Il campo di Nuuk con gli iceberg sullo sfondo
, 22 Settembre 2023
10 minuti

In Groenlandia si gioca a calcio


La passione dei groenlandesi per il calcio è più grande di quanto immaginiamo.

«La storia della Groenlandia è una storia di vita in condizioni estreme» Così comincia la pagina Wikipedia sulla storia dell’isola più grande al mondo, una brevissima descrizione che concentra perfettamente il senso di assurda tenacia, di appassionata testardaggine, che fa del calcio lo sport preferito dei groenlandesi. Per comprendere a pieno la storia della Groenlandia, però, non basta sapere che è un territorio estremo, gelido e sassoso in cui per mesi non si vede che il buio e per altri mesi non ci si libera nemmeno per un attimo dalla luce del sole. Se vogliamo capire come mai, per esempio, la Groenlandia continui a essere abitata da migliaia di anni nonostante le condizioni climatiche, come mai è stata più volte raggiunta e colonizzata dagli europei e, soprattutto, come mai il calcio è arrivato a queste latitudini diventando un aspetto centrale delle vite dei groenlandesi, è necessario esplorare – per quanto limitandoci alla superficie – la storia e la preistoria di questa terra desolata.

I primi insediamenti umani in Groenlandia risalgono a circa 4000 anni fa, quando, a causa di un periodo di temperature più alte e di parziale disgelo dell’Artico, gruppi di Inuit originali dell’attuale Alaska migrarono verso est colonizzando la costa occidentale dell’isola. I pochi ritrovamenti archeologici fanno pensare che, nonostante il periodo “favorevole”, il clima polare metteva a serio rischio la sopravvivenza in Groenlandia, all’epoca probabilmente l’avamposto umano più settentrionale sulla faccia del pianeta. Di conseguenza, anche alla luce dei reperti ritrovati, è facile pensare che numerose altre civiltà vi siano arrivate, siano sorte ed estinte nell’arco di millenni, ma l'archeologia non ha ancora rivelato risposte precise in merito.

Rovine di un antico villaggio vichingo in Groenlandia.
Rovine di un antico villaggio vichingo.

Circa tremila anni dopo i primi insediamenti, comunque, i primi europei giunsero sull’isola. Un gruppo di Norreni – aka Vichinghi – guidati dal famigerato Erik il Rosso (che, secondo i racconti tramandati nell’omonima saga, era stato bandito dalla Norvegia a causa di un omicidio premeditato ed eseguito con l’aiuto di suo padre e che, rifugiatosi in Islanda, venne esiliato per un periodo di tre anni in seguito a un secondo omicidio, questa volta avvenuto durante una rissa) giunse nel 980 d.C. sulle coste meridionali e battezzò questa terra Grœnland, letteralmente “Terra Verde”, un nome poco consono per un’isola che, oggi come durante il periodo caldo medievale, è in grandissima parte coperta dai ghiacci, ma funzionale a convincere nuovi coloni: «Egli [Erik il Rosso] chiamò la terra Groenlandia» narra la Saga che prende il suo nome «dicendo che la gente sarebbe stata più disposta ad insediarsi lì se avesse avuto un buon nome». L’escamotage ideato da Erik, a quanto sembra, funzionò. Furono fondate tre colonie agricole – battezzate, con grande fantasia, Insediamento Occidentale, Insediamento Orientale e Insediamento Centrale – che ospitarono un numero variabile tra quattro e diecimila abitanti distribuiti in oltre seicento fattorie. Si trattava di una colonia di notevoli dimensioni (basti pensare che ancora oggi la Groenlandia ha ancora poco più di 55’000 abitanti), che sopravvisse per oltre quattrocento anni grazie all'agricoltura, alla pastorizia, alla caccia e ai commerci (i Vichinghi esportavano avorio di narvalo e tricheco, pellami, grasso di foca e pesce essiccato).

Intorno al XIII secolo cominciò il declino delle colonie norrene e, verso la fine del Quattrocento, l’isola tornò a essere abitata esclusivamente dagli Inuit. L’isolamento durò per almeno duecento anni, durante i quali gli unici europei a spingersi a quelle latitudini furono alcuni intrepidi cacciatori di balene. Poi, nel 1721, Re Federico IV di Danimarca e Norvegia decise di inviare una spedizione per scoprire se esistesse ancora una civiltà, magari cristiana, sull’isola, che anticamente era stata addirittura sede vescovile. L’esito fu negativo, ma nel 1728 venne comunque creato un avamposto commerciale chiamato Godthåb – “Buona Speranza” – ovvero l’odierna capitale, che dal 1979 ha preso il nome groenlandese di Nuuk.

È proprio a Nuuk, capitale amministrativa e principale centro urbano dell’isola, che, ogni anno dal 1958, si svolge la fase finale del campionato Groenlandese di calcio, quest'anno giocato tra il 10 e il 15 agosto. Sei squadre (B67 Nuuk, Eqaluk-54, G-44 Qeqertarsuaq, Inuit Timersoqatigiiffiat-79, Kissaviarsuk-33 e Nagtoralik-45) si sono sfidate per la vittoria del titolo di campioni di Groenlandia, vinto per la quattordicesima volta dai padroni di casa del B67. Per quanto possa sembrare assurda l'esistenza di un campionato, per di più a sole sei squadre e giocato nell'arco di cinque giorni, stupisce ancor di più scoprire che il calcio è di gran lunga lo sport preferito dai groenlandesi. E quando dico "di gran lunga" intendo che il 10% della popolazione totale è iscritta a una squadra di calcio: in Italia lo è meno del 2%.

Nel documentario “Playing on the edge”, prodotto da The Guardian in collaborazione con Copa90, l’allenatore della naziona Nukannguaq Zebb parla chiaramente dell’importanza sociale del calcio: «È d’aiuto per passare il tempo con gli amici, per trovare motivazioni nel buio dei mesi invernali e soprattutto per evitare l’alcool, una piaga che sta devastando la Groenlandia». Inoltre, il calcio sull’isola è un gioco trasversale, a cui partecipano uomini e donne. Esiste un torneo femminile, ma per esempio nel futsal ragazzi e ragazze giocano spesso in squadre miste, racconta Hilda Zeeb, madre di Nukannguaq. Oltre al calcio giocato, poi, c’è il calcio seguito, quello danese ma anche Serie A, Premier, Bundes e Liga. Molti groenlandesi sono tifosi affezionati di squadre dell'Europa occidentale e il loro amore è nato nei modi più disparati. Sempre "Playing on the edge", l'autore intervista un uomo anziano, di cui non viene svelato il nome, che in compagnia del figlio guarda una partita del Manchester United in televisione, entrambi con indosso la maglietta ufficiale 2013-2014, e racconta di come ha scoperto i Red Devils: «Ho cominciato a tifare United il 6 febbraio 1958, quando alla radio ho sentito la notizia dell'incidente aereo. Non avevo idea di cosa fosse il Manchester United né, tantomeno, di chi fossero i giocatori coinvolti. Sentire di quelli quei giovani morti così tragicamente, però, mi provocò un grande dolore».

Mappa delle società calcistiche della Groenlandia.
Cartina delle società calcistiche groenlandesi (Foto: Riccardo D'Agnese)

Non gli sport invernali quindi, non sport praticati in un palazzetto riscaldato, ma il calcio, portato sulle coste ghiacciate dell’estremo nord da marinai, commercianti, esploratori e cacciatori danesi (e non solo) nella prima metà del Novecento, riuscì a fare breccia nel cuore di migliaia di Inuit groenlandesi. Qualcuno, a ragion veduta, potrebbe chiedersi il perché del successo del calcio rispetto ad altre attività che potremmo immaginare come più consone alla situazione geo-climatica del luogo. La risposta è più semplice di quello che si possa pensare: la Groenlandia è, ed è sempre stato, un paese estremamente povero, con scarsissime risorse ed enormi difficoltà nell’importare beni dall’estero. Per gli sport invernali sono necessarie attrezzature spesso complesse e comunque relativamente costose; per gli sport da giocare al chiuso, nelle palestre o nei palazzetti, servono appunto palestre o palazzetti. Gli elementi necessari per giocare a calcio sono straordinariamente semplici e reperibili ovunque: bastano due persone – ma in caso di necessità si può pure giocare da soli, chi di noi non l’ha mai fatto? – una palla da calciare e due oggetti qualsiasi per delimitare una porta. È un gioco che si può improvvisare in ogni situazione, che si può giocare al primo disgelo delle nevi, che tutti possono imparare senza grosse difficoltà.

Questo però non significa che giocare a calcio in Groenlandia, sia come passatempo tra amici, sia a livello agonistico, sia semplice. «A volte dobbiamo aspettare 14 giorni dopo Pasqua per uscire a giocare» spiega invece Tekle Ghebrelul, allenatore del B67, nato in Eritrea durante la guerra e trapiantato prima in Danimarca e poi a Nuuk, la cui storia meriterebbe un intero numero della newsletter. «Nel nord della Groenlandia, invece, non escono mai fino alla fine di maggio perché c'è così tanta neve e fa così freddo. La stagione poi continua soltanto fino alla fine di agosto, poi fa già troppo freddo per giocare fuori e il campo diventa troppo duro e pericoloso, essendo fatto di roccia e sabbia».

Sulla costa sud, invece, le condizioni sono meno estreme e giocare sull'erba sarebbe possibile, ma ma non esistono insediamenti significativi in cui organizzare un torneo: «laggiù ci vive giusto una manciata di agricoltori laggiù» (ciononostante, a conferma della passione, ci sono dieci diverse squadre di calcio nella regione, ndr). Come detto poco sopra, le condizioni dei terreni di gioco sono uno dei primi problemi, ancor più della temperatura o della prolungata assenza di luce, che evidenziano giocatori e allenatori groenlandesi. Nelle città principali, tutte situate sulla costa occidentale come la capitale Nuuk, tranne che per un mesetto l’anno i campi sono così duri e gelati che è essenziale vestire guanti e calzamaglia non tanto per il freddo atmosferico, ma per evitare ustioni a contatto con il suolo. Prosegue Ghebrelul: «I campi sono terribili. Abbiamo troppi infortuni muscolari. Se si vuole davvero sviluppare il calcio a queste latitudini, c’è bisogno di superfici che quantomeno garantiscano l’incolumità dei giocatori». Su questi campi di terra ghiacciata e roccia, poi, gli scarpini si distruggono in brevissimo tempo, non durano mai più di una stagione. Un calciatore, in tre mesi di allenamenti e partite, butta via almeno un paio di scarpe, che a Nuuk costano almeno 200 dollari. Una spesa non indifferente per il groenlandese medio.

La nazionale groenlandese durante gli Island Games 2003 a Bermuda.
La nazionale groenlandese durante gli Island Games 2003 a Bermuda.

Almeno nella capitale, negli ultimi anni sono stati introdotti un campo in erba sintetica e una palestra per il futsal, che ovviamente riscuote grande successo durante i nove mesi “invernali”. Le sessioni di allenamento in palestre riscaldate e i tornei di calcio-sala, però, sono limitati alle cinque squadre della capitale: in tutto il resto dell’isola esiste soltanto una palestra e spostarsi da un insediamento all’altro durante la stagione fredda è semplicemente impensabile per un motivo molto semplice: in Groenlandia non ci sono strade interurbane, tutti gli spostamenti avvengono via aerea o via mare e viaggiare – oltre a essere estremamente costoso, il prezzo medio di un volo interno si aggira sui 1000$ – può essere molto pericoloso persino durante l’estate. Questo è uno dei motivi per cui, nonostante l’esistenza di decine di società calcistiche, al campionato nazionale partecipano soltanto le sei vincitrici dei campionati locali e che, molto spesso, alcune di queste si vedano costrette a rinunciare perché, molto semplicemente, non possono viaggiare fino a Nuuk a causa del maltempo. Il caso tristemente più noto è quello di Karl Olsen, Martin Larsen e Kristian Davidsen. Nell'agosto 2004, dopo aver giocato una partita di calcio a Qegertarsuag, partirono in barca per tornare a casa ad Aasiaat, distante 60km circa, ma non arrivarono mai. I corpi di Olsen, Larsen e Davidsen furono rinvenuti solo allo scioglimento dei ghiacci, nel giugno successivo, su un’isola a poca distanza dal punto di arrivo.

La difficoltà negli spostamenti rende particolarmente ostico anche e soprattutto organizzare le rappresentative nazionali (maschile, femminile e di futsal), fondate contemporaneamente alla federazione calcistica (Kalaallit Arsaattartut Kattuffiat, abbreviato in KAK) nel 1971, anno dell’autonomia dalla Danimarca, e mai riconosciute dau vertici del calcio mondiale, UEFA e FIFA. Una volta, anche territori non autonomi - ad esempio i paesi che formano il Regno Unito o le isole Far Øer - potevano farne parte. Da qualche anno, però, le regole sono cambiate e i nuovi membri devono necessariamente essere riconosciuti come stati indipendenti dalle Nazioni Unite. Per questo motivo la KAK sta cercando di entrare nella CONCACAF, che non ha queste limitazioni, scelta che comunque non sarebbe propedeutica all’accettazione nella “grande famiglia” della FIFA.

Durante la sua visita sull’isola nel 2010, infatti, Sepp Blatter elencò molto chiaramente i requisiti da rispettare per essere ammessi: l’indipendenza, per l’appunto, e la presenza di almeno uno stadio in erba sintetica capace di ospitare 3000 spettatori. Date le enormi difficoltà politiche, anche interne, al raggiungimento del primo obiettivo, il governo groenlandese ha deciso di puntare sulla costruzione di un campo regolamentare. Tuttavia, nonostante esistessero un progetto e uno studio di fattibilità commissionati con la speranza di riuscire a completare un vero e proprio impianto con tribune e strutture adeguate entro il 2020, i lavori non sono mai stati avviati a causa della mancanza di fondi. La mancanza di veri e propri stadi, sottolinea il presidente della KAK Finn Meinel, crea un circolo vizioso da cui è molto difficile uscire senza investimenti esterni: non potendo far pagare i biglietti, le squadre non hanno fonti di guadagno con le quali, magari, riuscire a mettere via il necessario per costruire delle tribune. «D’altra parte, cosa possiamo dire al pubblico? Sedersi su quella roccia grande e piatta costa 100$, invece quella più piccola e scomoda un po’ più in là soltanto 25$? Sarebbe ridicolo e ingiusto».

Una partita di calcio a Uummannaq, Groenlandia
Una partita di calcio a Uummannaq (Algkalv)

La rappresentativa allenata da Nujannguaq Zeeb riesce comunque a partecipare ai tornei internazionali della NF-Board (la federazione degli stati non riconosciuti): nel 2006 era alla FIFI World Cup organizzata dal Sankt Pauli in parallelo al mondiale tedesco. Pochi mesi dopo ha disputato la ELF Cup (Equality, Liberty, Fraternity), che fu disputata da Crimea, Gagauzia (una regione autonoma della Moldavia), Kirghizistan e Tagikistan, Tibet, Zanzibar e Cipro del Nord. Fin dal 1985, invece, partecipa agli Island Games, una sorta di mini-olimpiade tra rappresentative di isole facenti parte di otto nazioni sovrane, in cui è arrivata in finale due volte nelle ultime tre edizioni. L’entusiasmo con cui i groenlandesi giocano questi tornei e la passione con cui sono seguiti da casa, insieme agli allenamenti all’aria aperta con diversi gradi sotto zero nonostante le limitazioni logistiche e climatiche, i costi proibitivi, il mancato riconoscimento da parte della comunità calcistica internazionale, sono le migliori dimostrazioni di quanto sia importante il calcio sull’isola più grande del mondo e, allo stesso tempo, del potere unico di questo sport, capace di penetrare – come folata da una finestra chiusa – in ogni angolo del globo. «Le persone dicono spesso che dobbiamo giocare per il nostro futuro», chiosa Zeeb, «ma secondo me dobbiamo farlo anche per ricordare il passato, l’etica e l’impegno che i nostri genitori e i nostri nonni hanno messo per permetterci ciò che abbiamo ora».


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  • Genovese e sampdoriano dal 1992, nasce in ritardo per lo scudetto ma in tempo per la sconfitta in finale di Coppa dei Campioni. Comincia a seguire il calcio nel 1998, puntuale per la retrocessione della propria squadra del cuore. Testardo, continua imperterrito a seguire il calcio e a frequentare Marassi su base settimanale. Oggi è interessato agli intrecci tra sport, cultura e società.

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