Questa sporca ultima meta di O.J.
O muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare O.J. Simpson.
Stavolta, all'arrivo della notizia, nessuna edizione straordinaria. Nessuna partita NBA ridotta a riquadrino, nessun evento televisivo bruscamente interrotto. La morte di O.J. Simpson è stata annunciata agli USA con basso profilo e una non troppo velata pudicizia, generando una reazione collettiva equiparabile a un sospiro a lungo agognato ma mozzato sul più bello. Uno di quelli che, più che sollievo, emanano fastidio e frustrazione.
I titoli di coda del grottesco film che è stata la sua vita sono arrivati quando quasi tutti avevano abbandonato la sala. Se riavvolgiamo il nastro, ripercorrendo con la mente le tappe dell’epopea del protagonista da tempo diventato villain, tutto appare ancora inconcepibile e contorto, pregno com’è di insospettabili colpi di teatro e buchi di trama. Intendiamoci, non facciamo certo riferimento a una presunzione d’innocenza scaduta da tempo. Men che meno a dietrologie di alcun tipo. Tutto è assodato e agli atti, cristallino e alla luce del sole. Ma quella di O.J. Simpson resta pur sempre una storia incredibile. La prova che a volte la realtà stessa, per fantasia e intreccio, supera a destra e senza freccia il cinema e la fiction.
Il 12 giugno prossimo saranno 30 gli anni trascorsi dall'omicidio di Nicole Brown e di Ron Goldman, ma ciò nondimeno l’annuncio della dipartita di O.J. (per non meglio specificate complicazioni di un cancro alla prostata) ha ribadito che - sepolta sotto al cumulo di risposta di meme, black humor e irripetibili epiteti di commiato che sono proliferati - la cicatrice in seno alla patria dello Zio Sam sanguina ancora copiosamente. La ferita è lì, in bella vista, e ci restituisce la cartella clinica di un Paese che, all’alba di una campagna elettorale che si preannuncia drammatica, risulta ancora malato e in una sempre più evidente crisi di identità e di incertezza sociopolitica. Una nazione sempre più abbarbicata alle divisioni più radicate e alle sue contraddizioni più ataviche, palesatasi in una strana miscela agli occhi del mondo, in tutta la sua inesplicabile miseria, nelle riprese di elicottero di una Ford Bronco bianca, con un corteo di volanti al seguito della sua scia. Quella di O.J. Simpson non è stata solo una parabola di ascesa e caduta comune a tanti atleti o divi di Hollywood precipitati dall’Olimpo. È stato un coacervo di vite e di storie intrecciate a doppio filo l’un l’altra che, se analizzato a fondo, fornisce un lente e le coordinate essenziali per decriptare l’America di ieri, oggi e presumibilmente domani.
Chi era davvero O.J. Simpson?
L'uscita di scena a fari spenti lo avrà fatto incazzare. Non è mai bello per un narcisista patologico quando i riflettori si spengono e ti adombrano ancor prima che cali il sipario. E non si può certo dire che O.J. non abbia provato di tutto per soddisfare fino all’ultimo le esigenze del suo ego smisurato. In 76 anni di trasformazioni, impronosticabili cambi d’abito e di corse a perdifiato verso la meta del momento, l’unica vera costante è stato il suo bisogno di essere riconosciuto e amato dalla gente. Non siamo di fronte al classico caso di doppia vita, di dicotomia netta tra personaggio pubblico esemplare e persona disdicevole nel privato, di cui tutti conoscevano e occultavano gli scheletri come nel caso Weinstein. In pochi tra gli amici stretti possono giurare di aver capito cosa balenasse realmente nella testa di un uomo tanto carismatico quanto imperscrutabile, di una persona che - se escludiamo un'adolescenza turbolenta con una breve tappa al riformatorio di San Francisco (per esser finito in una gang di strada chiamata The Persian Warrior) - per anni è stato testimonial e sinonimo di gesta lodevoli, di imprese sportive senza precedenti e di comportamenti esemplari pre e post carriera agonistica. In pochissimi erano a conoscenza del fatto che, nei confronti della sua seconda moglie, divenne un marito ossessivo, fedifrago e violento.
L’unico aspetto su cui tutti concordano era il suo desiderio di primeggiare, di essere ricordato come il migliore, a prescindere dal suo ambito di competenza. Il miglior giocatore di football d'America, il miglior attore di Hollywood, il miglior commentatore sportivo, il miglior imprenditore di se stesso. La sua intera esistenza è stata costellata da tappe che lo hanno costretto a reinventarsi ripetutamente, rivelando un innato spirito di auto-conservazione e capacità di ambientamento anche nelle situazioni più ostili. Ciononostante, nella migliore delle ipotesi, O.J. (il cui nome tra gli americani ha subito la stessa damnatio memoriae di Adolf) attualmente viene associato dalle nuove generazioni, che a malapena conoscono per sentito dire la sua storia, a un trend di tiktok con al centro la canzone dei Men At Work, Who can it be now? Oppure, per i più studiati, a una sorta di Enzo Tortora alla rovescia: l’emblema vivente di una macchia indelebile del sistema giuridico e della magistratura del proprio Paese.
C’è stato un tempo, a fine anni ’60, prima dei film della Pallottola Spuntata e prima ancora dei record con i Buffalo Bills (è ancora oggi l’unico giocatore ad aver superato il muro delle duemila yard corse in stagione regolare in sole quattordici partite) in cui l’America intera era ai piedi di un ragazzino dalla faccia pulita con il numero 32, che correva con le ginocchia verso l’alto in un’andatura mitica e inconfondibile, seminando ogni avversario e diventando un’autentica leggenda del college football portandosi a casa l’ambitissimo Heisman Trophy. Le immagini delle sue serpentine leggendarie sono uno spoiler di quella che sarebbe stata una vita intera a fuggire dalle proprie contraddizioni, dai propri demoni, dalle etichette, cambiando sempre direzione a seconda delle circostanze, delle opportunità e di una spasmodica ricerca della fama, vero centro nevralgico e stella polare di ogni sua azione. Come era solito fare sul campo da gioco ha dribblato tutti coloro che credevano di conoscerlo e di averlo compreso, sterzando e lasciando sul posto ideali, amici traditi, parenti e fan increduli per rincorrere sempre e solo la gloria personale, senza mai voltarsi indietro.
Il processo del secolo
Quando si provano a tratteggiare contorni della figura di Simpson e gli eventi che hanno contraddistinto la sua esistenza il rischio è sempre quello di non dare il dovuto spazio alle sue vittime, riducendole a mere comparse, oscurate dall’ombra ingombrante della sua silhouette. Spazzate via, oltre che dalla sua fredda furia omicida, dallo tsunami di dibattiti e polemiche sollevati dal circo mediatico dell’infausto processo del secolo.
Le poche righe della famiglia Goldman lasciano trasparire null’altro che un’angosciosa rassegnazione. Il loro figlio Ron, cameriere con il sogno di sfondare nel cinema, venne brutalmente sottratto ai suoi affetti e al suo avvenire a colpi di lama a soli venticinque anni, per il tempismo disgraziato di chi ha la sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. La cortesia nel riportare a casa di un’amica gli occhiali da vista della madre è costata a lui la vita e alla sua famiglia trent’anni di sofferta battaglia contro l’uomo che, la sera del 12 giugno 1994, decise di farla pagare una volta per tutte alla sua ex compagna. Nicole Brown, bellissima seconda moglie trentacinquenne di Simpson, dopo anni di abusi fisici e psicologici subiti e di denunce (ben otto) cadute nel vuoto (alcune delle sue telefonate alla polizia sono ancora reperibili su YouTube) stava provando in tutti i modi a rifarsi una vita, a sottrarsi al giogo di un manipolatore violento, geloso e ossessionato, che fino a quando non ha deciso di porre fine alla sua esistenza non le ha dato tregua, spiandola e controllandola anche a due anni di distanza dal loro divorzio.
Il tempismo che fu fatale al giovane Goldman giocò altresì un ruolo cruciale per The Juice (storico soprannome di O.J. dai tempi del college per il riferimento alla sua quasi omonimia con il succo d'arancia) nel garantirgli la famigerata assoluzione del 3 ottobre 1995. Sul processo del secolo si è scritto e detto di tutto e per chi volesse approfondire la vicenda, oltre alla sequela di libri e pubblicazioni dei diretti interessati, c’è l’audiovisivo che negli anni recenti ci ha regalato delle autentiche perle come la pluripremiata serie The People v. O. J. Simpson: American Crime Story e il documentario premio Oscar O.J.: Made in America (trovate entrambi su Disney+).
La percezione sulle motivazioni alla base di quel verdetto sorprendente, che va per la maggiore soprattutto qui da noi che non possiamo avere contezza di cosa significasse essere un nero di Los Angeles negli anni ’90, è quella di un divo che l’ha fatta franca grazie al suo status symbol e al suo pool di avvocati strapagati. Elementare Watson, verrebbe da dire, ma è una deduzione incompleta, vera solo in parte. Sarebbe ingeneroso ovviamente ridimensionare i meriti di quello che è già ai tempi venne definito dream team, capeggiato nell’immaginario collettivo da Johnnie L. Cochran Jr e con pezzi da novanta tra le sue fila come, tra gli altri, l’amico Robert Kardashian, l’avvocato delle star di Hollywood Bob Shapiro e il celebre penalista F. Lee Bailey.
La rivolta di Los Angeles del 1992
Tuttavia, come anticipato, il tempismo e la buona sorte di Simpson fecero sì che venisse giudicato in un clima tutt’altro che sereno e imparziale, pregiudicato da anni di guerra aperta tra la comunità afroamericana e il sistema giudiziario di Los Angeles, con le forze dell’ordine cittadine nell’occhio del ciclone dall’inizio degli anni '90. Il problema del razzismo brulicante e della corruzione tra le fila della polizia losangelina costituivano un tema bollente di quegli anni e le tensioni sociali avevano trasformato la città degli angeli in una pentola a pressione pronta a esplodere. A partire dall’omicidio di Eula Love nel ‘79, trentanovenne uccisa a colpi di pistola a causa di una bolletta non pagata di 22 dollari, gli episodi di intolleranza razziale che seguirono (e che rimasero per lo più impuniti) crearono una spaccatura insanabile tra guardie e afroamericani, paragonabile al clima di guerriglia riemerso prepotentemente nel 2020 con l’omicidio di George Floyd.
Il punto di non ritorno si consumò con il lungo e vigliacco pestaggio subito dall’inerme tassista Rodney King nel 1991. Le immagini chiare e incontrovertibili di quella violenza gratuita, immortalata da un videoamatore, fecero il paio a soli 13 giorni di distanza con la morte della quindicenne Latasha Harlins, entrata in un negozio di liquori per comprare un succo d’arancia e freddata con un colpo alla nuca da una commerciante coreana per presunto taccheggio (versione sconfessata ben presto dalla videosorveglianza). L’assoluzione dei sei agenti aggressori di King e la condanna a soli cinque anni di libertà vigilata all’omicida della Harlins furono la goccia che fece traboccare il vaso e il preludio alla reazione rabbiosa di un popolo vessato troppo a lungo nell’indifferenza generale. La rivolta di Los Angeles del 1992, che cominciò ancora prima del verdetto a favore dei poliziotti del caso King, mise in subbuglio LA per quasi un’intera settimana, e fu soppressa a fatica solo grazie all’intervento dei militari, con un bilancio da battaglia di 63 vittime, più di 2.000 feriti e oltre 12.000 arresti. Consci dunque dello storico e del background in cui si è consumato l'omicidio, il dream team e soprattutto Johnnie Cochran capirono perfettamente di avere un unico asso nella manica in una partita altrimenti proibitiva: la carta del razzismo.
La storia del nero di successo incriminato (per una lapalissiana e comprovata violenza domestica pluriperpetrata e sfociata in omicidio) dagli acrimoniosi organi di giustizia losangelini, a due anni da quel sanguinoso e ancora latente conflitto urbano, fu un’occasione troppo ghiotta per non cucire addosso ad O.J. -che mai prima di allora, quando era in cima al mondo, aveva proferito una singola parola di solidarietà o di supporto a favore dei propri “fratelli” (Io non sono nero, io sono O.J.)- l’immagine dell’ennesima vittima dell’abuso di potere bianco. Colui che in passato venne adottato come trasversale beniamino d’America proprio per la sua neutralità e la sua equidistanza razziale e politica, che per il suo modo di fare rassicurante e condiscendente era stato accolto dai bianchi nei salotti buoni dei ricchi di cui divenne un habitué, coltivando amicizie potenti tra una partita di golf e l'altra, tutto d’un tratto venne dipinto come un’icona del black power, un martire vittima di una cospirazione.
La difesa Chewbacca
In questo scenario il perfetto capro espiatorio venne trovato in Mark Fuhrman, l’agente che trovò il celebre guanto (speculare a quello rinvenuto sulla scena del crimine) a casa di O.J., che venne accusato di averlo spostato di proposito per poter incolpare Simpson. Non essendoci alcun movente per giustificare un simile gesto fu il passato indecoroso da razzista convinto e dalla bocca larga di Fuhrman l’unico appiglio a sostegno di questa tesi mirabolante, coadiuvata a onor del vero da una serie di registrazioni in cui l’agente (in seguito divenuto casualmente opinion leader ricorrente di Fox News) sfoggia tutto il proprio repertorio di epiteti a sfondo razziale e di altre amenità irripetibili. Per la difesa tutto ciò era sufficiente per architettare il complotto ai danni di O.J. e inquinare le prove per incastrarlo, anche perché Fuhrman, tra le altre cose, era uno degli agenti che conosceva casa Simpson, essendosi in passato recato in soccorso di Nicole a seguito di uno dei tanti episodi in cui il marito aveva dato di matto contro di lei.
Tutto fece brodo insomma per la difesa che, a differenza dell’accusa, non si fece scrupoli ad impostare per la giuria (composta per tre quarti da afroamericani) una narrazione ad hoc per ribaltare la prospettiva del caso, spostando sul banco degli imputati la polizia di LA e il loro mucchio di passate nefandezze al fine di delegittimare il malloppo di prove contro il proprio assistito. Le passate denunce, Il guanto, l'alibi traballante, il sangue delle vittime rinvenuto in casa e in macchina di O.J., le sue tracce di DNA sulla scena del crimine: tutto ciò non poteva essere preso in considerazione anche solo per il pericolo che dietro ci fosse la longa manus di Fuhrman e dei suoi colleghi. Cochran fu scaltro nel capire che, con un’America scissa a metà tra bianchi convinti della colpevolezza di The Juice e neri pronti a insorgere nuovamente in difesa di un proprio fratello, far fibrillare la pancia di un popolo ferito e in tumulto era l’unico modo per screditare le ingenti prove portate al banco da un’accusa fin troppo mansueta e maldestra, adagiatasi fin da subito sulla bontà della loro clamorosa evidenza. D’altronde, perché rovinare una bella storia di cospirazione di massa, di poteri forti suprematisti contro un idolo del popolo, con la verità del banale e scontato epilogo uxoricida di un picchiatore di mogli?
I ripetuti errori marchiani dell’ufficio della procuratrice Marcia Clark e dell’inesperto Chris Darden fecero il resto: l’onta imperitura delle immagini di un tronfio O.J., intento a provare senza successo i guanti dell’omicida, fecero il giro del mondo e rappresentano tutt'oggi la legacy iconografica dell’intero procedimento. I passi falsi dei pm prestarono il fianco alle istrioniche e spudorate arringhe di Cochran che per mesi continuò a gettare fumo negli occhi e a sparare nel mucchio (arrivando nel suo intervento finale ad associare Fuhrman a Hitler) provocando e confondendo la giuria con ragionamenti capziosi e contorti fino agli slogan orecchiabili fatti passare per brocardi (if it doesn’t fit, you must acquit, “se non entra, dovete assolvere” in riferimento al guanto provato da O.J.) in quella che, grazie alla genialità degli autori di South Park, è stata ribattezzata come la cosiddetta difesa Chewbacca.
Com’è noto, la fine del processo penale non mise un argine definitivo alla sete di giustizia delle famiglie Brown e Goldman, che citarono in sede civile Simpson ottenendone la condanna e un risarcimento di 33 milioni di dollari nel febbraio del 1997. Cifra che a conti fatti entrambe le famiglie non videro mai, se non in infinitesimale misura, ma che decretò la mazzata finale sulle finanze e soprattutto sulla reputazione di O.J., che per quel procedimento venne interrogato (anche a favore di telecamera, a differenza del processo penale in cui l’imputato in America non può essere chiamato al banco) esibendosi in una sequela di frottole manifeste e risposte contraddittorie che lasciarono fin da subito pochi dubbi o interpretazioni.
Il terzo tempo di O.J.
La sicurezza con la quale oggi ci arroghiamo il diritto di asserire che Orenthal James Simpson verrà consegnato alla storia, prima di ogni altra cosa, come l’efferato omicida di Nicole Brown e di Ron Goldman ce la restituiscono non solo il verdetto civile e la mole record di DNA e materiale probatorio rinvenuti dalle indagini, al netto degli errori commessi nel rilevamento. Nemmeno il libro-confessione If I did it, in cui Juice descrive ipoteticamente (ma per filo e per segno) i macabri eventi della notte incriminata (tutto per racimolare qualche soldo e pagare le spettanze ai Goldman/Brown previsti dalla sopracitata sentenza). La convinzione della sua colpevolezza deriva dalla sfacciataggine e dalla naturalezza con cui lo stesso O.J., resosi conto di non poter più riappropriarsi della sua credibilità e dello status di beniamino d’America, ha scelto di calare la maschera e inibire ogni sorta di residuo pudore, abbracciando il lato oscuro e rigenerandosi nella sua nuova veste di impunito e impenitente. La musica non è cambiata neanche dopo aver scontato nove dei trentatré anni di carcere, di una sentenza monstre che sa di tardiva reprimenda (33 gli anni, forse non a caso, come i milioni da risarcire in sede civile), in risposta a una tragicomica rapina a mano armata finita male, avvenuta in una stanza d'albergo di Las Vegas in cui Simpson, accompagnato da quattro amici poco raccomandabili, aveva inscenato una trattativa con un compratore col solo scopo di riappropriarsi forzosamente di alcuni suoi vecchi cimeli di football precedentemente battuti all’asta.
O.J. ha trascorso gli ultimi anni della sua vita riciclandosi con un’ultima trasformazione, la più miserabile di tutte. Il suo è stato un consapevole inabissarsi a infima incarnazione ontologica dell’ingiustizia, foraggiando così un nuovo codazzo di suoi biechi simpatizzanti, stuzzicandoli e giocando con loro a Las Vegas e attraverso i propri canali social con il dico non dico, gigioneggiando con il consueto carisma atteggiandosi a fiero reo confesso nei fatti e nella condotta ma non nella forma, onde evitare di incappare in ulteriori beghe legali. Lo stesso modus operandi, per capirci, di alcuni personaggi nostrani che flirtano con le destre estremiste, imbracciano in tutto e per tutto e rivendicano quegli incontrovertibili ideali ma, a specifica domanda sul dichiararsi fascista o meno, sorridono, fanno spallucce e tradiscono la totale mancanza di coraggio nell’ammettere l’ovvio a chiare lettere. È singolare in quest’ottica che, in quello che è diventato involontariamente il suo ultimo video di commiato, O.J. rassicuri tutti sulle proprie, chiacchierate, condizioni di salute dicendo di stare alla grande. L’ultima balla regalataci da chi ha scelto di fregarsene e di vivere nella più torbida ambiguità i propri ultimi scampoli su questa terra, il garbage time di una partita persa e senza più nulla da dire da tempo.
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