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Lazio Sarri
, 14 Marzo 2024

Maurizio Sarri non è riuscito a cambiare la Lazio


E la colpa non è solo sua.

Quando sono arrivate le prime indiscrezioni sulle dimissioni di Maurizio Sarri dalla Lazio nessuno o quasi ha sottolineato l’eccezionalità che questa scelta rappresenta oggi nel mondo del calcio. Forse perché ad oggi incarna uno dei pochi esempi dell’allenatore “che si è fatto da solo”. Per questo è sembrato quasi come un gesto dovuto: nonostante l’alone di retorica che ha circondato la sua figura fin dagli inizi della sua scalata al calcio Europeo a Sarri nessun potrà mai rimproverare di non essere stato un esempio di autenticità.

Sarri che inveisce con la UEFA contro i calendari, Sarri che se la prende con il calcio moderno, Sarri che da la colpa al terreno di gioco; anche nelle più ridondanti uscite – non poche ad essere onesti – le sue affermazioni sono sempre sembrate dettate da un’onesta e genuina visione del calcio. D’accordo, la sua. Con tutti i limiti e i crismi che si porta dietro, ma mai dettate da un qualche calcolo razionale giustificatorio per qualche partita negativa.

Quasi tre anni fa si realizzava il suo trasferimento alla Lazio; sulla carta una di quelle situazioni che metteva d’accordo tutti: la società, uscita in modo tragico dal voltafaccia di Simone Inzaghi; l’ambiente, che vedeva in lui finalmente la possibilità di un salto di qualità ambizioso, logorati dalla gestione conservatrice che ha sempre contraddistinto Lotito. Ma soprattutto per Sarri stesso, che dopo due gestioni comunque positive sembrava aver finalmente trovato un club capace di accompagnarlo e di assecondarlo in un’idea di calcio più vicino alle sue sensibilità dentro e fuori il campo. Se si vuole quindi capire come si è arrivati ad una rottura del genere bisogna innanzitutto partire dal più evidente esito della sua gestione.

La verità è che anche Sarri, come tutti i precedenti allenatori passati sotto le mani di Lotito, è stato travolto da una gestione societaria padronale e reazionaria; ed è ironico pensare come tutti avessero creduto – o sperato – in un effetto opposto.

A pensarci ora, l’idea che un allenatore – sì, d’accordo non uno qualunque – potesse sortire un cambio di modus operandi semplicemente con la sua influenza risulta alquanto idealistica, se non utopica. L’errore più grande commesso da tutti – tifosi in prima linea – è stato pensare che l’ingaggio di Sarri rappresentasse per la società un cambio di passo verso una gestione più ambiziosa e non più legata ad una visione del calcio conservatrice. La verità, invece, è che il suo ingaggio è stato l’ennesimo, pomposo tentativo di vendere un’idea piuttosto che cementare e programmare nel lungo qualcosa che rappresentasse effettivamente un cambio di registro, approfittando di una figura mediatica autorevole come quella di Sarri.

Un esempio di cosa Maurizio Sarri può essere fuori dall'area tecnica.

Le divergenze in fase di mercato, le uscite contradditorie della società che nascondevano sottotesti tesi a mettere pressione e a scaricare responsabilità sulla figura di Sarri all’esterno; per non parlare dei ricorrenti segnali mandati dal toscano alla società volti a rimarcare che l’unica soluzione per ridurre il gap competitivo fosse un’oculata programmazione su più anni. È impossibile non pensare che tutte queste cose individualmente non abbiano inciso in maniera determinanti sulla situazione finale.

Certo, in questi termini sembra che l’allenatore non abbia responsabilità quando non è assolutamente così. Premesso che situazioni come l’immediato rinnovo di contratto dopo il primo anno, una scelta volta a rafforzare la sua figura all’interno dello spogliatoio, e le lusinghe frequenti da parte di Lotito sui suoi virtuosi principi moralistici fossero, almeno a sensazione, dei sinceri attestati di stima senza secondi fini. Ma la verità è che alle parole non hanno mai dato seguito i fatti e che il rapporto sia finito più o meno come tutti gli altri allenatori prima di lui.

Sarri alla fine si è ritrovato solo, in confusione totale soprattutto nelle questioni prettamente di campo, quelle che erano sempre state il suo punto di forza. A questo punto va quindi sottolineato come lui stesso in tre anni abbia galleggiato in un ibrido tra le sue idee ed il materiale a disposizione: uno tra gli allenatori più moderni è finito per rappresentare un calcio stanco e asfittico, privo della vitalità che lo aveva contraddistinto nelle sue annate migliori. Più che innovare, Sarri si è appiattito su posizioni ed idee eccessivamente dogmatiche. Niente sintetizza meglio i palloni buttati in area di rigore a cercare gli inserimenti di Vecino il suo fallimento ideologico. Un calcio incapace di creare vantaggi posizionali e difensivamente di garantire le giuste contromisure ai nuovi principi di gioco offensivi sviluppatosi in Italia ed in Europa.

Nonostante momenti di notevole efficacia e qualità.

Un matrimonio che doveva suggellare un nuovo ciclo in rottura con le precedenti esperienze per la Lazio e il ritorno idealistico di un allenatore a un ambiente adatto a sviluppare il suo gioco si è trasformato per vari motivi in un guazzabuglio di contraddizioni che hanno finito per influenzarsi reciprocamente in modo negativo. La Lazio di Sarri ha avuto picchi di buon livello, ma sono sempre sembrati più il risultato isolato di singoli momenti di forma dei giocatori. Ed è beffardo pensare a come più la Lazio si sia plasmata sui principi di gioco di Sarri e più abbia perduto di efficacia, rigettando quasi completamente quest’ultimi.

Sarri non ha mai avuto bisogno di ingraziarsi l’ambiente o di trasformarsi in un capopopolo per nascondere la polvere sotto il tappeto. Soprattutto tenendo conto di questo si può capire perché per i tifosi il suo addio è stato così doloroso. Nei fatti questo è stato la fine dell’idea che, in fondo, anche una società disfunzionale, da anni assoggettata a logiche di gestione acritica da parte di Lotito, potesse internazionalizzarsi e aspirare a risultati ambiziosi dentro e fuori dal campo. Più della fine del “sogno”, l’epilogo più drammatico delle dimissioni di Sarri è che la Lazio accetti di dover ricominciare da capo, come se i suoi tre anni non avessero lasciato niente, sola l’inquietante situazione di staticità ed un’amara presa di coscienze sugli atavici problemi destinati a perdurare. Chissà fino a quando.

  • Classe 2001, Laziale. Adora gli attaccanti che sanno calciare forte sul palo del portiere. Considera van Persie il calciatore più elegante e stiloso ad aver mai calcato un campo da gioco.

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