Logo Sportellate
La Zona d'Interesse
, 2 Marzo 2024

La zona d'interesse (The Zone of Interest) - Considerazioni Sparse


Ovvero come parlare del Male senza mai mostrarlo.

Sembra passato un secolo da quando il nostro Alberto Barbera, l'amato direttore della Mostra del cinema di Venezia, dovette ricorrere a tutta la sua paterna umanità per consolare una Scarlett Johansson mai così amareggiata alla prima di un suo film. È stato lo stesso direttore artistico a rievocare la scorsa estate, in un’intervista al Guardian, quella che definì «una delle peggiori proiezioni a cui abbia mai assistito» Il film in questione, presentato al Lido, era Under the Skin, terzo lungometraggio di Jonathan Glazer, regista londinese ai tempi considerato un visionario surrealista ancora troppo acerbo, cresciuto a pane, spot pubblicitari ad alto budget e videoclip dell'epoca d'oro di MTV (memorabili i suoi video di The Universal, Karma Police e Virtual Insanity, tra gli altri). «La platea fischiò e Scarlett era mortificata, quasi in lacrime» continuò Barbera. «Ho cercato di dirle: «Non preoccuparti, vedrai che col tempo il valore del film verrà riconosciuto». Ed è esattamente quello che è successo. Ora Under the Skin è considerato un film di culto». Sembra una vita fa, soprattutto perché dieci anni più tardi, nel maggio del 2023, al pubblico e ai giurati di Cannes è bastato ben poco per metabolizzare, acclamare e premiare (con il Grand prix du Festival) La Zona d’Interesse, il film che segna la definitiva consacrazione di quel regista promettente dall'aspetto bohémien, fino a ieri stimato come talento di nicchia ed oggi finito sulla bocca di tutti. Il suo quarto e ultimo lungometraggio è già diventato il suo più grande successo al botteghino e, a suon di encomi e riconoscimenti, oggi imperversa nelle nostre sale, forte anche delle sue cinque nomination agli Oscar e della posizione di frontrunner assoluto nella categoria per il Miglior Film Internazionale.

Per mesi, da quella trionfale cavalcata a Cannes, su La Zona d'Interesse si è detto e scritto di tutto. Mostri sacri del calibro di Alfonso Cuaron e Steven Spielberg, tra gli altri, si sono sbilanciati con parole al miele e investiture senza precedenti, definendolo rispettivamente "il film più importante di questo secolo" e "il miglior film sull’Olocausto che abbia mai visto, dopo il mio (Schindler's List, ça va sans dire)". Non è facile dunque farsi largo in questo coro di voci altisonanti, men che meno avere la presunzione di aggiungere qualcosa di nuovo o originale al dibattito su uno dei casi cinematografici della stagione. Quel che è certo, per i pochi che ancora non ne fossero al corrente, è che La Zona d'Interesse rappresenta un'esperienza cinematografica fuori dall'ordinario, una pellicola che per la natura delle proprie scelte estetiche e semiotiche è pensata appositamente per mettere alla prova lo spettatore. Dal suo primo istante il film aspira a metterlo a disagio, a stanarlo e a sottrarlo dalla sua comfort zone, stimolandone i sensi attraverso segnali più o meno velati e messaggi subliminali, da cogliere e interpretare mentre sulla scena viene passato in rassegna ben altro. Il pubblico generalista di fronte alla visione de La Zona d'Interesse è così indotto per tutta la sua durata a riflettere e a guardare (o forse sarebbe meglio dire ad ascoltare) oltre, laddove ognuno di noi è solito cercare di distogliere lo sguardo: dentro alle profondità più remote del proprio abisso.

È l'abisso stesso ad aprire la pellicola, con lo schermo che resta a lungo in nero (con il bianco e il rosso, i tre colori del nazismo, che parimenti transiteranno per abbagliare e indicare fine e inizio di secondo e terzo atto), avviluppandoci nella sua vuota oscurità mentre a poco a poco riecheggiano suoni, lamenti e musiche infernali sempre più rumorose. Il sottofondo di pianto e stridore di denti sembra il preludio di ciò a cui stiamo per assistere ma una volta riemersi di colpo in superficie ci troviamo di fronte a tutt'altro film: c'è una tranquilla famigliola di ben cinque figli, in una splendida cornice di sole che irradia un impressionistico paesaggio bucolico, con i più piccoli intenti a banchettare in un picnic e a concedersi qualche bagno sulla riva di un lago. La sensazione di calma assoluta e la quiete che ci restituiscono queste prime istantanee lasciano presto spazio a una subitanea e raggelante rivelazione: il padre di quella che sembrava avere i connotati della più classica delle famiglie borghesi perbene non è altro che il comandante Rudolf Höß, "l'Animale di Auschwitz", il responsabile a capo del campo di concentramento più infamemente noto della Storia. Dal momento in cui vediamo Höß indossare l'uniforme, il film getta la sua maschera e si rivela definitivamente ai nostri occhi: La Zona d'Interesse è uno slice of life, un film-idea che basa la sua essenza su un'osservazione quasi documentaristica (che rasenta i confini e la grammatica del reality) dello spaccato quotidiano degli Höß, famiglia tradizionale che svolge la propria vita felice nella tranquillità delle mura di casa, perfettamente consci e indifferenti al fatto che la loro villetta di campagna sia letteralmente adiacente (separata da un muro di cinta con filo spinato d'ordinanza) al campo degli orrori di cui il capofamiglia è il responsabile operativo. Per zona d'interesse non a caso si intende la definizione che davano i nazisti per denominare la superficie di circa 40km adiacente al perimetro dei campi di concentramento. È questa l'idea geniale di Glazer, quella di spogliare l'Indicibile (che avviene sotto il naso degli apatici personaggi in scena) di ogni forma materiale, lasciando alla nostra mente l'arduo compito di esplicitarlo; la più inconcepibile delle tragedie umane della nostra Storia viene così presa a pretesto per scandagliare i confini di quel Male assoluto che forse non se n'è mai andato del tutto, si è solo rifatto il look. Quel Male che troppo spesso, per vigliaccheria o per semplice spirito di autoconservazione, fingiamo di non riconoscere, voltandogli le spalle. Adattando l'omonimo romanzo del 2015 di Martin Amis e fondendolo con le memorie dello stesso Höß ("Comandante ad Auschwitz", 1956) il regista ribalta la prospettiva più classica e comune ai film sull'Olocausto, spostando l'obiettivo dalle vittime ai carnefici, ponendo il focus su Rudolf (un imperscrutabile Christian Friedel) sua moglie Hedwig (la bravissima Sandra Hüller, quest'anno già apprezzata e candidata all'Oscar per Anatomia di una caduta) e la noiosa ordinarietà della loro esistenza, senza mai mostrarci le amenità che avvengono in contemporanea al di là del muro. Non una goccia di sangue viene inquadrata, non un qualsiasi atto di violenza ci viene palesato, eppure l'orrore, simile a quello che a parole si può solo biascicare come il Colonnello Kurtz, lo percepiamo, è tangibile, è presenza assillante che si manifesta attraverso il suono circostante e che risalta nei dettagli; dal fumo che spesso fa mestamente capolino sullo sfondo delle inquadrature e dai resti e dagli oggetti che provengono dal campo: pellicce, denti umani, rossetti, ossa appartenenti chissà chi, che diventano a seconda della situazione bottino di guerra o fertilizzante per il prato.

Le giornate degli Höß, dietro quella patina di quiete apparente, sembrano scorrere tutte uguali e incolori, costantemente scandite da un ignorato sottofondo di morte. Urla, colpi di mitra o di pistola, latrati e sirene in lontananza costituiscono il panorama sonoro che contamina la scena, che stride con la nonchalance dei personaggi che vivono le loro vite senza badare all'inferno attiguo. Glazer per rappresentare l'Olocausto sceglie di adottare un canovaccio e una scelta stilistica inusuale rispetto ai film del canone, che ricorda più quello tipico degli horror, delle storie di fantasmi che infestano le case degli ignari inquilini, aleggiando e nascondendosi tra le pareti. Qui la prospettiva viene nuovamente ribaltata: i veri mostri hanno le nostre sembianze, gli innocenti sono i fantasmi che non vediamo. È l'uomo nero sotto al letto, la presenza nell'armadio che ci urla in lontananza con un filo di voce il proprio lancinante dolore la vera vittima di questa storia. La costante battaglia dicotomica tra immagine e suono, tra campo e controcampo a cui è sottoposto lo spettatore sembra una sorta di jam session tra due strumentisti jazz che seguono il proprio spartito senza badare l'uno all'altro. Per tutta la sua durata La Zona d'Interesse ci costringe a origliare inermi e impotenti, lasciando lavorare l'immaginazione per rappresentare ciò che avviene off screen, porgendoci solo uno stetoscopio con cui auscultare ogni dettaglio inequivocabile. L'aspetto più straordinario e innovativo del film è dunque indubbiamente il panorama sonoro, merito del lavoro e delle ricerche svolte per ben cinque mesi da Johnnie Burn (sound designer), Tarn Willers (mixer) e dalla musicista Mica Levi, con Burn che darà meritatamente filo da torcere fino all'ultimo giorno al favoritissimo Richard King (Oppenheimer) per la statuetta di Best Sound Design. Glazer ci tratta da pubblico onnisciente, al corrente di cosa sta accadendo mentre mette in scena le vuote vicende familiari degli Hoss senza mai mostrarceli in primo piano, senza mai negarci lo sfondo in cui si muovono e senza che la trama presenti un particolare intreccio o particolari sconvolgimenti (ce n'è uno giusto a metà del secondo atto) che turbino la loro tipica routine. Ci saranno ridenti feste in piscina, parenti in visita di passaggio accolti con orgogliosi tour della casa, situazioni di lavoro affrontate con la calma e il piglio di chi svolge il più comune dei lavori d'azienda. Una vera e propria locura, per citare e parafrasare Boris: una casa (ripresa con ben 10 telecamere interne sparpagliate in ogni angolo) di musichette mentre fuori c'è la morte.

Rudolf ed Hedwig invero conducono le proprie vite freddi e distaccati solo rispetto alle crudeltà che accadono al di là del muro, coinvolti e appassionati solo riguardo alle inezie della loro vita di tutti i giorni. L'Animale di Auschwitz, colui che nemmeno di fronte a morte certa dopo la cattura mostrò il benché minimo rimorso per le sue indicibili malefatte, ci viene mostrato mentre legge ai propri figli con premura le favole della buonanotte, mentre li porta a fare escursioni al lago in canoa, mentre accarezza gli amati cavalli e mentre redarguisce severamente i suoi subordinati, rei di deturpare il decoro dei cespugli che cingono il campo. Mentre la signora Höß trascorre le sue giornate curando il proprio sconfinato giardino, interagendo freddamente con la servitù (gli unici ebrei mostrati senza particolari approfondimenti in scena, salvo qualche altra sporadica comparsa) e beandosi con la propria madre della propria vita da sogno, il film si concentra soprattutto sul Comandante, seguendolo anche nei suoi affari quotidiani. Sono le scartoffie e le attività burocratiche ad occupare la maggior parte del suo tempo e dei suoi pensieri. Le discussioni con i suoi sottoposti e le riunioni con le alte sfere delle SS in cui si illustrano progetti e questioni logistiche relative alla Soluzione Finale raggelano non tanto per la freddezza e la leggerezza con cui vengono trattati determinati argomenti (i metodi più efficaci per smaltire la maggior quantità di corpi nel minor tempo possibile o quanto Zyklon B sia necessario per gasare la folla a una festa) quanto per le analogie e la somiglianza con i meeting e le sedute di lavoro tipiche del nostro presente. Perché se è quasi pleonastico sottolineare l'immediato riferimento ad Hannah Arendt e alla sua banalità del male, l'aspetto che più inquieta de La Zona d'Interesse è la nostra potenziale immedesimazione massima con la famiglia Höß, a causa della sua completa aderenza alla nostra realtà. La vita condotta dagli Höß non è dissimile da quella di una normale famiglia del nostro tempo, così come il lavoro di Rudolf risulta perfettamente sovrapponibile (con le dovute differenze e proporzioni) al prototipo del manager di azienda chiamato a lavorare per ottenere risultati e produttività. I film sull'Olocausto solitamente nascono dalla necessità di riflettere su ciò che è stato fatto per evitare che si ripeta, ma qui Glazer ci mette davanti allo spettro di una realtà datata ma più che mai a noi vicina, pregna di dinamiche paradigmatiche attuali e fuori dal tempo, riproducendo frammenti del nostro presente sotto la lente distorta della Storia, urlandoci in lontananza che il Male non è stato sconfitto con la caduta del nazismo ma anzi è più che mai presente in mezzo a noi. L'Olocausto non è e non può essere derubricato a pagina sbiadita di un libro scolastico, una data sul calendario da tramandare, non rappresenta una cicatrice che con gli anni appare sempre più incolore e distante dalla nostra civiltà. La sua potenza è vivida, riconoscibile, universale e imperitura e costituisce l'incarnazione stessa della sofferenza e della malvagità connaturata all'essere umano, indi per cui le sue dinamiche ci risultano familiari anche dopo ottant'anni e sono destinate a rigenerarsi costantemente in nuove forme, nonostante i nostri sforzi di ignorarle, trincerandoci dentro le pareti della nostra routine, dentro le fredde stanze del nostro subconscio, dietro un muro di omertà e indifferenza che ci aiuta a sminuirle e normalizzarle facendo finta di niente, permettendoci così di andare avanti con le nostre vite. In un mondo sempre più assuefatto ad ogni genere di violenza La Zona d'Interesse ci ricorda che il Male continua a insinuarsi in ogni anfratto delle nostre bolle, che mentre (come gli Höß) conduciamo un'esistenza riparati e al sicuro nelle nostre torri d'avorio, dall'altro lato della barricata l'Indicibile si riaffaccia ogni giorno, nelle notizie che scrolliamo distrattamente degli innocenti che muoiono ogni giorno a Gaza, in quelle morti silenziose che proseguono impunite col beneplacito dei potenti. In questo quadro angosciante e desolante che mette a nudo la nostra colpevole condiscendenza, colpendoci in pieno petto per tutta la durata della pellicola, c'è tuttavia spazio per un saltuario barlume di speranza e umanità, un bagliore nella notte contrapposto agli eroi delle favole che Rudolf Höß recita ai suoi figli. A quelle sporadiche apparizioni di una ragazzina che nasconde delle mele intorno al campo, che possono apparire slegate o inutili e sacrificabili ai fini della trama, è affidato l'intero il cuore del film e il ruolo stesso del Bene costretto a operare di nascosto, con limitati mezzi di fortuna, mettendo in gioco la propria vita. Ce lo spiega così lo stesso Glazer: «Non avevo intenzione di girare La zona d'interesse, volevo fare qualcos'altro. Più andavo avanti nella ricerca, più non credevo fosse possibile realizzare il film: era tutto così cupo e violento, non riuscivo a trovare neanche la possibilità di uno spiraglio di luce. Poi però ho trovato un motivo per continuare. Mentre giravamo ho incontrato un'anziana partigiana polacca. Mi ha raccontato di quando nascondeva frutti nel campo per i prigionieri. Non pensava fosse niente di significativo, solo un semplice atto umano. Le scene che abbiamo ripreso con la camera termica corrispondono alla sua storia. Avevo bisogno che in questa storia ci fosse della bontà in qualche modo, e lei per me è la forza luminosa del film».


  • Non fa altro che usare parole come pasghetti e mopodori, fa continui riferimenti minacciosi e immotivati all'ONU e alla fine non fa altro che ripetere vaffaflanders e altre cose irripetibili. Anche simpaticamente.

  • Genovese e sampdoriano dal 1992, nasce in ritardo per lo scudetto ma in tempo per la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni. Comincia a seguire il calcio nel 1998, puntuale per la retrocessione della propria squadra del cuore. Testardo, continua imperterrito a seguire il calcio e a frequentare Marassi su base settimanale. Oggi è interessato agli intrecci tra sport, cultura e società.

Ti potrebbe interessare

Olimpiadi e olocausto: l'eccidio della nazionale olandese di ginnastica

Per un pugno di yuán: la rapidissima parabola del calciomercato cinese

Dallo stesso autore

Questa sporca ultima meta di O.J.

Civil War (2024) - Considerazioni Sparse

The Warrior - The Iron Claw - Considerazioni Sparse

Newsletter

pencilcrossmenu