Club Dogo e Ibrahimović, essere Milano
Il ritorno del cane a tre teste ricorda quello di Zlatan in rossonero.
Ci sono poche personalità che, nell’ultimo ventennio, hanno regnato su Milano come Zlatan Ibrahimović e i Club Dogo, influenzandone immaginario, cultura pop e sottoculture.
Lo svedese è l’emblema del ragazzo del ghetto, con una situazione economica famigliare a dir poco svantaggiosa, che si è fatto strada fino a toccare con un dito la madonnina. I Dogo sono partiti da molto meno in basso rispetto a Ibra: nel ghetto non ci sono nati ma la vita del ghetto l’hanno saputa cantare come nessun altro.
I Dogo sono stati i re di Milano, hanno fatto dischi d’oro e di platino, sono stati rinnegati e hanno diviso il pubblico. Ma su una cosa hanno messo tutti d’accordo: sono stati una parentesi unica e irripetibile nella storia della musica italiana. Eppure il loro motto è sempre lo stesso: “Il Dogo è per la gente”. Zlatan ha vinto campionati con entrambe le squadre di Milano e segnato un centinaio di gol, ma soprattutto è entrato nel cuore dei tifosi e della città, prima di una sponda, poi dell’altra. È stato per questo un giocatore divisivo, ma su una cosa ha messo tutti d’accordo: di fenomeni come lui, a Milano, se ne sono visti pochi.
Ibra ha vissuto ad Amsterdam, Parigi, Manchester e Los Angeles ma non ha mai dimenticato, né rinnegato le sue origini. “Puoi togliere il ragazzo dal ghetto, ma non il ghetto dal ragazzo” - ha scritto nella sua autobiografia Io Ibra. O, per dirlo alla Guè, “Puoi togliermi dalla piazza, ma sai che non togli la piazza da me”.
Le ascese di Club Dogo e Zlatan Ibrahimović sulla scena dell’entertainment milanese sono state quasi parallele, tanto che sarebbe possibile descrivere ogni tappa della carriera dello svedese con una contemporanea canzone dei Dogo.
Ne abbiamo quindi scelte sette per farlo.
2003 - Qualcosa in Mente (Mi Fist)
"Scuola troppo poca, testa calda e il sangue s’infuoca"
Ibra non è ancora arrivato alla Juve. Nelle prime tappe della sua carriera, dalle giovanili del Malmö all’esplosione con l’Ajax, è il tipico ragazzo del ghetto, un ragazzo dalla testa calda che, a giocate da fenomeno e gol, tanti gol, intervalla anche qualche problema disciplinare.
2006 - Una volta sola (Penna Capitale)
La svolta è figlia di sbattimento
Lui non fa smorfie false, non ha bugie nelle tasche
tiene ben alto il mento
Finché arriverà il momento,
arriverà il suo tempo e con le mani toccherà il firmamento
Alla Juve Ibra impara la cultura del lavoro. È catapultato in una squadra con personalità ingombranti come la sua, con le quali deve imparare a convivere, e dove la disciplina è la cosa più importante (dopo “vincere”, che è “l’unica cosa che conta”). Vince due scudetti in teoria, in pratica neanche uno. La svolta arriverà un anno dopo.
2007 - Incubo Italiano (Vile Denaro)
Per il dinero sono un vero animale
Un incubo sopra al tuo canale
Mi vedi brillare,
senza un lavoro normale, valore morale
L’Ibrahimović dell’Inter è probabilmente il miglior Ibrahimović di sempre. La sua superiorità è imbarazzante, anzi frustrante. Ogni volta che accendono la tele per guardare il calcio, Ibra è l’incubo di tutti i tifosi italiani che non siano interisti.
2010 - Spacco Tutto (Che bello essere noi)
Sono tornato per sfondare le casse
Svuotare le casse, quando passo è un tornado
Dopo una parentesi infelice al Barça, Ibra torna a Milano, ma sull’altra sponda del Naviglio. “Quest’anno vinciamo tutto” dice alla sua presentazione. Non sbaglia di molto. Come scriverebbero su una pagina Instagram che va tanto di moda oggi: ha spaccato.
2012 - Ciao Ciao (Noi siamo il club)
Ciao ciao, aspettami che torno
Ciao ciao, ma non so quando torno
Ciao ciao, domani è un altro giorno
Vado via di qua
Dopo due anni da Re di Milano, i debiti del Diavolo lo costringono a partire per Parigi, partenza, tra l’altro, citata in Minchia boh (probabilmente il punto più basso della carriera dei Club Dogo).
2014 - Saluta i King (Non siamo più quelli di Mi Fist)
In questa merda sono il principe proprio come a Bel Air
Ibra in Francia è un lusso. Con lui il PSG vince (quasi) tutto. Lui è capocannoniere in tre stagioni su quattro e più volte, nelle interviste, si permette di far notare che la Ligue 1 non è al suo livello.
2024 - Soli a Milano (Club Dogo)
Torno e caccio gli infami via come Gesù dal tempio
Ibra torna nel 2019 e questo è il risultato.
Il ritorno: stesse motivazioni, stesso risultato
L’unica tappa che - dal punto di vista della temporalità ma non del tempismo - non è perfettamente parallela per Ibra e i Dogo, è l’ultima, quella del ritorno in grande stile. Anche nella fase precedente delle loro carriere, si possono trovare delle similitudini. Quando Ibra lascia il Milan nel 2012, i Club Dogo non sono più gli stessi, è come se si fossero già sciolti, tanto che l’ultimo album, nonostante faccia disco di platino, è storicamente considerato un album che sarebbe stato meglio non fare (e del quale c’erano i sintomi già in Noi siamo il Club). Insomma era come sei Club Dogo non esistessero già più.
Sia Ibra che i Club Dogo, poi, hanno abdicato lasciando un’immagine che non era certo rappresentativa di che cosa sono stati per Milano: i primi con un album rinnegato da molti zanza, il secondo perdendo un campionato che, al netto degli errori arbitrali di cui tutti ricordiamo, sembrava ampiamente alla portata. Forse è proprio per questo che entrambi hanno deciso di tornare, ognuno nel momento più opportuno: Ibra nel peggior momento della storia recente del Milan, i Dogo in un momento di mediocrità e stallo nella scena rap milanese.
Entrambi hanno deciso di tornare per il loro pubblico, per i loro fan, per i loro tifosi (i Dogo sono forse l’unica entità musicale italiana per cui è proprio parlare di tifosi, tanto che esistono bandiere con il cane a tre teste). Hanno deciso di tornare per amore di quello che fanno. Hanno deciso tornare per risollevare un ambiente depresso e avvolto dalla mediocrità. Ma soprattutto hanno deciso di tornare per salvare sé stessi, per cancellare l’ultima immagine che avevano dato di sé, per dimostrare di essere ancora capaci di fare quello che hanno fatto per una vita, per dare alla loro carriera il lieto fine che meritava. Ibra per dimostrare di essere ancora un vincente. I Dogo, anche se non lo hanno dichiarato apertamente, per dimostrare di non essere quelli di Non siamo più quelli di Mi Fist.
Entrambi ci sono riusciti, senza strafare, ma facendo quello in cui sono sempre stati i migliori. Ibra con i gol, gli assist e soprattutto infondendo la propria personalità nei giovani compagni che poi avrebbero dovuto portare avanti la sfida all’Inter per lo scudetto senza di lui. I Dogo con un rap vecchia scuola, senza inventarsi niente, né scadere nel commerciale, con tante autocitazioni nei testi, nei beat e nelle basi (di cui l’unica forse troppo invadente è quel ritornello di Note Killer piazzato alla fine di King of the Jungle, ma che, se visto da una prospettiva di marketing, sembra più un geniale tentativo di far rivivere uno dei pezzi più iconici del rap italiano sfruttando una delle canzoni più passabili in radio).
Per entrambi è stato epico. Ibra è stato ri-accolto come un dio, più che come un re, dal popolo milanista, che ha poi ripagato riportando prima la Champions e poi la vittoria di un insperato scudetto che mancavano da troppo tempo. Per il suo addio, c’era tutto San Siro in lacrime, dai bambini che ne hanno conosciuto solo l’ultima versione a chi, quando se n’era andato la prima volta, aveva la loro età, e nel frattempo è diventato uomo. I Dogo hanno monopolizzato tutte le classifiche, dopo che l’annuncio del loro ritorno aveva creato un hype quasi insostenibile.
Al pop-up store di San Babila è stato un bagno di folla. A fare ore di fila, per tre giorni consecutivi, c’erano giovani maranza che i Dogo li hanno conosciuti grazie a Spotify, c’erano venticinquenni che hanno iniziato ad ascoltare il rap grazie ai Club Dogo e nel frattempo sono diventati uomini, c’erano anche trentenni, nostalgici della loro adolescenza. Qualcuno ha portato anche i figli. Prima ancora, i biglietti per i dieci Forum si erano volatilizzati nel tempo di una sigaretta. Ora hanno annunciato San Siro che, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo, suona proprio come un addio definitivo, in grande stile, proprio come Zlatan Ibrahimović. Chissà se, quella sera del 28 giugno, qualcuno piangerà.
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