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, 5 Aprile 2024

Perché parliamo tanto dell'aura?


Un concetto sempre più presente nella narrazione del calcio.

Nell’epoca della scienza applicata al calcio, in cui ogni parametro appare oggettivabile attraverso complessi algoritmi che generano dati e statistiche a non finire, un nuovo spettro, forse indefinibile, senz’altro intraducibile in numero, aleggia per i salotti virtuali del dibattito calcistico: l’Aura.

Se bazzicate le pagine di sport più popolari sui social, negli ultimi mesi vi sarete sicuramente imbattuti in post che celebrano l’aura di un giocatore. Il termine è sul punto di seguire la classica traiettoria delle parole che, una volta in auge, vengono abusate a tal punto da perdere di significato; in un primo momento ci sembra di coglierne l’essenza, come se si trattasse di un valore universale. Ma, non appena la parola inizia a espandersi, come un ventaglio che si apre, raccogliendo i più disparati significati, adattandosi ai più diversi tra i contesti, ci sembra di non coglierne più il senso. Recuperare l’etimologia greco-latina del termine può essere un esercizio utile per stabilire un punto di partenza: da un lato si è affermato il significato di “soffio di vento”, “brezza”; dall’altro, in ambito mistico, l’aura indica una specie di “radiazione”, un alone magico e quasi impercettibile che circonda una figura. Quando si parla dell’aura in relazione a un calciatore, è a questa seconda definizione che ci si riferisce.

C’è un giocatore che più di tutti sta facendo parlare della sua inimitabile capacità di generare Aura in ogni situazione che lo veda protagonista: ha appena 16 anni, la scorsa estate è stato acquistato dal Real Madrid e, come ha rivelato in una commovente lettera dedicata al fratellino piccolo su The Players’ Tribune, da bambino, quando doveva presentarsi a uno sconosciuto, lo faceva così: “Mi chiamo Endrick Felipe Moreira de Sousa, ATTACCANTE”; “Mi ridevano dietro”, continua Endrick, “Ma, fratello mio, io ne ero convinto. Ero convinto che ce l’avrei fatta, e mamma piange ancora quando lo ricorda."

In questa lettera, Endrick ripercorre tanti momenti dolorosi della sua infanzia: dal trasferimento a San Paolo con la mamma, spesso costretta a dormire per terra perché l’accademia del Palmeiras aveva posto solo per lui in un piccolo monolocale in cui lui dormiva con altri compagni di squadra, tutti stipati, fino al padre che, rimasto a Brasilia, faceva i salti mortali per guadagnare qualche soldo da inviare a moglie e figlio. Ogni tanto, però, il cibo non bastava, e la madre era costretta a invitare suo figlio ad andare a dormire, in modo che la fame passasse.

C’è un passaggio che più di tutti sorprende in questa lettera: Endrick ha appena dieci anni. Un giorno vede il padre piangere per lo sconforto, e con una maturità che sembra non avere nulla a che vedere con un bimbo della sua età, prende consapevolezza della gravità della situazione. Endrick racconta di essersi rivolto al padre, e di avergli detto: “Non ti preoccupare. Diventerò un calciatore, e ci tirerò fuori da questa situazione." Poi commenta la svolta di quel giorno: “Prima di quel giorno, ero solo un bambino, e il calcio era solo un gioco. Dopo quel giorno, il calcio è diventato la via verso una vita migliore." Un racconto quasi favolistico, da sceneggiatura hollywoodiana. Come se già questo non bastasse a manifestare l’eccezionale maturità del ragazzo – o meglio, ragazzino – va ribadito come Endrick abbia dedicato questa lettera al fratello di quattro anni, nella speranza che lui, un giorno, la legga e si renda conto che la serenità, i privilegi e le agevolazioni con cui, lui sì, sarà cresciuto, non vanno date per scontate. Il finale della lettera merita una citazione testuale: “Nel momento in cui ci dimentichiamo da dove veniamo, rischiamo di perderci. Per questo ti dono questo ritratto della storia della nostra famiglia. Mamma che mangia il pane raffermo; Papà che dorme sotto la biglietteria; Mamma che piange in bagno. Che tu possa sempre tenerlo nel tuo cuore. Ti voglio bene, fratello. Dal profondo del mio cuore, Endrick Felipe Moreira de Sousa, ATTACCANTE."

È quasi fastidioso quanto Endrick appaia maturo, sciolto, quasi perfetto in ogni scatto, dichiarazione o esultanza. La costruzione della sua immagine è talmente immacolata da sembrare il frutto di uno studio approfondito di centinaia di professionisti delle pubbliche relazioni. Nulla, nell’etica e nell'estetica di Endrick, viene lasciato al caso. La prima volta che ho sentito il termine “Aura” associato ad Endrick risale al giorno in cui è arrivato all’aeroporto di Madrid per svolgere le visite mediche col Real, che a sedici anni lo ha prelevato per “appena” 72 milioni tra parte fissa e bonus. Il talentino del Palmeiras viene immortalato dai giornalisti spagnoli in uno di quegli scatti che, appena realizzati, già sembrano destinato a un’imperitura iconicità, più o meno come tutto ciò che questo ragazzo fa: Endrick, sguardo cattivo e sicuro à-la-Mike Tyson, giaccone Gucci d’oro col cappuccio alzato e zainetto nero da scolaretto, regge con la mano destra la prima pagina di Marca, che titola in prima pagina: Endrick, fichado el crack del futuro. A chiunque si imbatta in questa foto, viene in mente una sola parola, indelebile e sfuggente, ma, nel caso di questo prodigio, più che mai appropriata: Aura.

Il 6 novembre del 2023, il CT della Seleçao Fernando Diniz lo convoca in nazionale maggiore: Endrick diventa il più giovane calciatore selezionato dal Brasile dopo Ronaldo nel ’94. La foto dell’arrivo in ritiro, ancora una volta, è talmente iconica da far pensare a uno studio ben calibrato di professionisti, frutto di ore e ore di riunioni su Teams, come se si trattasse di un outfit di Chiara Ferragni: Endrick conferma in blocco Gucci, dallo zainetto alla polo bianca col colletto che riprende i colori classici del marchio italiano, ma a far fantasticare tutti non è certo la scelta del marchio; lo stile della polo, bianca e a maniche larghe, come si indossavano una volta, fa fantasticare molti sulla somiglianza tra Endrick e O’ Rey Pelè.

Nelle ore successive vengono pubblicate sui social diverse foto che mettono in relazione i due, manifestando un’evidente somiglianza estetica: se ci avessero detto che Endrick si è teletrasportato dal Brasile di Garrincha e Pelè campione del mondo nel 1958, probabilmente ci avremmo creduto. La maglietta nei pantaloni, quell’aria da ragazzo vissuto, maturo, oggi che tutti i calciatori hanno delle facce così puerili, levigate, inespressive.

Anche nel suo stile di gioco, Endrick sembra più in risonanza coi brasiliani di sessant’anni fa, piuttosto che con Neymar, idolo della sua generazione: non ha la sua agilità nello stretto, né la sua leggiadria sofisticata nel trattare il pallone; Endrick è un giocatore diretto, lineare, che punta la porta e sembra percorrere il sentiero che vi conduce dritto per dritto, con la potenza di un rinoceronte che carica a tutta forza. Un mese dopo la sua prima convocazione verdeoro, Endrick ha vinto da protagonista il campionato brasiliano col suo Palmeiras. Neanche a dirlo, le foto che lo ritraggono nelle celebrazioni hanno qualcosa di diverso, di speciale. Sono foto appena scattate, ma mentre le scorgiamo sembrano già avere qualcosa di vecchio. Ogni foto di Endrick sembra preannunciare un valore eterno; è come se, nel momento stesso in cui viene scattata, sia già programmata per essere scorta tra decenni in un vecchio almanacco. Ci conforterebbe, forse, se si trattasse di un mero fenomeno estetico. Il ragazzo ci risulterebbe più umano, più vicino, ma niente.

Anche sul campo, il futuro attaccante del Real continua a emanare un’aura irresistibile. Nel suo esordio col Brasile, a Wembley contro l’Inghilterra, ha segnato il gol dell’1-1 al primo pallone toccato. Nel dopo-gara ha dichiarato che segnare nello stadio di Bobby Charlton – il quale segnava quando nemmeno i genitori di Endrick erano nati – era un suo sogno. Questa è l'ennesima dichiarazione che quasi ci disturba per come questo ragazzo, da un lato, rappresenti il futuro e, dall’altro, sembri venire dal passato, sembra aver già visto tutto.

Una settimana dopo, per non farsi mancare nulla, Endrick ha segnato anche contro la Spagna, al Bernabeu, presentandosi da predestinato di fronte a Florentino Perez e alla sua nuova casa calcistica. Nell’esultanza si batte il petto sorridendo, prima di correre ad abbracciare suo padre; dietro di lui si intravede Lamine Yamal, l’altro predestinato sedicenne, autore di una partita da assoluto dominatore tecnico, che lo guarda atterrito.

Entrambi saranno il futuro, ma la sensazione è che nell’Aura di Endrick ci sia anche tanto passato, e chi promuove la sua immagine lo ha capito benissimo.

A Madrid, pronto ad accogliere il giovane-vecchio Endrick, c’è un altro giovane fuoriclasse spesso associato al termine “Aura”. Ha vent’anni, ha scelto il 5 di Zidane, e dopo le prime 15 partite coi Blancos ha battuto il record di Cristiano Ronaldo e Di Stefano, siglando ben 14 gol. Jude Bellingham è nato nell’uggiosa Birmingham ed è una delle icone del nuovo calcio. Il processo di iconicizzazione del talento inglese è partito da scelte prettamente estetiche: in tal senso, la numero 5 di Zidane, è stata un’intuizione molto fine; Jude è più potente e meno raffinato tecnicamente di Zizou, ma in qualche controllo orientato con cui sembra tentacolare il pallone lo ricorda in modo evidente: tanto basta per renderlo erede estetico del francese. A sfregarsi le mani è stato lo sponsor di Jude e Zizou, Adidas, che negli ultimi mesi ha lanciato una pubblicità che vede coinvolti i due numeri cinque dei blancos per promuovere le nuove Predator.

Le prestazioni scintillanti sul campo sono state il punto di partenza, ma un altro fattore fondamentale per la costruzione di un’aura speciale attorno a Bellingham è stata l’esultanza: braccia larghe come il Cristo di Rio, sguardo fiero e impassibile, di chi non si sorprende più delle sue prodezze. Il suo fisico slanciato da gazzella e il taglio di capelli alla moda completano un impatto estetico iconico.

È anche grazie alla sua capacità di costruire attorno alla propria immagine un’estetica unica, puntando sul numero, sull’esultanza, sulla sua innata scioltezza nelle interviste - esilarante quella con la giornalista Alessia Tarquinio - che Jude è riuscito a produrre un’aura così potente attorno a sé. Oggi, passando per le stazioni metro di Parigi, potreste imbattervi nella nuova pubblicità Adidas, che lo vede testimonial protagonista dello slogan: “You got this”.

In pochi mesi, Jude è riuscito a trasformarsi in un’icona sportiva. Lo ha fatto, sì, grazie alle sue straordinarie prestazioni in campo, ma anche grazie a una cura della propria immagine a cui i calciatori – e i professionisti attorno a loro – sembrano attribuire sempre più attenzione, quasi come se l’Aura, ormai, fosse un valore importante al pari di gol e assist.

La nuova generazione di calciatori non sembra lasciare più nulla al caso: niente controversie extra-campo, profili social curatissimi, capelli sempre perfetti, rapporto coi media, esultanze. Tutti questi fattori, apparentemente innocui per un calciatore, diventano essenziali nel momento in cui il calciatore stesso, divenuto Icona, si trasforma in una vera e propria azienda: il campo di gioco si allarga in modo netto, e non è più il semplice rettangolo verde. Bellingham, come Endrick, sa di avere ormai tutti gli occhi puntati su di sé; sa che oggi, nell’era di internet, un solo piccolo sbaglio, una leggerezza di poco conto possono generare una bufera mediatica capace di polverizzare l’immagine granitica che si è costruita fino a quel momento.

Negli ultimi giorni è stato diffuso sui social un video che risale al pre-partita di Inghilterra- Belgio, ultima amichevole di questa sosta nazionali: durante gli inni, Bellingham si rende conto che il bambino in sedia a rotelle con cui è sceso in campo è in maniche corte e potrebbe patire il freddo; in un attimo, si sveste della giacca rappresentativa, e la porge al bambino, dandogli una carezza.

https://twitter.com/brfootball/status/1772717247154266380

Il video è stato ricondiviso ovunque, e i commenti sono unanimi nel ribadire come Bellingham si dimostri in ogni occasione un ragazzo d’oro. Sembrano dettagli innocui e può sembrare persino malizioso sviscerarli nell’ottica di una fredda strategia d’immagine, ma è unendo questi tantissimi frammenti che, oggi, si costruisce un’icona come la sua.

Ai giocatori, il campo, sembra non bastare più. È inevitabile che, nella società dell’immagine, dell’apparire, anche il calcio, dimensione che – tra le tante – può rappresentare uno specchio dei cambiamenti sociali, vada incontro a tali sviluppi. Oggi sono i calciatori stessi ad autopromuoversi, a pubblicare sui propri profili social dei video compilation con le loro migliori giocate esaltate da montaggi creativi e Lil Baby o Future in sottofondo. Parlano con i giornalisti per farsi sponsorizzare, fantasticano su esultanze sperando di essere intercettati dalle telecamere, in modo da accrescere il proprio “effetto Aura”.

Pensate a Rafael Leão: calciatore fortissimo, sì, ma anche rapper con due album all’attivo, ideatore del brand di moda “Son is Son”, youtuber autore di vlog, da poco persino autore di un libro. Leão è la quintessenza dell’estetica del calciatore di nuova generazione: interagisce coi tifosi su Twitter, promuove le proprie canzoni su Instagram, vota gli outfit dei compagni su Youtube.

I calciatori sono consapevoli di quanto la propria immagine, oggi, conti tantissimo; e sanno anche che essa non dipende solo dalle loro gesta in campo. Le stesse società, sempre più impegnate a trasformare i propri calciatori in icone a 360 gradi, tra promozione dei nuovi kit, video challenge sui canali social e montaggi dalla qualità ormai cinematografica, sono consapevoli di quanto sia prezioso acquistare un calciatore che, oltre ai valori sportivi, possieda un’aura mediatica da sfruttare. Il calcio vive sempre di più di spettacolo. Le partite durano ancora novanta minuti, ma il mondo che le circonda si allarga ogni giorno di più: agli atleti è richiesto di essere presenti, ovunque, in qualsiasi momento.

Così, la forma, ossia quell’insieme di scelte e azioni che costituiscono l’immagine di un calciatore, tramutandosi in aura, diviene sostanza. L’unicità, lo stile – qualche anno fa avremmo detto lo swag – accrescono la fascinazione per un atleta, rendendolo più appetibile per società che ragionano sempre di più in qualità di aziende di spettacolo.

Da sempre, il mondo dell’hip-hop e quello dello sport sono intrecciati. Entrambi rappresentano ambienti competitivi, ed entrambi offrono una possibilità di riscatto a chi, come Endrick, è nato senza privilegi. Per via di questa affinità, oggi, non solo tanti rapper sono amici di calciatori, ma addirittura i calciatori approfittano del tempo libero dal calcio per rappare. Tra i ragazzi di nuova generazione, il rap è in assoluto il genere più ascoltato.

Di recente è spopolato un trend sui canali social delle squadre: viene chiesto a ogni giocatore chi sia il suo artista preferito. Eccezion fatta per Hans Nicolussi Caviglia della Juve, il quale ha risposto “Guccini”, tutti gli altri citano nomi di rapper come Shiva, Baby Gang, Sfera, o gli americani Future, Drake, Lil Baby. Se prima, nelle periferie, il calcio era visto come l’unica strada capace di offrire una via d’uscita dalla povertà, oggi, specie tra le seconde generazioni, la possibilità di farcela con il rap sembra ormai la più gettonata.

Tanti ragazzini di origine maghrebina, ma nati in Italia, vedono come riferimenti rapper come Simba la Rue e Baby Gang; nel calcio, per via di una legislazione insensata che non riconosce la cittadinanza a chi sia nato in Italia da genitori stranieri, gli esempi, per ora, non ci sono. In ogni caso, le tante tute da calcio spesso presenti nei video dei rapper, testimoniano come il sodalizio tra calcio e Hip-Hop sia più vivo che mai. L’estetica dei due mondi è ormai, in molti casi, simile.

Tempo fa sono stato al Listening Party del rapper americano più controverso, chiacchierato e, a mio avviso, rivoluzionario degli ultimi venticinque anni. L’artista è ovviamente Kanye West, il quale si è reso protagonista di una performance – non si può dire che si sia esibito – di pura dimostrazione dell’autosufficienza dell’aura. Una forma di installazione d’arte contemporanea, una provocazione che esaspera in modo estremo il concetto di culto della persona. Per chi non fosse familiare con questa modalità di concerto, Ye è salito sul palco del Forum di Assago con un passamontagna a coprirgli il volto, e ha fatto ascoltare il nuovo disco “Vultures”, già uscito da una settimana, senza cantare nemmeno una canzone. Era semplicemente presente, accompagnato da Ty Dolla Sign, rapper con cui ha collaborato nella realizzazione dell’album, e tanti altri ospiti come Quavo, Rich The Kid, Playboy Carti ed Freddie Gibbs; mentre le tracce scorrevano in successione, Ye e compagnia si esibivano in qualche mossetta: qualcuno ballava, qualcuno saltellava, altri attraversavano il palco aspirando da canne lunghe come torce olimpiche; ogni tanto si concedevano al pubblico a braccia conserte, immobili, offrendo la propria immagine come statue da venerare. L’idea è che quando hai già una carriera alle spalle che costituisce la base della tua aura, non hai più nulla da dimostrare: la tua aura è già legittimata.

Nei giorni successivi si è alzata la polemica per i prezzi non proprio favorevoli di un concerto in cui nemmeno si canta ma chiunque sia fan di Kanye non può non aver percepito la potenza dell’esperienza. Per chi ne apprezza il genio da sempre, a tal punto da doverlo goffamente difendere di fronte alle uscite deliranti degli ultimi tempi, bastava la presenza. Bastava vederlo da vicino, e constatare quell’alone magico che lo circonda. Chi invece era presente solo perché l’evento era “trendy”, probabilmente non ha avvertito alcuna aura.

Questo perché l’aura è il frutto di scelte estetiche, di una strategia d’immagine portata avanti nel tempo, ma soprattutto è il frutto di un’unicità che deve essere nota a chi tenta di intercettarla. Se non si è consapevoli di tali scelte, se non si conosce The Beautiful Dark Twisted Fantasy, uno dei dischi più illuminanti di Ye, l’aura non può che sbiadire. Quando invece conosciamo l’icona che ci ritroviamo di fronte, perché l’abbiamo seguita nei molteplici piani di sviluppo della sua immagine e delle sue azioni, l’aura è tanto potente da emanare una potenza mistica fondata sulla semplice presenza. E allora Endrick si batte la mano sul petto, Jude allarga le braccia, Kanye sta fermo di fronte a noi a braccia conserte: percepiamo una resistenza al tempo, un’unicità slegata dalle contingenze del qui e ora, con una provenienza lontana, in cui riecheggia il passato, ma pronta a durare in eterno, nel futuro.

Percepiamo l’Aura.


  • 23 anni. Studia Filosofia, ama il Calcio e il Cinema, fonti inesauribili di storie.

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