La topica del traghettatore
Una figura mitologica sempre più importante per il campionato di Serie A.
I mesi di febbraio e marzo, in genere, sono quelli più caldi per le squadre italiane. Abbastanza controintuitivo se paragoniamo questo periodo della stagione calcistica con il tempo atmosferico, freddo per definizione. Una situazione antitetica, come quella che vivono alcune protagoniste della Serie A. Se le squadre di vertice – che generalmente competono nelle varie notti europee – devono capire come gestire bene le energie per non perdere colpi sui vari fronti, quelle di bassa classifica devono correre ai ripari per evitare di trovarsi in spiacevoli situazioni. Sono anche i mesi in cui si valuta la bontà del mercato di riparazione invernale: capire se i nuovi attecchiscono in un determinato contesto tecnico-tattico o se continuano a essere dei corpi estranei. Un periodo in cui tutti i componenti delle varie società sono particolarmente sotto stress e contestualmente sotto esame.
Se il momento delle squadre – sia che si parli di una squadra forte che di una meno - è accomunato da momenti di tensione, è chiaro che la differenza stia nella diversa posta in palio. Le squadre di vertice si prefiggono obiettivi ambiziosi, ma non è detto che il mancato raggiungimento di questi sia un fallimento. Prendiamo ad esempio l’Inter o la Juve: l’obiettivo più ambizioso sarebbe vincere lo Scudetto, mentre l’obiettivo minimo – spesso sottolineato dagli allenatori, anche come strumento di difesa personale - è il raggiungimento di un posto per la qualificazione in Champions League. Salvo particolari scivoloni, quindi, l’obiettivo minimo è abbastanza realizzabile, visti anche i mezzi tecnici a disposizione, e questo si traduce in una stabilità dell’allenatore.
Diametralmente opposto è l’obiettivo minimo di altre squadre come, ad esempio, Empoli, Salernitana, Genoa o Udinese. Non è un mistero che il primo pensiero sia quello di guadagnarsi un posto per il successivo campionato di Serie A: anche solo stazionare nella zona critica per un apprezzabile lasso di tempo può scatenare la reazione della società e portare all'esonero dell'allenatore, l’arma più semplice da sfoderare per cercare di dare una scossa allo status quo. L'azione numero uno del prontuario della contestazione verso la dirigenza, nonostante sia stato confermato più e più volte che la sostituzione in corso abbia effetti pressoché nulli.
La posizione di un allenatore di una squadra di bassa classifica è analoga a quella di un concorrente di Masterchef che deve sottoporsi costantemente a pressure test: ogni errore è potenzialmente fatale e, quando succede, non rimane altro che sperare che un altro abbia fatto peggio. Non scopriamo l’acqua calda: in linea di principio la guida tecnica dei club che puntano a zone alte sono più stabili rispetto ai club che lottano per non retrocedere.
Tendenzialmente, certo, perché anche nei club che puntano in alto ci sono sostituzioni in corsa. Basti pensare, per non andare troppo indietro nel tempo, alla sostituzione di Mourinho con quella di De Rossi, o anche all’avvicendamento tra Garcia, Mazzarri e Calzona sulla panchina del Napoli. La realtà è che questi cambi di panchina sono abbastanza anomali: difficilmente una squadra di media-alta classifica si affida a soluzioni temporanee. Nel caso della Roma, il rapporto con Mourinho si era logorato già da tempo, c’era necessità di un allenatore che restituisse sia un senso tattico che, allo stesso tempo, non spostasse l’opinione pubblica sui confronti con il portoghese. Si tratta pur sempre dell’allenatore che ha conquistato il primo trofeo europeo della storia giallorossa, quanto basta per rimanere nei cuori della quasi totalità dei tifosi romanisti. De Rossi, per quanto inesperto, poteva rappresentare un buon compromesso.
Nel caso del Napoli, invece, il cambio di allenatore è stato dettato dall’inesorabile piega che la stagione dei partenopei stava prendendo: con molta probabilità si tratta della peggiore stagione per una squadra campione d’Italia in carica. Questo doppio cambio - per giunta temporaneo - rappresenta il fallimento della pianificazione della stagione post-scudetto: la volontà di mettere una pezza fino alla fine della stagione non fa che rafforzare la tesi che dopo la fine di questa sventurata annata si faccia tabula rasa.
Sia De Rossi che Mazzarri (e poi Calzona) hanno firmato un contratto che li legherà rispettivamente a Roma e Napoli fino al giugno 2024. Ma mentre per Mazzarri e poi Calzona il destino sembra segnato - salvo risultati eccezionali raggiunti dal CT della Slovacchia - e quindi l’interruzione del rapporto lavorativo con la società partenopea sembra già scritta, per il mister della Roma l’estensione del contratto sembra una pura formalità. Avrebbe avuto poco senso la scelta di legarsi a una bandiera della squadra sapendo di non poter proseguire il rapporto con lui anche al termine della stagione: la scelta di sottoscrivere un contratto breve nasce dalla necessità di studiare la reazione della squadra alle idee del nuovo tecnico, più che da una fiducia a tempo verso De Rossi.
In effetti, salvo situazioni anomale come quelle già citate, si fa fatica a parlare di traghettatori per le squadre della parte sinistra della classifica. Il caso del Napoli ci dà la dimostrazione di questo: per Calzona qualche barlume di speranza per il rinnovo – anche a margine dei primi ottimi risultati ottenuti con il Napoli – sembra esserci, soprattutto perché l’esperimento di Mazzarri come traghettatore non ha avuto alcun risultato. Una società che deve necessariamente pianificare a medio-lungo termine non può in alcun modo lasciare spazio a soluzioni che siano temporanee (e che non diventino definitive): destabilizzare un ambiente non è una strategia che paga, a maggior ragione se la toppa è peggiore del buco.
Le società preferiscono piuttosto chiudere la stagione con l’allenatore scelto all’inizio dell’anno per poi eventualmente dare inizio a un nuovo ciclo con l’avvio di stagione. Ma non è difficile da capire come scelta: in linea generale gli allenatori di un certo calibro - che potrebbero prendere il posto nelle grandi squadre - non sono propensi ad accettare incarichi in corso. Potrebbe essere oltretutto sconveniente, non solo sul piano economico, sottoscrivere un contratto di sei mesi con uno di questi. Non è un caso che ad aver accettato un contratto di sei mesi siano stati un allenatore senza troppe altre occasioni sul tavolo e uno che – per quanto sia stato un iconico calciatore – ha ancora tutto da dimostrare in panchina.
Bisogna fare un’ulteriore precisazione sulla figura del traghettatore: non basta un contratto di sei mesi per definirsi tale. O meglio, non tutti quelli che sottoscrivono un contratto di sei mesi sono traghettatori, ma tutti i traghettatori sono tali perché hanno sottoscritto un contratto di sei mesi. La durata del contratto è condizione necessaria ma non sufficiente, per dirla in termini matematici, per rientrare in questa categoria. Quindi anche De Rossi, Mazzarri e Calzona che hanno sottoscritto un contratto di sei mesi non sono propriamente dei traghettatori per come abbiamo sempre inteso il loro ruolo. Ma, a questo punto, cosa si deve intendere per traghettatore?
Traghettatore non è chi prende la squadra in un determinato momento temporale allo scopo di portarla più in là nel tempo senza creare danni. La funzione del traghettatore è molto più complessa: prendere una squadra in condizioni disperate per farla tornare a navigare in acque tranquille. Il traghettatore non è un conservatore dello status quo: è uno che lo scompiglia. Spesso veste i panni del taumaturgo, dell’asceta che vive confinato in una grotta sperduta ma che, al richiamo di una squadra che naviga in cattive acque, scende nel villaggio per ristabilire l’ordine. Il traghettatore non può che rifarsi alla figura di Caronte nell’immaginario dantesco: invece di trasportare le anime dei defunti verso la dannazione eterna, loro riescono inspiegabilmente a ripercorrere il tragitto al contrario. A rendere reversibile una situazione apparentemente irreversibile.
I traghettatori li riconosci subito: persone solitarie, apparentemente incupite dal peso di doversi guadagnare la pagnotta a suon di salvezze. Se potessero, nei momenti di tensione, si strapperebbero la camicia come Hulk per sprigionare tutte le emozioni accumulate, ma allo stesso tempo, promettono di compiere mirabolanti imprese in caso di salvezza. I chilometri che Davide Nicola ha macinato in sella alla sua bici dopo la salvezza conquistata con il Crotone nella Serie A 2016/17 sono il più recente e chiaro esempio: dietro ai traguardi conquistati c’è sempre un elemento mistico, il sacro che si mischia col profano.
Non è dato esattamente sapere come si siano guadagnati questa fama, non esiste alcun corso per traghettatori: il corso di Coverciano è uguale per tutti, ma sembra che ormai l’essere traghettatore sia diventata una specializzazione. Non c’è niente di razionale nel prendere una squadra e rivoltarla come un calzino nel giro di 4/5 giorni, non è neanche scontato che ci sia un metodo universale: averlo fatto con una squadra non vuol dire necessariamente sapersi ripetere con le altre. Viene da pensare che nel mondo degli allenatori, dove il calcio si intreccia con pensieri filosofici più o meno complessi, questa categoria sappia ancora dare un’impronta emotiva al capitale umano a propria disposizione.
Nessuno dei traghettatori importa un’idea di gioco rivoluzionaria, né avrebbe il tempo di farlo. Quando chiamati in causa, è quasi sempre troppo tardi per potersi abbandonare a dogmi e a sofismi tattici. Ma forse sta proprio qui il loro punto di forza: la consapevolezza di non avere una collocazione fissa – un po’ come dei giostrai – impedisce di piantare radici e di attrezzarsi con gli strumenti a disposizione.
Nelle loro parole ritorna ossessivo sempre questo mantra: lavoro, dedizione, sacrificio. Si portano dietro questi concetti come fossero il carretto degli arrotini, pronto a soddisfare a domicilio l’esigenza della clientela di turno. Ma, evidentemente, non hanno fatto di queste parole solo armi retoriche, perché concretamente riescono a massimizzare ogni sforzo profuso da ogni singolo componente della rosa. Potrebbero tranquillamente prendere posto in un Ted Talks sulla crescita personale e probabilmente otterrebbero lo stesso successo dalla platea.
Sono talmente abituati a questo senso di precarietà che neanche ci sperano più in un impiego a bocce ferme. Probabilmente non sanno neanche più come approcciarsi a un incarico così lungo. Davide Ballardini - per citare il massimo esponente di questa categoria – non conclude una stagione sulla stessa panchina da 20 anni, anche se in questo arco temporale ha costruito la figura del traghettatore a sua immagine e somiglianza. Nonostante questo dato impressionante, ce n’è un altro che lo è ancora di più: Ballardini ha raggiunto quota 278 panchine in Serie A, più di Mourinho, Conte e Zoff. Non serve aggiungere altro per descrivere il livello di epicità che ha raggiunto il ravennate nella storia della Serie A. Ormai è una creatura mitologica: per metà leggenda e per metà meme vivente. In qualunque contesto si affaccia una crisi - dalla politica alle nozze - nel magico mondo del web echeggia ironicamente il nome di Davide Ballardini.
Se non fossero state di recente stravolte le regole, Ballardini non si sarebbe neanche potuto rivedere in Serie A, a prendere le redini dell'ennesima squadra in crisi. A inizio stagione, infatti, il ravennate sedeva ancora sulla panchina della Cremonese - dopo essere stranamente non riuscito nell'impresa di salvare i grigiorossi - contravvenendo al ruolo del traghettatore stesso. Non è quello il suo mestiere: la Cremonese, che ora viaggia spedita in Serie B, si è separata dal tecnico dopo aver conquistato solo 5 punti in 6 giornate di campionato. Se fossero state confermate le vecchie regole, Ballardini non avrebbe potuto più allenare un'altra squadra per la stagione in corso. Ma, invece, con la revisione dell'accordo collettivo della Serie B, i tecnici esonerati entro il 20 dicembre dell'anno solare possono essere nominati alla guida di un'altra squadra. Esonerato da una delle squadre più attrezzate della Serie B per ritrovarsi a salvare una piazza ormai da anni stabilmente in Serie A: strana la vita di un traghettatore...
Si è già detto quanto di poco razionale ci sia nel mestiere del traghettatore - l'ultimo caso-Ballardini lo dimostra - ma guardare con gli occhi della logica non aiuta a comprendere completamente questa figura. Bisognerebbe porsi alcune domande a cui non c'è una risposta. Perché non gli viene mai data chance in una big di Serie A? Perché non rendono bene quando si trovano loro a iniziare un percorso con una squadra? Soprattutto: cosa sussurrano ai giocatori per renderli solo lontani parenti di quelli che nelle settimane precedenti non riuscivano a guadagnare punti salvezza? Ma forse è meglio non spingersi fino a fondo. Meglio lasciarli lavorare nella loro grotta e poi sentirgli dire che il loro lavoro qui è finito. E anche se a noi sembra che non abbiano fatto granché, invece, hanno fatto. Anche tanto, inspiegabilmente.
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