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Nicolas De La Cruz si batte la mano sullo stemma del River Plate.
, 14 Novembre 2023
9 minuti

Il tango di Nicolás De La Cruz


Il centrocampista del River Plate sembra ormai pronto al salto in Europa.

Nell’introduzione a “Il fiume senza sponde”, Juan José Saer sostiene che il patrimonio principale degli aeroplani è orrore e volgarità. Il libro che lo scrittore argentino consegna alla posterità è un non libro – oppure un libro-totale – in quanto, come sostenuto da Saer stesso, non incasellabile in una categoria letteraria precisa.

Ha parti di saggistica pura – come, per esempio, quando vengono descritti i primi insediamenti gaucheschi nella pampa – e altre che virano più nell’autobiografico – le pagine in cui l’autore racconta il ritorno in patria potrebbero essere presi da un vero e proprio diario di viaggio – ma si spazia anche verso sezioni più filologiche, quando vengono citati gli innumerevoli scrittori che sul Río de la Plata – sull’Argentina in toto – hanno scritto e teorizzato. Saer pensava che la parte più sviluppata dell’Argentina – Buenos Aires – avesse poco da spartire con il resto del paese e che, anzi, la città più simile alla capitale Argentina fosse sull’altro lato del grande delta, ossia Montevideo.

Questo spiega come mai ci siano così tanti tratti di affinità in molti aspetti della vita delle due città: il modo di parlare, il voseonon cambia sulle due sponde del fiume; il termo con cui continuare ad aggiungere acqua al mate è un accessorio imprescindibile da entrambi i lati del fiume; il tango è religione in entrambe le città e il fatto che entrambe le città abbiano accolto un numero spropositato di immigrati ha fatto sì che questa musica si sia arricchita con il contributo di popolazioni eterogenee.

Ci sono solo due cose su cui argentini e uruguayani non potranno mai trovare un accordo: Gardel e il calcio. Il primo nome, che alla maggior parte delle persone non dirà molto, è stato il più grande cantante di tango di tutti i tempi e la sua nazionalità – o meglio, il luogo di nascita – è disputa ancora oggi di una lunga lotta. Oggi c’è la certezza di dove sia nato Gardel (Tolosa, 1890, per poi trasferirsi a Buenos Aires nella prima infanzia), tanto che il cantante dichiarerà: “Yo nací en Buenos Aires a los dos años y medio” (sono nato a Buenos Aires a due anni e mezzo). Ciononostante, gli uruguagi si sono aggrappati a un certificato di nascita – presentato dallo stesso Gardel per sfuggire al fronte della Prima Guerra Mondiale – che lo voleva nato a Tucuarembó nel 1887, con lo scopo di trattenere a sé qualche nota dell’idolo musicale.

Con il calcio, succede quasi la stessa cosa. Visti dall’esterno uruguagi ed argentini sono praticamente la stessa cosa, tanto che spesso ci si rende conto che – per esempio – un calciatore viene dall’uno o dall’altro paese solo controllando su Wikipedia o Transfermarkt oppure se si è particolarmente attenti ai campionati dei due stati. Però, analizzandosi "dall'interno", gli argentini e gli uruguagi trovano sempre qualcosa per differenziarsi dai vicini e per affermare il loro senso di superiorità sull’altra sponda del Río de la Plata.

Questo sforzo di supremazia dell’area rioplatense ha fomentato la nascita e lo sviluppo di alcune delle squadre più forti del continente. Rimanendo alle quattro grandi, Boca, River, Peñarol e Nacional hanno vinto 18 volte la Copa Libertadores e 10 volte la Coppa Intercontinentale. Per arrivare a questo livello una parte fondamentale l’ha giocata il continuo scambio di giocatori, allenatori, idee e metodi che ha visto protagoniste le due sponde del fiume.

Ovviamente, la migrazione da un lato all’altro del Río de la Plata non ha avuto sempre esiti positivi e per un Francescoli che partendo da Montevideo ha conquistato prima il River e poi il continente sudamericano c’è uno Zarate che spera di chiudere dignitosamente la sua carriera in Uruguay senza più pretese. Di fenomeni – o crack come dicono in quella parte di mondo – e di meteore sono pieni gli almanacchi del calcio rioplatense e il fatto che così tanti giocatori charrúa si siano fatti amare in Argentina (e viceversa) testimonia la fratellanza indissolubile che unisce questi due paesi affacciati sul medesimo fiume, calcisticamente e non. 

Se volessimo spendere due nomi che suffragano questa tesi e che si legano a filo doppio con il protagonista della nostra storia sarebbero senza dubbio Enzo Francescoli e Marcelo Bielsa. Agli antipodi come essere umani, El Principe ed El Loco sono riusciti nell’impresa di imporsi sulla sponda del fiume che non li ha visti nascere ma che li ha adottati come figli calcistici. Francescoli ha un’eredità molto più pesante e costruita grazie a tante stagioni memorabili al River Plate rispetto a Bielsa, arrivato pochi mesi fa sulla panchina della Celeste con il compito di ricostruire una nazionale – e un movimento – apparentemente all’anno zero. Questo però non cambia la tesi iniziale: le due città gemelle del Río de la Plata sono in grado di sublimare la carriera e la vita di un “nemico” nato sull’altra sponda del fiume. 

Ad oggi nel calcio argentino non c’è un giocatore che sia stato in grado di farsi amare da quelli dell'altra sponda come Diego Nicolaś De La Cruz Arcosa da Montevideo. La parabola calcistica e di vita di De La Cruz riassume perfettamente quel sentimento di fratellanza che unisce i rioplatensi. De La Cruz viene da una famiglia numerosa – la madre ha avuto dieci figli da quattro matrimoni diversi, Nicolás è l’ultimo della nidiata – dove il calcio è sempre stato presente, come d’altronde in ogni aspetto della vita uruguaya. La carriera di De La Cruz inizia nel settore giovanile del Defensor Sporting e si sviluppa seguendo le orme di uno dei suoi fratelli, Carlos “El Pato” Sanchez, che ben presto lo consiglia al Liverpool di Montevideo, squadra che ha dato la possibilità al Pato di debuttare nella Serie A uruguaya.

All’epoca, uno dei responsabili/viceallenatori/padri/factotum per i ragazzi del Liverpool era Rubén Paz – passato anche in Italia, nel Genoa 1989/1990 – che decide di raccogliere al volo la segnalazione e non si fa scappare il fratello del Pato. Ancora oggi quando De La Cruz parla del suo allenatore – “Yo era el hijo mimado (ero il cocco dell’allenatore)” –  e viceversa vengono spese parole di gratitudine e rispetto reciproco, quasi come tra padre e figlio. Paz, dice lui, gli ha insegnato una delle skills che un centrocampista completo deve avere: posizionarsi sempre nel modo giusto e cercare lo spazio vuoto, cosa che a De La Cruz riesce come a nessuno.

Per il centrocampista, posizionarsi al meglio costituisce una buona percentuale del gioco con e senza palla. Prendiamo per esempio l’uscita classica di De La Cruz contro una difesa schierata: il lancio verso le punte. De La Cruz, inserito perfettamente nel sistema pensato da Gallardo, usa il lancio non solo per scavalcare la pressione avversaria ma anche per aprirsi lo spazio che andrà ad occupare in prima persona. Quando il centravanti del River era Lucas Beltrán, molto mobile e propenso ad occupare le fasce, De La Cruz lo cercava con un preciso lancio e poi andava subito ad occupare lo spazio lasciato vuoto dal compagno di squadra, con l’idea di sviluppare un attacco basato sul gioco posizionale. Per De La Cruz, però, non è solo importante creare ed immaginare il gioco ma anche finalizzarlo.

De La Cruz può contare su un sistema – quello del River – che valorizza al massimo i suoi fantastici tempi di inserimento. Se deve giocare con un centravanti mobile davanti a sé, l’uruguayo è ottimo nell’occupare l’area sfruttando il lavoro e il movimento del nueve, si butta dentro a duemila allora e spesso arriva a tu per tu con il portiere semplicemente osservando come la difesa ha reagito al lavoro di distrazione delle sue punte. Quando invece la punta lavora più come boa De La Cruz gioca molto sulle sponde e ha un innato talento per capire il punto esatto dove la palla cadrà nell’area avversaria, arrivando a rimorchio come un’ombra. 

Heatmap di de la cruz
La heatmap della stagione 2022/2023 di De La Cruz. (Dati: Sofascore)

Quando De La Cruz sgomitava per farsi spazio nel campionato uruguayo e per seguire le orme del fratello Sanchez era un centrocampista molto più monodimensionale o comunque molto più finalizzatore, improntato quasi sempre a terminare l’azione o ad agire negli ultimi venticinque metri di campo. L’uomo che ha plasmato il calciatore fantastico che possiamo ammirare oggi è – ovviamente – Marcelo GallardoEl Muñeco ha insistito molto per avere l’uruguayo al River dopo che De La Cruz lo aveva rapito nel campionato sudamericano under 20 vinto capitano e capocantiere della Celeste. Quella fu la miccia che fece denotare l’amore fra El Muñeco e De La Cruz e che portò quest’ultimo a firmare il suo contratto con il River il 15 agosto 2017, circa due anni dopo che suo fratello Carlos Sanchez aveva abbandonato El Millonario.

L’inizio di De La Cruz al River è stato complesso, per prima cosa ha dovuto saltare la preparazione per un fastidio al ginocchio che si trascinava dai tempi del campionato sudamericano under 20; in seguito, quando i problemi fisici sono stati messi alle spalle, l’uruguayo ha avuto bisogno di un periodo di ambientamento per non essere schiacciato dalla pressione del Monumental. Lui stesso ha dichiarato, anni dopo, “all’inizio mi sentivo un po’ sopraffatto. Passare da una squadra de barrio (di quartiere) a una delle più grandi del Sudamerica non è stato per nulla facile, sono cambiate le richieste e le aspettative e mi ci è voluto un po’ per abituarmi”.

Nel suo percorso di maturazione De La Cruz ha sempre potuto contare sull’appoggio di Gallardo che – per inciso è un altro di quelli che si sono fatti amare dall’altra sponda del Río De la Plata, avendo concluso la carriera da giocatore e iniziato quella da allenatore nel Nacional di Montevideo – ha sempre difeso a spada tratta il centrocampista, parlando anche molto duramente coi giornalisti che all’inizio sollevarono dubbi sul suo acquisto e in seguito sul suo impiego. 

De La Cruz parla con Gallardo

Ora, verrebbe da chiedersi perché Gallardo abbia così ardentemente voluto e difeso De La Cruz. La risposta sta nel progetto di giocatore che El Muñeco aveva in mente per De La Cruz, l’allenatore argentino pensava di trasformare quella mezz’ala offensiva nel più completo centrocampista che qualunque tecnico potesse immaginare. Nel fare ciò Gallardo ha dovuto lavorare su due aspetti basici del gioco di De La Cruz, ovvero sia il posizionamento in fase di costruzione e la fase difensiva

Come già detto, De La Cruz non è carente per quanto riguarda la capacità di passare il pallone e di leggere il gioco ma a Gallardo serviva un centrocampista che potesse fare questo lavoro anche più lontano dalla porta, per sfuggire alla pressione avversaria e per avere un tempo di gioco in più per ragionare e giocare. Per questo El Muñeco ha preteso da De La Cruz che imparasse a giocare anche più vicino alla sua linea difensiva, per dare al centrocampista lo spazio e il tempo per immaginare la prima costruzione di gioco.

Per fare ciò, De La Cruz si abbassa molto, schiacciandosi sulla linea dei difensori propendendo per ricevere sul lato sinistro del campo, da qui l’uruguayo ha tutto il tempo – difficilmente il pressing è così alto – per osservare cosa succede davanti a sé. Di solito De La Cruz vede un continuo movimento di compagni e – essendo fortissimo di destro e di sinistro – gli viene chiesto di servili e poi seguire per occupare lo spazio. Gallardo, però, ha preteso da De La Cruz che sapesse giocare anche più avanti, fra le linee avversarie, per sfruttare la capacità innata del centrocampista di dare l’ultimo passaggio ai compagni o per farlo calciare direttamente in porta, grazie al suo ambidestrismo naturale. 

Tipico gol di De La Cruz arrivato grazie a un inserimento tra le linee avversarie.

Ciò che Gallardo propone offensivamente è il riflesso delle sue convinzioni in fase difensiva, ovvero sia una squadra che deve sempre pressare alto, muoversi come un unico corpo e recuperare il pallone quanto più vicino alla porta avversaria. Per questi compiti De La Cruz, neanche a dirlo è perfetto. El Muñeco ha preteso dal centrocampista un movimento costante e perpetuo volto a portare la prima pressione sull’uscita avversaria. Nel sistema River De La Cruz affianca ed integra Enzo Pérez. Se il secondo ha compiti di equilibrio e ordine, rimanendo più bloccato in fase di pressione, il primo ha l’obbligo di pressare l’uscita del pallone, spesso cercando anche l’anticipo sulle mezzali avversarie. I due sono perfetti, uno è l’ordine e l’altro è il caos e insieme costituiscono un centrocampo che non ha quasi lacune.

Da qualche mese De La Cruz ha dovuto dire addio al suo padre calcistico, Gallardo, ma non è rimasto a lungo “orfano”, dato che a maggio Marcelo Bielsa ha assunto il ruolo di nuovo CT dell’Uruguay. Un allenatore così esigente e così concentrato sul miglioramento dei suoi giocatori non può che aumentare ancora il bagaglio già sconfinato di cose che il centrocampista sa fare e chissà che El Loco non lo spinga a provare il salto in Europa, per il quale Nicolás sembra finalmente pronto. O magari, invece, De La Cruz rimarrà ancora per molto a Buenos Aires dove sanno amare così bene gli stranieri, seguendo i passi di Francescoli e Gardel, che in fondo, un po’ uruguayo lo era.


  • Classe 99, come Darwin Nuñez. Tifoso della Fiorentina, dell’Athletic Club ed ossessionato dalla Doce. Apprezza il mate, un buon regista davanti alla difesa e tutto ciò che venga dal Rio de la Plata

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