Storia di un interista che non ci credeva
Il personale racconto di una stagione passata a non credere nella seconda stella.
Prologo
"This could be heaven, this could be hell". Poche emozioni possono essere paragonate a quel misto di ansia, paura, eccitazione e curiosità che accompagna il tifoso di calcio la sera della prima giornata di campionato. La sera del 19 agosto, la sera in cui finalmente l'Inter avrebbe fatto il suo esordio in campionato, dentro di me non c'era nulla di tutto questo. Mentre mi recavo al pub per guardare la partita con gli amici di sempre, ricordo che alla radio passava "Hotel California" degli Eagles. Sarà stata un'incredibile coincidenza, oppure uno scherzo della mia memoria, oppure ancora un bieco espediente narrativo, ma quel verso a metà della seconda strofa mi colpì immediatamente: come era possibile che una canzone del 1976 era stata capace di riassumere in così poche parole uno stato mentale così complesso e disturbato come quello che poteva avere un tifoso interista a pochi minuti dall'inizio di questa stagione?
"This could be heaven, this could be hell", tertium non datur. Ai miei occhi l'Inter-Monza che mi apprestavo a vedere annebbiato dai fumi di qualche birra di troppo sarebbe stata l'inizio di una stagione straordinaria e indimenticabile oppure il primo passo verso un anno di nuove e ancora più cocenti delusioni. È vero, il tifoso nerazzurro è per sua natura pessimista e demoralizzato e da questo punto di vista potrei essere facilmente considerato come il più interista fra gli interisti, ma mentre guidavo con gli Eagles in sottofondo nella terribile afa notturna pugliese, trovare dei validi motivi per essere ottimisti sull'imminente stagione della mia squadra del cuore sembrava semplicemente impossibile. E come poteva essere altrimenti? I due mesi successivi alla tragedia sportiva più terribile della mia vita erano stati una sequela di figuracce, delusioni e attese interminabili. Nella furia di un rocambolesco ricambio generazionale, avevo visto partire vecchie bandiere, grandi campioni e giocatori che avrei considerato imprescindibili fino a poche settimane prima; mi ero prima illuso, poi sofferto e infine nutrito di una rabbia cieca e immotivata verso un giocatore che aveva giurato amore eterno all'Inter per poi ricordare a me a tutti i miei simili che i traditori non meritano una seconda opportunità.
Ero rimasto perplesso dall'arrivo di Marcus Thuram e incuriosito da quello di Bisseck e mentre i giorni passavano veloci come una sgroppata di Hakimi sulla destra, la squadra continuava ad essere pericolosamente incompleta: ad inizio agosto, l'Inter aveva collezionato sul mercato più figuracce che portieri e aveva visto sfumare praticamente tutti i suoi principali obiettivi, da Scamacca a Lukaku, da Trubin a Samardzic. La mia frustrazione aumentava di pari passo alla disperazione di Marotta e Ausilio, che in pochi giorni erano passati dal seguire Balogun e Taremi a chiudere a peso d'oro Arnautovic e Sanchez. Ma come Arnautovic e Sanchez? Ma in che anno siamo? L'arrivo dell'austriaco e del leone in gabbia aveva definitivamente affossato, cancellato ogni sogno di rivalsa e di grandezza che era nato in me la sera del 10 giugno. Dopo settimane di promesse, l'Inter si ritrova per le mani il mercato più marottiano di tutti, con tanti cari saluti al ricambio generazionale.
Alla viglia dell'esordio contro il Monza, Inzaghi si ritrovava tra le mani una squadra più scarsa, più vecchia, piena di parametri zero e pesantemente sotto dimensionata, in un contesto che sembrava pronto a implodere di nuovo alla prima difficoltà, come era successo più volte in primavera. Per tutti questi motivi, sulla strada per il pub quella sera avevo le idee abbastanza chiare. Avrebbe potuto essere paradiso o inferno, ma cominciava a fare decisamente troppo caldo e non era solo per colpa del riscaldamento globale.
Atto I – Entra, inseguito da un ricordo
Se qualche tifoso interista vi dovesse raccontare di aver cominciato a credere allo Scudetto dopo il 5-1 al Milan voi non credetegli, sta sicuramente bluffando. L'eccezionale avvio di stagione, contrario anche alla più rosea delle mie previsioni, era culminato in una vittoria che valeva tante cose ma di certo non la consacrazione come favorita per la lotta al titolo. Per me era, ad esempio, la forma più alta e dolce di vendetta che potessi immaginare per quello Scudetto scivolato via dalle nostre mani nel tempo di una rimessa laterale sbagliata di Perisic e che i cugini mi avevano quasi letteralmente sollevato nfaccia.
Le reti di Mkhitaryan e poi di Thuram e poi di nuovo di Mkhitaryan e poi di Calhanoglu e poi infine di Frattesi avevano detto tanto sul rapporto di forza esistente tra Inter e Milan ma poco sugli equilibri di un campionato che doveva ancora trovare la sua ragion d’essere e le sue gerarchie. Per questo, mi risulta ancora oggi difficile collocare quella tremenda vittoria in continuità con il resto della stagione; rimane lì, meravigliosamente a sé stante, come una sorta di spin-off. Nessun’idea sullo Scudetto, nessuna velleità di classifica: quel pomeriggio nella mia mente c’era spazio solo per la ripetizione a nastro, come le pubblicità delle pillole dimagranti sui canali di provincia, di quattro pensieri fissi, gli stessi che mi avrebbero accompagnato per tutto il resto della stagione.
- Quanto cazzo è forte Henrik Mkhitaryan
- Quanto cazzo è forte Marcus Thuram
- Quanto cazzo gasa Davide Frattesi
- Nella mia prossima vita vorrei rinascere Hakan Calhanoglu
No, in realtà c’è dell’altro. Guardando Inzaghi passeggiare sulle rovine di Pioli’s on fire, mi sono reso conto per la prima volta in stagione, come una sorta di epifania à la Joyce, di quanto fosse bello ed entusiasmante il calcio della mia Inter, di quanto fosse per davvero, il miglior calcio d’Europa, o almeno tra i più belli. Non c’è sensazione migliore per un tifoso di calcio, neanche per quelli che millantano di professare il credo risultatista. Non c’è niente di più bello e piacevole che guardare una partita della propria squadra e divertirsi, di leggere e sentire le parole dei tifosi e dei commentatori italiani e internazionali elogiare i tuoi colori e i tuoi beniamini, poter ammirare un gioco ritmico e propositivo in grado di far passare in secondo piano anche la tensione e l’ansia da risultato che inevitabilmente ogni tifosi si porta dietro e per tutto ciò non posso che essere eternamente grato ad Inzaghi e questo gruppo di ragazzi.
Eppure, la bellezza nel calcio è un’amante passionale ma pericolosa. Il bel giuoco non è per tutti, ma serve un animo da esteta e un cuore disilluso per poterlo vivere senza paura di rimanerne feriti. Nella mia ancora breve carriera da tifoso, ricordo di essermi compiaciuto due volte del gioco dell’Inter: la prima guardando un’Inter-Genoa 5-4 dell’aprile del 2012, l’esordio di Stramaccioni da allenatore dell’Inter, il pomeriggio in cui mi ero illuso potessimo diventare davvero come il Barcellona di Guardiola; la seconda invece, a metà dicembre del 2021, ammirando la prima Inter d’Inzaghi distruggere il Cagliari di Walter Mazzarri per 4-0. Al terzo gol di Calhanoglu, una sventola pazzesca dal limite dell’area di rigore, ho avuto la conferma che quell’anno avremmo vinto lo Scudetto, perché sarebbe stato impossibile per una squadra così bella, così entusiasmante non vincerlo almeno con dieci giornate d’anticipo.
Per ammirare il bel calcio serve soprattutto un cuore disilluso e se non ce l’hai per indole ci pensa l’esperienza a formarti come si deve. Per questo il 5-1 non poteva illudermi, non doveva illudermi, non gliel’avrei potuto permettere. Avevo già sofferto troppo a causa del Limoneball. Non mi sarei illuso di vincere lo Scudetto per colpa del mancino di Dimarco. Non ci sarei cascato una seconda volta.
Atto II – Come cantavano i Queen
È difficile però. Intendo continuare a non crederci. Per qualche settimana avevo avuto ragione, capiamoci. Nel giro di pochi giorni erano arrivate una delle peggiori prestazioni stagionali in Champions League contro la Real Sociedad e due grandissimi classici del repertorio dell’Inter degli anni recenti, ovvero l’intramontabile sconfitta in casa contro il Sassuolo e la figuraccia arrivata contro il Bologna, in una rimonta che ha mostrato al mondo (ma purtroppo non ai nostri dirigenti) chi fosse davvero Joshua Zirkzee. A metà ottobre le belle premesse di settembre sembravano dissolversi nei soliti limiti mentali, negli stessi problemi di continuità e di concretezza, gli stessi che erano costati all’Inter un Campionato e una Champions League.
Se i problemi sono gli stessi, la squadra che li affronta è diversa. Panta rei. Il vero punto di forza dell’Inter è stato il suo percorso di crescita. È stata la capacità del gruppo e dello staff tecnico di evolversi, migliorarsi, crescere sia tatticamente che mentalmente a fare la differenza rispetto alle (più o meno) dirette inseguitrici. In una parola, l’Inter è diventata matura e, per sua fortuna, è stata l’unica ad esserlo tra le pretendenti al titolo. Per l’Inter maturità ha significato consapevolezza: consapevolezza della propria forza ma anche consapevolezza dei propri limiti. La prima è servita a instillare nel gruppo la fiducia necessaria per provarci davvero, la seconda per capire che i risultati sarebbero arrivati solo grazie al lavoro, in partita come in allenamento. Per questo cominciava davvero ad essere difficile non iniziare a crederci.
L’Inter torna in campo dopo la sosta d’ottobre ed è lucida, serena, motivata e, ovviamente, ben messa in campo. E io quasi non capisco come sia stato possibile evitare il solito psicodramma. Infila una vittoria dopo l’altra, realizza caterve di gol e riesce persino a pareggiare in casa della Juventus, una partita che ogni interista vive con lo stesso stato d’animo di Brad Pitt nelle scene finali di Seven e che negli ultimi anni aveva sempre visto Inzaghi lottare contro il cortomusismo come Don Chisciotte contro i mulini a vento. Diventa davvero difficile continuare a fingere, diventa davvero difficile vivere la vita da disilluso. Il gioco dell’Inter ti fa innamorare e i risultati arrivano. Come arrivano ad esempio nelle trasferte contro Napoli e Lazio. È difficile descrivere il timore che per vari motivi ha accompagnato la vigilia di queste due partite, ma di sicuro non mi aspettavo la vittoria. Battere i campioni in carica a casa loro? Riuscire finalmente a vincere in casa della Lazio dopo quasi cinque anni? Basta con le cazzate.
Quelle due partite, e forse in particolare quella contro la Lazio di Sarri, verranno invece ricordate come uno dei due momenti decisivi per la conquista del titolo. È stato il momento in cui l’Inter non ha dichiarato, ha urlato al cielo e agli uomini le sue intenzioni e la sua determinatezza. Due vittorie arrivate così, with no nonsense come dicono gli americani, dominando dall’inizio alla fine e vincendo con una facilità che, mi costa ammetterlo, aveva solo la prima Juventus di Allegri. Con la stessa concretezza per giunta. Tre gol ad un Napoli di Mazzarri in versione ultima difesa nel palazzo del Reichstag li fai solo se hai fame e se sei forte. Forse, per la prima volta, comincio davvero ad essere fiducioso.
Atto III – È finita
Arrivati a questo punto, devo farvi una confessione: io non sopporto l'idea della fine del mondo. Avete presente tutti quei film o quelle serie TV ambientate in scenari post apocalittici? The Last of Us, The Walking dead o Mad Max? Bene, io non sono mai riuscito a sopportarli. C'è qualcosa nell'idea di un mondo brutale, anarchico e violento che mi ha sempre spaventato, forse proprio la paura di non riuscire a resistere e vincere in un mondo dominato dalla legge del più forte. Una vera sfida Scudetto nell'epoca a tre tra Inter e Juventus me la sono sempre immaginata così. It's the end of the world as we know it. L'inizio di una seconda guerra civile italiana, bombardamenti nucleari a tappeto su Milano e Torino, fosse comuni, cecchini sui tetti, file per il pane e carrarmati agli angoli delle strade. Chi vincerebbe in una guerra civile tra tifosi? Juventini e Milanisti finalmente potrebbero fondersi in un'unica alleanza come hanno sempre desiderato fare, mentre forse gli Interisti potrebbero contare sul supporto dei Napolisti, dei Laziali e delle Brigate Turone, un gruppo di romanisti seccesionisti fondato per vendicare il furto del 1981.
Distopie calcistiche a parte, l'idea di una lotta punto su punto contro la Juventus di Max Allegri sarebbe stato per me uno scenario leggermente migliore dell'olocausto nucleare. Anche perché l’avrei affrontata con la sicura consapevolezza d’un’inevitabile sconfitta. Tutto in realtà sembrava andare a nostro sfavore: dal calendario fitto agli impegni di Champions, dalla trasferta saudita per la Supercoppa nel bel mezzo di gennaio agli infortuni di Lautaro, Dimarco e Pavard. E poi gli sfottò, le frecciatine, la strategia della tensione meticolosamente adottata da chi ha passato, per larga parte della stagione, una buona porzione del suo prezioso tempo a dedicarsi ai giochi mentali piuttosto che dedicarsi ad allenare seriamente la sua squadra.
Eppure i biechi tentativi di buttare la corsa Scudetto sulla rissa, la strategia di portare un Paese sull’orlo della guerra civile solo per mettere pressione ai propri avversari erano tanto ridicole quanto dannatamente efficaci, almeno su di me. Avevo interiorizzato tutta la pressione di una sfida giocata da favoriti, l’idea di un’inferiorità, di una debolezza a livello mentale che avrebbe fatto il suo corso grazie all’incrollabile concretezza della Juventus e alla vuota bellezza dell’Inter. Stavo, in altre parole, facendo il gioco di Allegri e avevo una paura fottuta. Il bello del calcio è la sua capacità di coinvolgerti in prima persona in una serie di eventi e situazioni su cui tu non hai il minimo controllo. Ti frega quando ti porta a parlare al plurale. È tutto una serie di giochiamo, vinciamo, perdiamo, compriamo, vendiamo, ci schieriamo, attacchiamo, difendiamo. Ti illudi quindi che per osmosi le tue idee, le tue emozioni siano le stesse dei calciatori e dell’allenatore. Però poi in campo non ci vai tu, ci vanno loro. E ti accorgi, per fortuna, che tutte le tue preoccupazioni durano il tempo di una rovesciata sbilenca di Pavard. Sarebbe scontato, ma comunque forse giusto, pensare a Inter-Juventus come il match decisivo per lo Scudetto, quella che finalmente mi ha convinto a credere nella possibilità di un’impresa. Per me, però, è stata solo la partita che mi ha permesso di capire che, in fin dei conti, che io ci creda o meno non sarebbe importato poi così tanto. Era sufficiente che ci credessero loro.
Epilogo
Vincere lo Scudetto in un Derby è un’esperienza sopravvalutata? Me lo sto chiedendo proprio in questo momento, mentre sto ricevendo la telefonata che ho aspettato a lungo per tre anni. Era mio padre, ci siamo fatti gli auguri e le congratulazioni a vicenda e come tre anni fa aveva la voce rotta dall’emozione e in fondo mi sento proprio come lui, piegato da una gioia indescrivibile. Gioia, tantissima gioia. Eppure mi aspettavo rabbia, risentimento, frustrazione per una vittoria arrivata contro gli avversari di sempre. La verità è che non me ne frega niente di averlo vinto contro il Milan e mi rendo conto che tutti i discorsi sulle vendette e sull’onore macchiato vanno bene per una fiction della Mediaset e non per una vera festa Scudetto. Non riesco a provare altro che gioia. E gratitudine.
Rivedo Lautaro piangere di gioia e lo ringrazio per le sue reti ma soprattutto per quella voglia di spaccare il mondo in quattro, per quella insostituibile scarica di adrenalina che i percorre la schiena quando lo vedo scendere in campo. Barella è il mattatore indiscusso della serata e solo Dio sa quanto io ami quel giocatore così indisponente e lunatico ma che ha il tocco di palla che da solo è capace di rimettermi in pace con il mondo e con il calcio. Con gli occhi ringrazio Calhanoglu, i suoi rigori, i suoi lanci e il suo essere l’incarnazione vivente del fatto che, in fin dei conti, De André aveva davvero ragione. Dov’è Bastoni? Ah, eccolo lì. Tre anni si faceva imboccare dalla mamma durante la festa Scudetto e invece stasera tiene in braccio la sua piccola Azzurra; è cresciuto davvero tantissimo, come uomo e come calciatore. Ringrazio Thuram per aver smentito con i fatti tutti i miei dubbi sul suo arrivo, ringrazio Dimarco, il suo interismo militante e quel mancino che sarebbe in grado di cantarmi una ninnananna, ringrazio Pavard perché il suo entusiasmo è stato contagioso e raro come la sua classe infinita. Le telecamere indugiano prima su Mkhitaryan e poi su Darmian, i due stakanovisti, gli uomini che più di tutti hanno saputo incarnare lo spirito collettivista e dinamico dell’Inter della Seconda Stella. E poi Sommer, lo spirito indomabile di Frattesi, la indispensabile megalomania di Sanchez, l’affetto per Klaassen e per Dumfries, l’entusiasmo di Bisseck, il sorriso di Stefanino Sensi.
Dovrei cercare sicuramente modi migliori per incanalare l’amore che sono capace di provare ma è così difficile non voler bene a questi ragazzi. E al Mister. Ringrazio Inzaghi per essere stato il vero fuoriclasse dell’Inter scudettata e per avermi permesso di guidare il suo Carro anche quando aveva professionalmente le stesse prospettive di vita di Arthur Morgan che si avvia alla fine dei suoi giorni. Finisce la festa, si spengono le luci, finiscono i cori e finisce anche la mia voce. E ora di andare finalmente a letto. E mentre mi addormento, a gioia e gratitudine si aggiunge un terzo sentimento: la malinconia per una stagione da sogno che vorresti non finisse mai.
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