi sei mesi della mia esperienza all'Honvéd non sono mai tornato a casa, ho visto i miei figli a giugno 2012 e li ho ritrovati alle vacanze di Natale. Il calcio e la nazionale ungherese mi sta restituendo con soddisfazioni e riconoscimenti a livello internazionale un qualcosa per il quale ho sacrificato molto nella mia vita.

Le sue parole su cosa il calcio italiano abbia significato per lei dagli inizi da allenatore a oggi sono di una sincerità estrema. Colpiscono per la realtà descritta, spesso nascosta da una patina o da una facciata, e spaventano: è la cosa più lontana dal riconoscimento di professionalità e di meritocrazia. Ha affermato "In Italia non mi cerca più nessuno": è un problema che si pone ancora oggi? Continua a farsi domande, se mai se le è fatte, sul perché? Oppure è le nuove esperienze l'hanno allontanata definitivamente da un mondo a cui non ha mai sentito o voluto appartenere?

Non è una cosa di cui mi faccio un cruccio. Vale in Italia come ovunque, anche in Ungheria: è importante che a un certo punto della tua carriera - all'inizio, a metà strada, dopo qualche anno - avere l'opportunità. Per averla, siccome le squadre sono poche in relazione al numero di allenatori che ci sono, bisogna o sapersi vendere molto bene o bisogna essere in grado di saper coltivare nella maniera giusta le relazioni con le persone importanti. Entrambe le cose sono un mio limite, bello grosso.

Nella mia carriera da giocatore sono stato a contatto con grandissimi personaggi nel mondo del calcio, ma non sono stato in grado di saper mantenere queste relazioni. Se da un lato non coltivi le relazioni da un lato e dall'altro non ti sai vendere, diventa difficile trovare squadre. La spiegazione che mi sono dato è essenzialmente questa: non sono stato in grado di crearmi le opportunità di lavoro in Italia. Di questo sono consapevole adesso: con gli anni sono cambiato, ma finché sono rimasto in Italia facevo fatica a nutrire i rapporti che ti danno l'opportunità di lavorare. C'è qualcuno che la riottiene, magari la spreca di nuovo e la ottiene ulteriormente; altri alla prima opportunità vengono tagliati fuori. A me non è stata data neanche data: in Italia ho lavorato solo a livello di Serie C, ottenendo anche risultati insperati.

Il primo anno in cui allenai il Lumezzane (2004/05, ndr) c'era una pagina della Gazzetta dello Sport con una mia foto al centro. Tanti quadratini piccoli intorno a me, si parlava di Sarri e Ballardini e altri allenatori ma quello di cui si parlava, che sembrava fosse destinato chissà quali platee ero io. In realtà da lì non successe mai niente: non ho mai avuto un'offerta da parte di nessuno. Puoi essere anche bravo, ma se non ti sai vendere e se non hai le relazioni che facciano sì che tu possa avere un'offerta una possibilità di lavorare un certo livello... Allenare in Serie C è già tanto - la Lega Pro è un buon livello - ma se tu alleni una squadra per vincere è un conto, se ne alleni una che salvandosi ha fatto un miracolo è un altro. Ho sempre avuto squadre che avrebbero fatto un'impresa a mantenere la categoria.

Non imputo a nessuno il fatto di non aver avuto chances in Italia. Adesso è troppo tardi: continuo a dire che il cervello non invecchia e che gli allenatori non devono correre, magari il cervello di un 59enne può anche essere più brillante di quello di un 40enne, ma la carta d'identità è un dato di fatto. Difficile, per come le cose vanno in Italia, che possa avere un'altra opportunità.

Sono stato un giocatore normale, ho giocato in Serie A in squadre importanti come la Sampdoria e ho guadagnato anche discretamente, ma ovviamente non tanto da poter vivere di rendita. In Ungheria sto guadagnando bene da un paio di anni. Non ho intenzione di cambiare a breve perché non ho motivo, ma se in qualsiasi momento in futuro dovessi lasciare la nazionale ungherese con la nazionale, potrebbe avere solo una ragione economica e nessun'altra ragione. E non lo dico perché non sono soddisfatto del mio attuale contratto, ma è chiaro a tutti che in altri paesi o campionati gli stipendi sono molto più alti. Ma non sto pensando di lasciare la nazionale ungherese. Non avrebbe nessun senso per me andare a scommettere su me stesso. A settembre saranno 60 anni: scommettere per cosa, per un futuro che non sai quanto sarà lungo? In Italia bastano tre partite sbagliate: o sei un grande nome o, se torni dopo 12 anni in Ungheria, se dovessero andare male ti darebbero il benservito. Non ci sarebbe nulla da stupirsi.

Quanto è difficile, dal punto di vista di chi pretende di comunicare e informare di calcio in Italia, capire che si ha a che fare con professionisti che lo vivono come un lavoro? Non necessariamente le decisioni e i ragionamenti sono gli stessi che farebbe un tifoso o un appassionato. Si fa troppo poco per migliorare questa percezione?

È una cosa che secondo me non si migliorerà mai. Dipende dalla cultura di un paese: in Inghilterra, nonostante ci sia un movimento di denaro imparagonabile rispetto all'Italia e un coinvolgimento economico molto più importante, c'è molta più pazienza in certi casi e competenza in certi altri. Nel discutere, nel parlare di calcio anche a livello di appassionati, giusto per per capire come funzionano le cose. In Italia penso sia una questione culturale.

Io non mi sogno nemmeno lontanamente di andare a dire all'imbianchino come deve pitturare la parete di casa mia: l'ho chiamato, lo pago e mi dipinge la parete. Non gli dico come deve fare il suo lavoro, anche se lo pago. Però spesso e volentieri lui pensa di poter dire a me, nel caso in cui fossi l'allenatore della sua squadra del cuore, come fare il mio mestiere. Chiaramente il calcio è uno sport che tutti sentono come loro, di facilissima comprensione con regole altrettanto semplici. Tutti pensano di poter essere degli esperti, tutti pensano di poter fare gli allenatori pensando che sia facile.

Fare l'allenatore è tutt'altro: non basta capire di tattica, non basta saper organizzare una settimana di allenamenti. Tutti oggi sarebbero in grado di farlo. Fare l'allenatore significa saper gestire 30/40 persone e farlo come si deve. Significa impiegare le risorse umane che ti mettono a disposizione, la cosa più difficile: molto spesso si pagano personaggi che vanno a spiegare queste cose, ma molte dinamiche relative alla gestione di uno spogliatoio semplicemente sfuggono.

Sono esterno al calcio italiano, lo guardo da spettatore. Ma mi chiedo come sia possibile che Simone Inzaghi, arrivato l'anno scorso in finale di Champions League e quest'anno vincitore a mani basse dello Scudetto, sembrava che l'Inter dovesse mandarlo via perché sembrava che non fosse un allenatore da Inter. Quest'anno Pioli, una settimana sì e una settimana no, a seconda del risultato è Pioli is on fire o #Pioliout: ma veramente? Allegri alla Juventus è dipinto come un deficiente ed è l'allenatore che ha vinto di più in Italia, dicono Facile con le squadre che aveva ma con quelle competeva con almeno un altro paio, in Italia e in Europa, della stessa forza.

È tutto troppo semplicistico. Molto spesso si tende a estremizzare i giudizi, che con le casse di risonanza social fanno veramente perdere la tranquillità.

Rimanendo sulla gestione di un gruppo e sul rapporto coi giocatori, quanto è importante avere una figura come Cosimo Inguscio, uno che ha dichiarato "Voglio essere il miglior vice allenatore del mondo", come tramite e sostegno nel lavoro quotidiano? Quanto serve uno così consapevole del proprio ruolo e della propria funzione in uno staff per essere tutelato e sbrigare tutte le richieste che, con tutti gli stimoli tecnici ed emotivi del calcio contemporaneo, una sola persona non riuscirebbe a curare?

Ci siamo incontrati nel 2012 all'Honvéd, portati entrambi dallo stesso direttore (Fabio Cordella, ndr). All'epoca è stata una fortuna: a livello caratteriale, Cosimo mi compensa. Siamo differenti, io molto più istintivo e lui più posato e razionale. È sempre riuscito, per il suo modo di essere e per il tipo di persona che è, a entrare in sintonia e a farsi apprezzare indistintamente da tutti i ragazzi che componevano lo spogliatoio. Non è mai andato in contrasto con nessuno, con nessun tipo di personalità. È sempre stato apprezzato da tutti come professionista e come persona, questo alla lunga fa la differenza.

I calciatori magari non sono fulmini di guerra, non hanno ricevuto la miglior scolarizzazione possibile. Difficile trovare un ingegnere che fa il calciatore o gente particolarmente acculturata. Però per giocare a questi livelli devi essere istintivamente intelligente, e loro lo sono. Un calciatore ci impiega al massimo una settimana a capire che tipo di persona sei, a capire che tipo di professionista sei. Ci mettono pochissimo tempo per darti fiducia nel parlargli di calcio e di tutte le altre cose. Cosimo in questo è fantastico, da sempre ha riscosso la fiducia di tutti in brevissimo tempo.

Con tutte le persone ungheresi inserite nello staff e nell'organigramma della Federazione, invece? Percepite che il rapporto tra l'Ungheria e il calcio, a maggior ragione per il momento storico che state contribuendo a scrivere, si stia rinsaldando grazie a risultati e traguardi sconosciuti da diversi decenni? Come si vive un avvicinamento al secondo Europeo, forse il primo normale della sua gestione dopo Euro2020 e tutto il suo contesto?

Quello che percepiamo è che l'avvicinamento, ogni giorno che passa, crea sempre più aspettativa. I nostri tifosi sono impazienti, si aspettano grandi performance. Questo fa sì che la pressione aumenti, quella arteriosa in primis (ride, ndr). Da un lato ovviamente ci fa piacere, ci fa capire quanto i nostri tifosi ci siano vicini. D'altro canto dico che, da quando abbiamo assunto questo incarico, la Federazione non ci ha mai mai fatto mancare il sostegno e la fiducia.

Ricordo perfettamente le dichiarazioni del presidente federale (Sándor Csányi, ndr) prima che ci qualificassimo per il primo Europeo: dopo aver perso col Galles a Cardiff nel novembre 2019, disse "Continuiamo con Marco anche se non dovesse qualificarsi per l'Europeo perché abbiamo fiducia nel lavoro che sta facendo". A partire dal Presidente abbiamo sempre avuto grandi attestazioni di stima. A un certo punto alcuni membri dello staff sono venuti meno: puntare in quel momento su elementi ungheresi che già lavoravano in federazione è stata un'ottima decisione e un vero colpo di fortuna. Oltre alla professionalità, questi ragazzi ci mettono il cuore, rappresenta un valore aggiunto.

Il nuovo centro sportivo dell'Honvéd, per il quale si è speso Viktor Orbán in persona al momento del finanziamento, è stato inaugurato nel 2018, quando il titolo nazionale era già stato conquistato e lei aveva già intrapreso un percorso diverso. Sempre legandosi alla crescita culturale di una nazione riguardo al calcio, ritiene che l'Ungheria stia facendo abbastanza a livello capillare per l'adeguamento di tutte le strutture e gli apparati a sostegno di una Nazionale al top?

In Ungheria una cosa è certa: c'è grandissima attenzione al calcio. Non solo: qui è lo sport che convoglia le maggiori attenzioni. È un paese che si ferma quando gioca la Nazionale. Fatte salve poche eccezioni, si ha la percezione che veramente tutti ci seguono e seguono il calcio, sono innamorati del calcio. C'è grandissima attenzione in generale per tutti gli sport, gli ungheresi sono forti in tantissime discipline sportive anche olimpiche. Qui si può disporre di notevoli strutture, cosa che magari in Italia manca un po': le infrastrutture per fare sport sono importantissime, in Ungheria ce ne sono molte e non solo per il calcio.

Rispetto a Euro2020 nota qualche caratteristica o trend, a livello di proposte di gioco e di identità di squadra, su cui sempre più selezioni si concentrano? O invece qualcos'altro che si è trascurato ma che si riproporrà in Germania tra giugno e luglio?

Vedo che soprattutto le nazionali più forti, perché dispongono anche di tecnici di primissimo livello, attuano un calcio moderno. Un calcio fatto di princìpi di gioco che utilizzano tutti i top club in Europa. Le differenze possono essere determinate dal fatto che uno dispone di un certo tipo di giocatori e uno ne dispone di un altro, però soprattutto a livello di Nazionale quello che può essere più complicato da studiare e apprezzare è quella unità di intenti che caratterizza in maniera maggiore un club. Ma a livello di princìpi di gioco non vedo grandi differenze. Alla fine è uno sport di squadra, se si riesce a diventarlo molto spesso riesce a vincere a prescindere.

L'Italia ha vinto il Mondiale nel 1982 e nel 2006 non perché fosse la più forte ma perché, nel momento topico, riuscimmo a essere più squadra degli altri. Conta, più che nella stagione dei club, un pizzico di fortuna in più. Il voler essere squadra, voler aiutarsi nei momenti di difficoltà che in ogni in ogni situazione in ogni partita si possono verificare, ha un peso maggiore. Chiaro che per vincere, quando ci sono come in questo Europeo perlomeno 4/5 squadre che potenzialmente possono vincere, alla fine la spunterà chi sarà più fortunato negli episodi, succede sempre così. Dire in senso assoluto Quelli hanno dominato dalla prima gara fino all'ultima non capita quasi mai.

Dall'esterno si ha la sensazione che il calcio e la conoscenza del calcio vadano sempre più veloce, hanno un ritmo sempre più frenetico. Anche a livello di meccanismi, di fluidità di manovra e di applicazione dei principi in campo, ormai le nazionali assumono una forma simile a una squadra di club che può allenarsi costantemente di settimana in settimana. Ci sarà un modo di rendere ancora le nazionali qualcosa di unico?

Mi limito a parlare della mia esperienza: in Ungheria, la nazionale di calcio ha avuto il grande merito - e speriamo che ce l'abbia per tanto tempo in futuro - di far acquisire sintonia ai tifosi. Il Paese si sente un tutt'uno, si pensa che quello che siamo stati in grado di fare sia un esempio per poter superare qualche limite strutturale. Non è perché lo penso io, ma perché mi è stato detto da molti ungheresi.

Il motivo per cui molti mi ringraziano ancora oggi è aver restituito loro la fiducia nella speranza. Impegnandosi quotidianamente, superando gli ostacoli che ogni giorno si possono dover affrontare... Ci vedono un po' come una metafora: siamo riusciti a sovvertire in tanti casi i favori del pronostico non soltanto grazie al talento ma soprattutto grazie alla grandissima forza di volontà. L'autodeterminazione, la voglia di non mollare mai, la voglia di aiutarsi l'un l'altro. Csak együtt (tutti insieme in ungherese, ndr) non è solo uno slogan, ma è una cosa che ha portato frutti a tutti, sia a noi che ai nostri tifosi.

Lei ha mai giocato appassionato di videogiochi? Su FIFA 97 lei era il giocatore con la valutazione più alta. Hagi, Litmanen, Weah, Matthäus con 94, Marco Rossi 97: si è mai immaginato, anche solo per un attimo, come potesse essere effettivamente più forte di quei campioni?

L'unico contatto che ho mai avuto coi videogiochi risale a più di 30 anni fa. C'era un gioco del Super Nintendo, Donkey Kong Country, giocavo solo a quello (ride, ndr)! Me ne hanno parlato in tempi recentissimi di questo bug di FIFA, ma non è una cosa che mi ha mai gratificato o tolto il sonno. Non ci ho mai prestato molta attenzione, non essendo appunto un appassionato di videogiochi...

L'utilizzo e l'influenza dei videogiochi stessi è un aspetto molto più influente per l'attuale generazione di calciatori. In seguito alle dichiarazioni di Spalletti e tutte le speculazioni successive, il tema è tornato di attualità anche nel mondo del calcio italiano. Per un allenatore più lontano anagraficamente dagli uomini che allena, com'è rapportarsi con abitudini di vita estremamente diverse da quelle da quelli in cui si è cresciuti?

Anche faccio uso in qualche maniera, seppur molto limitatamente, dei social. Ho un SMM che cura Facebook e Instagram, però uno sguardo lo butto anche io. Non è che siamo proprio boomer boomer boomer, non siamo millennials ma sappiamo come funzionano le cose oggi (ride, ndr). Non solo giocare ai videogiochi, ma anche solo stare davanti allo schermo di un telefono due o tre ore prima di andare a letto non aiuta la qualità del sonno e del riposo. Lo dicono moltissimi studi di fisiologia: oggi è fondamentale avere atleti che arrivino alle partite riposati e idratati nella miglior maniera possibile. Da una parte bere molto, dall'altra parte riposare bene.

Va da sé che se tu giochi ai videogiochi fino alle 3 di notte il giorno prima della partita, anche solo per stemperare la tensione, è una cattiva abitudine che non aiuta. Sapendo che queste cose non ti aiutano devi cercare di evitarle. Spalletti può dire ai calciatori, come faccio io sotto tanti aspetti, di evitare certe cose. Poi sta a loro capire che, se glielo diciamo, lo facciamo per il loro e per il nostro bene: se mandiamo in campo un calciatore che non ha riposato bene, con ogni probabilità farà qualche errore che potrebbe compromettere l'esito della partita.

  • (Bergamo, 1999) "Certe conquiste dell'anima sarebbero impossibili senza la malattia. La malattia è pazzia. Ti fa tirare fuori sentimenti e verità che la salute, che è ordinata e borghese, tiene lontani."

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