Jannik Sinner è stato di parola
Al China Open Sinner ha confermato ciò che ci aspettavamo.
Jannik Sinner alza le braccia al cielo, il suo volto si apre in un sorriso. Non fa nient’altro: non si rotola a terra, non lascia cadere la racchetta, neppure sfoga la tensione con un grido liberatorio. Si avvicina alla rete, stringe la mano a Medvedev, ringrazia il giudice di sedia in modo impercettibilmente più caloroso del solito.
Nulla di sorprendente: abbiamo imparato che per lui il godimento della vittoria è un fatto più che personale, intimo. Un vino pregiato da far decantare a lungo dentro di sé, prima di offrirne qualche goccia agli astanti nei ringraziamenti di rito, in conferenza stampa, negli intermezzi ingessati della premiazione. In un certo senso l’esultanza anticlimatica di Sinner è proprio quello che ci serve al termine di una settimana di giubilo accecante, in cui tutto sembra così bello da non essere vero, troppo bello per non avvertire la sottile angoscia del cherofobico: quanto potrà durare?
Sinner ha appena vinto l’ATP 500 di Pechino, il suo nono titolo in carriera su dodici finali. In senso stretto non è affatto il suo miglior risultato. Ha già in bacheca il 1000 di Toronto, senza contare che anche solo una finale a quel livello, o una semifinale Slam, valgono di più in termini di punti. Eppure, solo un distratto simpatizzante potrebbe ignorare la portata di questa vittoria su Medvedev (7-6, 7-6), ottenuta in due ore di gioco con un match di livello sensazionale, il migliore in assoluto – per lucidità tattica, pulizia tecnica, continuità di rendimento, valore dell’avversario – dei 247 giocati da Sinner nel circuito.
L’altoatesino ha chiuso la partita con una risposta fotonica, di quelle da fotocellula umana à-la-Agassi che l’occhio di un comune mortale fa fatica a cogliere anche alla moviola: un colpo che è ormai un marchio di fabbrica, apposto come una firma sul match quasi a ricordarcene la paternità. A rassicurarci, casomai nutrissimo qualche dubbio, che il tennista contrapposto al russo era proprio lui, Jannik Sinner: ma un Sinner inedito, nella migliore versione di se stesso.
Medvedev è stato a lungo un fastidioso rompicapo. Quest’anno prima di Pechino Sinner aveva disputato quattro finali, vincendo le uniche due in cui non si era ritrovato di fronte il russo. In questo esaltante 2023, con un Djokovic costretto dall’età a limitare al massimo le proprie apparizioni extra-Slam e un Alcaraz per Sinner tutt’altro che ingiocabile, Medvedev ha incarnato a lungo l’unico vero ostacolo tra Jannik e il successo.
Le finali perse contro Daniil a Rotterdam e a Miami avevano riproposto il canovaccio dei precedenti incontri tra i due (6-0 per il russo). Sinner che martella alla ricerca disperata del vincente, Medvedev che dai teloni assorbe l’onda d’urto rintuzzando ogni tentativo. Scambi che si allungano, Medvedev in modalità playstation, Sinner fuori giri. Jannik sempre più frustrato e più stanco, Daniil sempre più tranquillo: l’energia nervosa che abbandona il primo e fluisce nel secondo per il principio dei vasi comunicanti, ed ecco puntuale l’esito di sempre. Insomma, era evidente che Medvedev fosse per Sinner il peggior avversario possibile.
In qualità di sublime difensore e abile contrattaccante, Medvedev era diventato lo specchio impietoso dei difetti dell’altoatesino: un servizio poco competitivo rispetto agli altri top 10, una certa fissità funzionale nelle scelte tattiche (se non funziona il bombardamento da fondo, devo farmi venire in mente altre opzioni), una mano poco educata nei pressi della rete. Il mismatch era tale che a un certo punto è sembrato naturale misurare i progressi dell’italiano sugli incontri con Daniil: se questa volta ci sarà più partita, vorrà dire che in qualcosa è migliorato.
Proprio gli scontri diretti tra Sinner e Alcaraz dimostrano che nel tennis la proprietà transitiva non è legge da scolpire nella pietra (se lo batto, non significa che sono un giocatore migliore di lui), eppure la prima vittoria contro Medvedev rappresenta uno snodo cruciale nella carriera del Next Gen italiano: un catartico anello di fuoco, superato il quale comincia un’ultima fase di crescita, quella che potrebbe vederlo vincitore Slam e magari numero 1 ATP.
La rilevanza del trionfo su Medvedev fa passare in secondo piano persino il traguardo storico raggiunto da Sinner con il successo in semifinale su Alcaraz — da lunedì sarà n. 4 del mondo come Adriano Panatta nel 1976, la classifica migliore per un tennista italiano in era Open. Una posizione che adesso sembra, più che un punto d’arrivo, un ultimo trampolino di lancio per l’assalto al Gotha del tennis mondiale.
Per apprezzare al meglio il significato della finale pechinese e capire com’è arrivata dobbiamo fare qualche passo indietro nel tempo e spostarci sul versante atlantico dell’Africa. Sembra decontestualizzato, ma non lo è. Per la precisione ci troviamo nel 1913 a Tenerife, nelle Canarie. Lo psicologo tedesco Wolfgang Köhler conduce esperimenti sull’apprendimento dei primati: pone del cibo vicino agli scimpanzé, ma lo rende loro inaccessibile: le scimmie devono quindi trovare una soluzione per raggiungerlo. Se il primate si trova in una gabbia e il cibo è troppo in alto per afferrarlo con un semplice salto, all'inizio lo scimpanzé tenta e ritenta senza risultati. Poi però si ferma a riflettere, e all’improvviso sa cosa fare: impila delle cassette di legno l’una sull’altra e ci si arrampica per sfamarsi.
Il termine tecnico per ciò che accade a un certo punto nel cervello della scimmia è insight. Anche gli esseri umani apprendono per insight, ovvero per intuizione: la seconda rivoluzione industriale ci ha fornito un’altra metafora per indicare questo tipo di apprendimento: "Mi si è accesa la lampadina". Gli astri si allineano. Di colpo, tutte le tessere del puzzle vanno magicamente al loro posto.
L’illuminazione improvvisa si basa su due operazioni essenziali: ristruttura i concetti (le cassette che diventano gradini) e assembla gli elementi a disposizione in una visione globale. Trasliamo il tutto in termini tennistici: Sinner ha battuto Medvedev non solo perché ha perfezionato all’estremo i singoli aspetti del suo gioco, ma perché, per la prima volta in carriera, li ha combinati per produrre qualcosa di nuovo, aumentandone l’efficacia in modo esponenziale. Condizione atletica, schema tattico, capacità tecniche sono strettamente correlati: la ricetta per battere Medvedev Sinner la conosce da tempo, ma solo oggi ha avuto a disposizione tutti gli ingredienti.
Il piano di gioco preparato a tavolino dal team di Jannik sarebbe risultato vincente solo sulla carta se Sinner non si fosse sentito abbastanza sicuro da metterlo in atto dal punto di vista tecnico: insomma, senza il 68% di prime in campo, una solidità straordinaria di dritto e di rovescio e una disinvoltura davvero sorprendente nei colpi di volo. «Grazie per avermi reso un giocatore migliore», ha detto a Medvedev con la coppa in grembo.
Che Sinner sapesse cosa fare e sapesse come farlo lo si è capito subito, quando nel primo gioco ha aperto con due prime vincenti e un serve&volley. Il quinto game del parziale è stato ancora più emblematico, col senno di poi decisivo. Sinner sciupa un punto già fatto, sbagliando malamente un dritto in campo aperto, poi tenta di nuovo il serve&volley ma la volée si stampa sul nastro. Sotto 0-30, Jannik resetta immediatamente gli errori (una capacità che ha sempre avuto) e gioca altri due servizio e volée.
Chi lo segue da quando vinceva il Challenger di Ortisei, e faceva ospitate da Fazio, per anni l’ha visto penare alla battuta, è roba da stropicciarsi gli occhi. Jannik esegue perfettamente, sale 30-30 e sembra tastare il polso a Medvedev: fino a quando continuerai a rispondere dai teloni? (spoiler: fino alla metà del secondo set circa, quando il russo tenterà senza successo di fare un passo dentro al campo).
Ma tre serve&volley consecutivi nello stesso game al nuovo Sinner non bastano: sotto per due volte nel punteggio, Jannik annulla due palle break e chiude il game con uno scambio dai molti volti, aperto dall’ennesimo servizio e volée, tenuto vivo da un elastico recupero in smash e chiuso da un dritto inside-in letale. Di lì in poi Sinner non concederà più una singola chance di break. Nel secondo set perderà solo tre punti al servizio (20/21 con la prima, monumentale 8/10 con la seconda).
Inutile dire che sarebbe un errore sopravvalutare questi numeri sganciandoli dalle necessità tattiche imposte dal match contro Medvedev. Medvedev che risponde due metri dietro la scritta "Běijīng 北京", fuori dall'Olympic Green Tennis Centre del China Open, direttamente dal fuso orario di Kyoto. Medvedev scacchista implacabile vicino a ultimare la sua metamorfosi in Intelligenza Artificiale.
Medvedev che nel primo set serve 31 prime consecutive – il telecronista di SuperTennis a un certo punto ha smesso di tenere il conto, come se il russo avesse in qualche modo piegato la fisionomia del gioco al suo volere e fosse normale giocare senza seconda. Medvedev che sembra essere contemporaneamente sia l’individuo più inadatto sia quello più abile al mondo nel colpire palline con una racchetta. Medvedev che su questa superficie è pur sempre il tennista con più vittorie dal 2018 a oggi. Senza contare che già Djokovic aveva indicato la via per battere il russo con continue discese a rete, capitalizzando sulle sue idiosincrasie.
Ma nel match vinto da Sinner si rintracciano novità che valgono a prescindere da pregi e difetti dell’avversario. Innanzitutto, la maturità con cui ha gestito le giunture più delicate del match, per esempio giocando due tiebreak ai limiti della perfezione. Che il vento stesse cambiando ce l’aveva suggerito il tie del primo set contro Alcaraz, conquistato da Sinner con simile accortezza: attivando un limitatore di velocità per centellinare i gratuiti, e raggiungendo un equilibrio inedito tra incisività dei colpi e margine d’errore. In precedenza Jannik aveva perso con Alcaraz 5 tiebreak su 7. Era come se in quello spazio compresso, il tennis creativo e ad alto tasso di soluzioni dello spagnolo fosse più funzionale dell’approccio diesel di Sinner, un tennista che dice di aver preferito il tennis allo sci perché il primo gli avrebbe permesso di imparare dai suoi errori, offrendogli sempre il colpo successivo per rimediare.
In generale, il rapporto di Jannik con i tiebreak non è mai stato idilliaco: quest’anno prima di Pechino era a 8 vinti e 8 persi. Ebbene, al China Open Sinner ha vinto, in fila, tre tie-break su tre, in semifinale e finale, contro il n. 2 e il n. 3 del mondo. Tre indizi che, forse, fanno una prova: anche quando c'è da lottare spalla a spalla e ogni 15 vale un punto, il tennis del Sinner 2.0 si regge sull’accorto dosaggio degli elementi. Sa quando verticalizzare a rete, quando servire una seconda al corpo, quando cercare il vincente e quando il colpo interlocutorio, quando fare serve&volley e quando rispondere nelle stringhe, pietrificando il malcapitato di turno come Medusa.
La ristrutturazione globale dell’insight ha reso Sinner non solo un giocatore migliore, ma anche diverso. Così è riuscito a piegare Medvedev anche negli scambi superiori ai 9 colpi e a confezionare 29 vincenti, una cifra mostruosa al cospetto dei recuperi tentacolari del moscovita, soprattutto su un cemento relativamente lento. All’inizio del 2023, Sinner contro i top 5 aveva uno score di 1-15. In questa stagione è 5-4.
Piccola parentesi estetica. I match del China Open ci hanno ricordato la strana dissonanza prodotta nello spettatore dalla violenza silenziosa del tennis di Sinner. Se affrontare Alcaraz dev’essere terrificante come trovarsi in un ring al cospetto di un peso massimo, una partita contro Jannik è forse come andare dal dentista: ti trovi su un lettino igienizzato, il professionista che hai di fronte continua a introdurre nella tua bocca inquietanti ferri con fare educato e tu non senti niente, ma nel frattempo ti hanno estratto un molare dalla radice e le tue gengive sono un lago di sangue. Non è un caso che questo tennis sottovuoto, basato sull’ossessiva levigatura del gesto, si esprima al meglio sul cemento indoor, un ambiente asettico come una sala operatoria.
Come si vede, c’è di che sperare per il futuro, anche immediato, (a partire dalle Finals di Torino) e per la prima volta si può affermare senza patemi che Sinner ha mantenuto le promesse di una carriera che, da sempre, si preannuncia scintillante. Ha imboccato il rettilineo finale del suo percorso di maturazione ma non ha ancora finito. Tra i tennisti in top 10 sembra quello con più margini, dal servizio ancora in evoluzione (in carriera serve il 59% di prime, un dato migliorabile e cruciale), ai colpi a rete, a un rovescio in slice ancora poco fluido. Certo, se volessimo potremmo smorzare un po’ gli entusiasmi — magari come mero riflesso scaramantico. Il difficile viene ora. L’asticella si è alzata e non ci si accontenterà più di qualche 1000 e di saltuarie vittorie contro i primi 5 del mondo.
Per il presidente FITP, Binaghi, Sinner è già il tennista italiano più forte della storia. Un’investitura che è almeno in parte anche un’autoconsacrazione e che rischia di servire da involontario volano alle critiche dei sicofanti di professione che alle prime inevitabili sconfitte di Sinner rispunteranno come funghi. È nota la polemica scatenata dalla recente rinuncia di Jannik alla Coppa Davis – montata ad arte da uno dei principali organi dell’informazione sportiva del Paese. Per qualche motivo, Sinner è un tennista, suo malgrado, divisivo, da sempre bersaglio di una fetta nutrita di odiatori seriali. Non è facile capire perché. Forse gli si rimproverano l’italiano un po’ impacciato. La residenza a Monte Carlo, il nome e il cognome tedeschi, la complessione nordica e i capelli rossi – l’Italia è pur sempre dove un generale discetta ex cathedra di «tratti somatici dell’italianità».
Di certo la fenomenologia dell’odio riservato agli sportivi è questione complessa e i bollori revanscisti non rappresentano l’unica spiegazione. Forse in certi appassionati c’è anche il desiderio un po’ perverso di sporcare qualcosa di bello. Criticare un giovane che è impeccabile professionista dentro e fuori dal campo, magari troppo impeccabile per resistere alla tentazione di rinfacciargli «quel fisico magrolino che non gli consentirà mai di vincere Slam», o «quel gioco da sparapalle che annoia a morte».
Sinner, nonostante tutto, ha continuato e, probabilmente, continuerà dritto per la sua strada. Molti, anche tra gli addetti ai lavori, lo avevano criticato per il divorzio da Piatti dopo gli Australian Open del 2022. Oggi, anche grazie a Vagnozzi e Darren Cahill, Sinner è numero 4 del mondo, vincitore di un 1000, semifinalista Slam.
Forse aveva ragione lui. Come aveva avuto ragione nell’estate del 2021, con la scelta rinunciare all'Olimpiade di Tokyo per prepararsi al meglio alla seconda parte di stagione. Un titolo 500, la top 10 in classifica e il debutto dalle Finals da alternate. Forse proprio l’Olimpiade mancata è stata la grande colpa agli occhi di quella stampa che pochi giorni fa, con lessico da regime di guerra, gli ha rimproverato di aver «disertato» la Nazionale con la enne maiuscola. Lo ha intimato di «chiedere scusa al Paese», magari cospargendosi il capo di cenere per fare ammenda in quanto traditore della patria.
Alle critiche più o meno autorevoli, però, Sinner ha sempre risposto coi fatti. I fatti sono ciò che contano nella sua visione pragmatica dello sport e della vita. Tutto si può affrontare con il lavoro e c’è sempre uno spigolo da limare. Fatti. Anche dopo esser stato di parola. Spostando un po’ più in là il prossimo impegno da mantenere.
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