Il mondo dietro di te (2023) - Considerazioni Sparse
"Il mondo dietro di te" è un J'accuse alla mancanza di filtri della società contemporanea o l'ultimo grido d'aiuto?
“I f*cking hate people”: quale miglior modo di aprire l’analisi di “Il mondo dietro di te” (Leave the World Behind), thriller apocalittico prodotto e distribuito da Netflix dall’8 dicembre 2023, adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo edito nel 2020 di Rumaan Alam (tra i produttori esecutivi della pellicola stessa)? Con la prima delle tante dichiarazioni di risicata tolleranza nei confronti del resto dell’umanità si conclude il primo dialogo del film, ma si apre un prodotto di notevole qualità, sia per forma che per contenuto, che merita di essere approfondito oltre al superficiale stereotipo della commercialata di piattaforma. Divisa in 5 parti, con 5 protagonisti principali e pochissimi altri volti - scelta pienamente centrata, in quanto lo stesso impatto distribuito su più personalità e psicologie si sarebbe colpevolmente diluito – le considerazioni su “Il mondo dietro di te” non possono prescindere dalla stessa pentapartizione.
Prima qualche assunto valido per tutte le sezioni del film di Sam Esmail: la colonna sonora – tra Joey Bada$$ nei titoli di testa e Lil Yachty in quelli di coda, passando per Blackstreet e Next – si modula costantemente tra il ritmato e l’ansiolitico, generando apprensione anche quando l’inquadratura non suggerisce ancora l’arrivo del turning point; la fotografia – anche grazie al massiccio uso di droni e telecamere grandangolari – riesce sempre equilibrata e simmetrica rispetto al baricentro dell’immagine, grazie a un movimento alternativamente rotatorio o a stacchi perpendicolari che restituisce la sensazione di non abbandonarsi nemmeno per un istante dal controllo pieno dello sguardo sull’azione, come se fosse un Grande Fratello incapace di perdersi alcun dettaglio della scena.
[SPOILER ALERT]
PART I – The House (La casa) I personaggi interpretati da Ethan Hawke e Julia Roberts (anche produttrice de "Il mondo dietro di te") sono un uomo professore universitario di Comunicazione e Media e una donna responsabile delle relazioni coi clienti di un’agenzia pubblicitaria: marito e moglie che dovrebbero adoperare nel migliore dei modi gli strumenti del dialogo e del confronto verbale, ma che sono i primi a comunicare l’incomunicabilità che la società si è autoimposta come tratto caratteristico. Lei è consapevole che il marito fuma di nascosto, lui vorrebbe stimolare la relazione anche da un punto di vista sessuale ma trova il costante rifiuto di lei.
Due persone che dovrebbero essere permeate delle connessioni tra uomini ma che si augurano solo di allontanarsi, di tagliare i ponti non per rifiutare categoricamente lo status quo ma soltanto per goderselo sulla propria isola. Si odiano le persone ma il primo pensiero arrivati nella casa in affitto è la password del WiFi, impegnati più a mostrare la vita da una fotocamera invece di viverla realmente, demandando la conoscenza e la crescita dei figli a domande retoriche, delle quali non si pretende nemmeno di avere risposte.
L’incontro con il secondo nucleo famigliare, costituito da un padre consulente finanziario della Filarmonica di New York e una figlia ancora indecisa su quale carriera intraprendere al termine degli studi universitari, è di indubbio effetto: entrambe le coppie non sono disposte ad accogliere e accettare la presenza dell’altra, si vorrebbe fidarsi delle persone ma non si adoperano gli strumenti per porre un filtro e comprendere le posizioni altrui. Non si ha tempo di conoscersi e capirsi e si giunge subito a uno scontro non perché non si abbia la possibilità o la capacità intellettuale per farlo ma perché non si ha voglia e intenzione di fare alcuno sforzo. La percezione latente di non essere creduti pone subito un muro contro muro, una barriera, un dubbio preventivo per il quale sarebbe sufficiente fare un passo indietro quando, invece, si persiste nel mettere la punta del proprio piede davanti alle altre;
PART II – The Curve (La Curva) Archie e soprattutto Rose, i figli della coppia Hawke-Roberts, non possono che incarnare tutto lo scetticismo trasmesso dagli adulti. Sin dalle prime scene i due – 16 anni lui, 13 lei – basano la propria interazione coi genitori su un’ansia mai realmente espressa per un mondo ancora ignoto, per il quale le richieste ricevono repliche talmente superficiali da suonare finte, in cui tenersi tutto per sé pretendendo che gli altri intuiscano e interpretino conviene più di insistere per ottenere rimandi soddisfacenti. È un approccio sicuramente facile, meno faticoso, ma che rende tutto il sistema labile e fragile.
Così tutti i personaggi celano parti di proprie esperienze personali - tenendole all’oscuro della conoscenza altrui, che potrebbero così aiutare a risolvere la situazione – non perché gelosi di custodire i propri segreti, ma perché in diritto di credere che qualsiasi interlocutore non abbia la dignità di assorbire le loro parole. Il meccanismo, tuttavia, è reciproco: le domande possono essere poste solo e soltanto a chi si sa che possa risolvere il quesito, nessuno ha voglia di scoprire da sé ma ambisce a trovare in automatico la pappa pronta. Come sintetizzato da Rose – la più piccola ma, nel corso dell’intero “Il mondo dietro di me”, la più interessante da ascoltare proprio perché la meno “cresciuta” e in-formata – “non voglio più aspettare” è il mantra, che ci si riferisca al finale di una serie TV come Friends o al ritorno del marito dalla visita dai vicini;
PART III – The Noise (Il frastuono) Soprassedendo sulla traduzione di qualche termine americano impropriamente reso in italiano – il film resta godibilissimo anche in lingua originale coi sottotitoli, le battute non presentano un vocabolario troppo complesso – è proprio il “silenzio assordante” della notte passata nelle rispettive camere da letto a riempire il vuoto dei contatti, che da complessi si desertificano e scheletrificano in complicati, da intrecci diventano in adesioni superficiali. Più di tutto rende il confronto tra i personaggi più lontani ideologicamente tra tutti, la moglie e la figlia: “Credi sempre di sapere di che parli, no?”.
Ci si limita a voler sapere cosa gli altri pensano solo per confermare ciò che uno pensa di sapere. Anche dopo il rinvenimento dei volantini con le scritte in arabo e il maxitamponamento delle Tesla a guida completamente autonoma sull’ExpressWay che collega Long Island a New York, la mancata emersione di qualsiasi profondità permette di non accorgersi di nulla, di lasciar scorrere anche gli eventi più inspiegabili e traumatizzanti come se nulla fosse. Archie, da questo punto di vista, è l’epitome dell’appiattimento dei valori espressi: non è mai volutamente chiaro quando sia serio nel cinismo col quale si rivolge alla sorellina o quanto sia nelle sue intenzioni scherzare ma non riuscire a esprimerlo;
PART IV – The Flood (L’inondazione) Il primo spiraglio dell’accettazione di un punto di vista differente rispetto ai pregiudizi di partenza si ha quando il temporaneo distacco delle due famiglie rimescola i rapporti: chi prima ha accolto ora si trova dall’altra parte, chi prima ha chiesto aiuto ora restituisce il favore, non senza la rivendicazione di averlo fatto facendolo pesare meno. Anche all’interno di realtà apparentemente parallele, i punti di contatto esistono: i personaggi di Julia Roberts e Mahershala Ali si trovano leggermente ubriachi a ballare nel seminterrato, quelli di Ethan Hawke e Myha’la a fumare una sigaretta elettronica alla marijuana a bordo piscina. Vengono a galla le illusioni e le disillusioni su numeri e persone, gli errori dovuti alle convinzioni pregiudizievoli invece della ricerca attiva della verità.
La battuta di Hawke squarcia il Velo di Maya che ogni essere umano pare aver avvolto attorno alla propria bolla in epoca contemporanea: “Aveva bisogno d’aiuto. E l’ho lasciata lì!”. È un primo passo, che trasforma “Il mondo dietro di te” da un J’accuse a un grido di disperato aiuto lanciato forse appena in tempo. Nella comunità globale prevalgono ancora i complessi di accerchiamento individuali, la sensazione che tutti ce l’abbiano proprio con te, la visione di un marcio anche dove è soltanto immaginario: quando il personaggio di Myha’la confida al padre “Sono sicura che il marito voglia scop*rmi. Non ha detto o fatto nulla, non lo farebbe mai, ma se solo avesse il coraggio…” e di “Non fidarsi di chiunque, specialmente dei bianchi” bisogna riconoscere che sì, sono frasi pronunciate da una giovane statunitense di colore, ma assolutamente non sostenute da alcun dettaglio inserito nello script e nella sceneggiatura.
PART V – The Last One (Arrivi e Partenze) Proprio perché le più lontane a prima vista, le contraddizioni che nemmeno “Il mondo dietro di te” si arroga di risolvere ma quantomeno porre in primo piano per doverne discutere e forzare una reazione – qualsiasi essa sia – nello spettatore non potevano essere rese meglio che in un dialogo tra Julia Roberts e Myha’la.
L’attrice, tra gli altri, di Pretty Woman e Homecoming (serie, disponibile attualmente su Amazon Prime, nella quale è stata diretta per la prima volta da Sam Esmail), constata con amarezza la crudeltà dell’esistenza vissuta sinora: “Il mio lavoro è studiare le persone e capire come mentire loro per fargli comprare cose che non vogliono […] Ci freghiamo tutti a vicenda, continuamente, senza nemmeno accorgercene […] Sappiamo che è tutta una bugia, freghiamo anche noi stessi, pensiamo di farla franca ma è soltanto un’illusione per aiutarci a ignorare quanto siamo orribili”. La consapevolezza è maturata ma non ancora radicata, altrimenti la ragazza non risponderebbe “Non sono quasi mai d’accordo ma ora sì, sono d’accordo”, col costante e non casuale esclusivo utilizzo della prima persona singolare invece della seconda, il “Sono d’accordo” al posto di “Hai ragione”, nell’egoistica e avara ingordigia di avere la prima, l’ultima e l’unica parola in tutto.
Altrettanto non casuale è il finale, dedicato esclusivamente – mai come adesso, chiaramente, SPOILER ALERT – al personaggio di Rose: sarà l’unica che avrà trovato non solo la salvezza ma anche la felicità, riuscendo a vedere l’episodio finale di Friends (“The Last One”, S10E17) e scoprire se Rachel e Ross si rimetteranno insieme o meno nel bunker antiatomico dei vicini, dopo aver rischiato di fare un passo al di fuori della propria sfera di certezze e non essersi limitata al “protect your own” propagandato dal personaggio ultraconservatore recitato da Kevin Bacon.
Se l’unica figura di cui saremo sicuri dello stato d’animo durante i titoli di coda è quello di una bambina felice e realizzata, nel suo infinitesimo piccolo, si spera che il messaggio in bottiglia di Sam Esmail raggiunga presto qualche mano accogliente. O che, almeno, sappia cogliere il simbolismo del quadro posto sulla parete immediatamente alla sinistra delle scale del seminterrato [la base è “La sedia di Gauguin” di van Gogh, simbolo di cultura e ambizione, dipinta per esorcizzare il senso di smarrimento generato dalla partenza di un artista e amico con cui si aveva avuto scontri accesi, vòlto a trovare un punto di contatto almeno virtuale per compensare una distanza fisica, una continuità di fondo nonostante una separazione esteriore; la fascia inferiore della tela è occupata dall’incipit di una poesia di Anne Lamott, autrice statunitense contemporanea: “Hope begins in the dark”, “La Speranza nasce nelle tenebre].
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