Non abbiamo capito Marco Verratti
E il suo trasferimento in Qatar ce lo ha ribadito.
Negli ultimi vent’anni hanno giocato in serie A migliaia di giocatori in più di cinquanta squadre diverse. Alcuni sono stati grandi campioni, altri onesti mestieranti, altri ancora inenarrabili fenomeni parastatali. Qualcuno di loro era anche il figlio di un dittatore e criminale di guerra. Ma nessuno di essi ha mai risposto al nome di Marco Verratti da Pescara.
Ecco, il fatto che Saadi Gheddafi abbia due presenze in Serie A in più di Verratti è il motivo per cui il suo passaggio all’Al Arabi non può e non dev’essere sottovalutato dal nostro pubblico. Il calciatore più forte che il calcio italiano abbia prodotto negli ultimi 15 anni si ritrova a 30 anni a chiudere praticamente la carriera senza che nessuno di noi abbia mai avuto il piacere di vedergli calcare i prati del nostro campionato, che ha avuto spazio per più o meno chiunque a qualsiasi età ma non ne ha mai avuto, e probabilmente mai ne avrà, per il talento italiano forse più cristallino dell’ultimo decennio.
Ed è impossibile non accogliere questa notizia con un velo di tristezza ma anche con un certo rimpianto, per ciò che è stato Verratti e per ciò che ha rappresentato per una generazione di tifosi parigini, europei ma soprattutto italiani. Insomma, Marco Verratti in Qatar è la fine di un’epoca.
Nemo propheta in patria
Nel comprendere il senso della carriera di Verratti potremmo dire, senza andare troppo lontano dalla verità, che è stato uno dei migliori centrocampisti in Europa dell'ultimo decennio. Non ha seduto al tavolo dei Modrić, dei de Bruyne o degli Iniesta, certo; ma forse a quello dei Thiago Alcantara e dei Gündoğan sì. Lo si può mettere in quell'élite anche solo prendendo la sua carriera parigina: 9 volte campione di Francia; vincitore di più di 20 tra coppe e supercoppe nazionali; calciatore più vincente della storia del campionato transalpino; campione d’Europa nel 2021 e finalista della Champions 2020; secondo calciatore per numero di presenze nella storia del PSG e primo nell'era Al-Khelaïfi. Forse proprio quest’ultimo dato, che sulla carta non ha nulla a che fare con i trofei, è quello che più di tutti ci permette di comprendere la caratura della sua carriera.
Quello che conosciamo come il PSG degli sceicchi, che ci sembra sempre uguale a sé stesso da 10 anni, ha in realtà attraversato numerosi cicli e fasi dall’arrivo dei qatarioti. È stato prima il PSG di Thiago Motta, Matuidi e Gameiro; poi quello di Ibra e Thiago Silva; poi quello di Cavani e Di Maria; poi ancora quello di Mbappé e Neymar fino ad arrivare al PSG del fallimentare triunvirato con Messi. In 10 anni gli sceicchi hanno speso, solo in costo dei cartellini, miliardi di euro e dal Parc Des Princes sono passati decine di giocatori, di stelle o di presunte tali e in panchina allenatori capaci di vincere più o meno di tutto. Eppure, in questo turbinio di giocatori, allenatori e petroldollari una cosa non è mai cambiata: la presenza di Marco Verratti in mezzo al campo.
La sola idea che la squadra più ricca del mondo non sia riuscita a togliere dal campo Marco Verratti ci dice molto, vista la serenità con cui ha sostituito giocatori ben più celebri e affermati di lui. La verità è che in questi dieci anni Verratti nel suo ruolo, o meglio nei suoi ruoli, è stato tra i migliori al mondo. Da regista, da mezz’ala o persino da “falso 10”, Verratti nel suo prime per qualità, tecnica, palleggio, visione, lettura, conduzione, capacità di dettare i tempi e di regia è stato semplicemente il meglio che il nostro movimento ha saputo offrire al calcio in questi anni. Eppure, la sensazione è sempre che in Italia il suo peso e le sue qualità siano sempre state date fin troppo per scontate.
Trovarne una ragione è difficile. Per diversi anni Verratti è stato quello del celebre "moccico" dopo Uruguay-Italia del Mondiale 2014; uno che non sa l'italiano, figurarsi il francese, e che per questo è stato semplicemente un miracolato che per caso si è ritrovato a guadagnare milioni e milioni immeritati. Forse, peggio ancora, non gli sono stati perdonati gli undici anni nel PSG, un club percepito come il male assoluto in un campionato che in Italia ha meno rispetto della Serie C. Eppure, per chi ha visto il talento di Verratti sui campi di mezza Europa, il suo talento e il suo valore non è praticamente mai stato discusso.
Per una certa fetta di pubblico resta complesso apprezzare un giocatore che non è un fenomeno da highlights - 11 gol e 50 assist in quasi 500 partite sono forse troppo pochi per considerarlo un giocatore interessante. Del resto, è facile apprezzare chi segna, chi para e forse chi fa assist, tre cose che Verratti non ha veramente mai dovuto fare, rendendo i suoi video Goals&Skills molto più noiosi di quelli di Neymar o anche semplicemente di Barella. Del suo livello, però, si è accorto chi ha condiviso il campo con lui, che fossero compagni o avversari: Iniesta lo ha definito il suo successore; Messi lo ha etichettato come il migliore al mondo nel suo ruolo e Neymar lo ha messo addirittura sul piano di Xavi e dello stesso Don Andrés. Insomma, gli unici che non lo hanno saputo apprezzare veramente siamo stati noi.
La sua partenza per il Qatar segna la fine di un’epoca innanzitutto per questo. È la fine di una contraddizione per cui uno dei giocatori più forti del mondo veniva da Pescara e noi, immersi fino al collo nella mediocrità della nostra banter era, non ce lo siamo goduti quanto avremmo potuto e dovuto.
Il simbolo di una generazione
Il passaggio di Verratti al PSG, visto oggi, segna proprio un cambio di trend nell'idea della Serie A. Quell'anno, il 2012, è il momento in cui si materializza la trasformazione della Serie A da campionato ambìto e competitivo a competizione di passaggio, tappa intermedia verso i grandi campionati europei. Non più il campionato più bello del globo terracqueo, non quello dei Papin che vanno a fare panchina al Milan o dell'Inter che vince il triplete, ma quello in cui avremmo visto grandi talenti appoggiarsi e prendere la rincorsa per andare a vincere in Spagna, in Inghilterra o a Parigi.
Verratti è stato l’apripista di una lunga serie di giovani promesse e enormi talenti che sono partiti o sono passati dal nostro paese giusto il tempo di una o due stagioni, lasciandoci solo assaggiare il loro talento, mentre la comanda proveniva da altri tavoli. Giocatori come Marquinhos, Kovacic e de Ligt, passati dall’Italia come i nobili inglesi durante i Grand Tour dell'Ottocento, giusto il tempo di vedere quello che rimaneva del nostro passato prima di proseguire oltre. Verratti non è stato il primo in assoluto, certo. L’approdo al City di Balotelli, due anni prima, aveva creato anche più polemiche e indignazione, ma Balotelli era un giocatore affermato, di cui intuivamo i pregi e vedevamo i difetti. Verratti era ancora un progetto, un’idea, un’ipotesi di talento, un ignoto che probabilmente avremmo dovuto e voluto scoprire per primi.
E avremmo anche potuto farlo, dato che dopo la sua grande stagione nel Pescara di Zeman, giocata con una personalità straordinaria ad appena vent'anni, Sebastiani aveva chiesto 12 milioni per lui. Una cifra ragionevole – anche risibile con i parametri odierni – per un giocatore che servirebbe a tante squadre. Forse l’Inter, impegnata in un difficile ricambio generazionale o il Milan di Allegri che avrebbe un disperato bisogno di qualità in mezzo al campo; Anche la Roma di Zeman e di sicuro la Juve di Conte, assoluta padrona tecnica ed economica del campionato. Forse tutte ci hanno provato, sicuramente nessuna ci è riuscita.
L’impossibilità o l’incapacità di una qualsiasi squadra italiana di fare concorrenza ai parvenu del PSG non per Ibra o Lavezzi, ma per un ragazzo italiano reduce da due stagioni in Serie B è stato forse il risveglio più duro: la realizzazione che ormai il calcio italiano stava scivolando verso il suo momento più buio. Il simbolo, per una generazione di tifosi italiani, di una Serie A asfittica, povera e mediocre, incapace di importare talenti e in parte anche di crearseli.
Per chi è cresciuto nella scorsa decade, vedere un giocatore italiano dispensare talento e classe nella squadra più ricca e glamour d’Europa significava, tuttavia, anche tenere viva la speranza, pensare che, dopotutto, il calcio in Italia non era veramente finito; immaginare che prima o poi saremmo ritornati grandi, che le vacche magre sarebbero finite e che Verratti, dopo aver tenuto in alto l’orgoglio del nostro calcio, sarebbe un giorno tornato per essere ammirato non al Parco dei Principi ma allo Stirpe di Frosinone o al Bentegodi di Verona. Significava anche non perdere la speranza che un futuro diverso potesse attendere anche la nostra Nazionale.
Una cattedrale nel deserto
Quello di Verratti con la Nazionale è stato, in effetti, un rapporto strano: undici anni di costante altalena tra esaltazione e delusione. L'esaltazione di quell'Italia-Inghilterra del mondiale brasiliano, vinto in piena notte italiana e con Verratti titolare in faccia agli inglesi che avevano riposto tutte le loro speranze su Phil Jones e Daniel Sturridge, che in attacco convocavano Rickie Lambert e che non riuscivano a lasciarsi alle spalle e pesanti e ingombranti figure di Gerrard e Rooney.
Quella vittoria, meritata, era la naturale prosecuzione di un grande europeo e una buona Confederations Cup, di una squadra che pensava di aver già rimosso il trauma sudafricano e che in Verratti vedeva l'erede designato di Pirlo; l'enfant prodige che a 22 anni era pronto a diventare titolare della Nazionale, scalando in fretta le gerarchie come nel PSG. Nei successi che, inevitabilmente, avrebbero accolto la nostra Nazionale. Lui doveva essere il leader dei presunti talenti che il calcio italiano stava producendo insieme a lui. Un destino di grandeur, insomma, cancellato nello spazio di una settimana.
Le partite con Costa Rica e Uruguay, alla fine, hanno solo avuto l'effetto di trasformare i primi sei anni di Verratti in Nazionale in un enorme e doloroso periodo di transizione, in cui le speranze si sono trasformate in un buco nero che ha inghiottito il prestigio della Nazionale assieme ai sogni dei suoi tifosi. Quello che doveva essere l'inizio di una lenta riscossa si è invece trasformata nell'ultima vittoria dell'Italia in un mondiale e il fatto che Verratti abbia mancato anche l'unico sussulto d'orgoglio di quel periodo storico ci mostra bene le sue difficoltà.
Possiamo solo immaginare come sarebbe andata se Verratti quell'Europeo del 2016 lo avesse giocato al servizio di Antonio Conte, se contro la Germania, al posto di Sturaro ci fosse stato lui. Quello di Francia doveva essere il suo Europeo e i suoi muscoli hanno finito per tradirlo, impedendogli di vivere quel momento di compattazione collettiva che mancava da anni alla nazionale.
In questo senso, l'altra partita con l'Inghilterra, a Wembley sette anni dopo, è diventato un simbolo di riscatto, di una squadra che nel frattempo aveva raccolto i suoi cocci e li aveva rimessi insieme. Verratti nel 2021 non è più da solo. Accanto ha lui ci sono Barella e Jorginho oltre ad una squadra che, lontana dai fasti di un tempo, ha entusiasmo, qualità e senso di gruppo come mai prima di allora.
Verratti gioca quell’Europeo da attore non protagonista ma la sua presenza è indispensabile, come prova la forza, quasi l’arroganza con cui si riprende il posto da titolare scippandolo al miglior Locatelli di sempre, dopo aver saltato le prime due partite per un problema al ginocchio. Lavora nell’ombra, senza prendersi le luci dei rigori del suo compagno Jorginho. Tesse, detta i tempi, costruisce il gioco, lega i reparti, diventa il partner perfetto sulla sinistra per le triangolazioni con Spinazzola e Insigne. La vittoria finale è la meritata consacrazione per un giocatore che era semplicemente troppo forte per non vincere nulla con la nazionale.
Come nel 2014, l’Inghilterra ha segnato l’apice e l’inizio della fine per l’Italia e per l’esperienza di Verratti. Questa volta non sono state la mediocrità della rosa e gli infortuni a infrangere i sogni di gloria ma una squadra ostaggio di giochi di potere e di palazzo, di personaggi mitomani e egoisti, di infinite polemiche e di una mentalità da provinciale. La partita con la Macedonia del Nord, inevitabilmente, non può che essere il ritorno alla negatività per Verratti, l'amara certezza di non avere più la possibilità di riscattare il suo ultimo mondiale, per altro materializzatasi con una squadra sensibilmente inferiore. Se, alla fine di tutto, la tristezza di non vedere Verratti in Serie A è grande, quella per non vederlo più giocare un mondiale è enorme.
E ora?
A 30 anni, in un mercato normale, Verratti avrebbe potuto cercare di ottenere l’ultimo grande contratto della sua carriera, anche in una squadra di alto livello in Europa. Alla fine, invece, la congiuntura economica e l’ovvia impossibilità delle squadre italiane di permettersi il suo ingaggio hanno inevitabilmente portato alla strada dell’Al Arabi, dove per altro ha ritrovato i suoi ex compagni Diallo e Rafinha. Il suo addio al PSG ha preso anche una piega amara, vista l'esclusione decisa da Luis Enrique e gli attacchi ricevuti sulla sua vita personale – come quello insensatamente violento di Jerome Rothen – che ne hanno definitivamente intaccato lo status.
Verratti può non essere un professionista modello e sicuramente gli undici anni di PSG lo hanno provato sia fisicamente che mentalmente. Ciononostante, almeno sulla carta, la sua carriera non è affatto finita. In passato diversi giocatori sono riusciti a tornare dalle retirement league con ancora motivazioni per resistere ad alto livello – pensiamo a Ferreira Carrasco, El Shaarawy, Witsel – ma quasi nessuno la ha fatto con la brillantezza di prima.
Verratti, però, non si può considerare un semplice esodato, come neanche i colleghi che hanno deciso di andare a raccogliere i milioni del campionato saudita. Per forza di cose, il valore di Verratti come giocatore è tale che, come potrebbe avvenire se e quando altri giocatori decideranno di rientrare in Europa dal campionato saudita, i club europei dovranno lasciar perdere i pregiudizi sul figliol prodigo che torna con le tasche piene dal Golfo e cominciare ad applicare un po’ di sana RealPolitik. E magari, proprio tra due o tre anni, potremo permetterci di vivere il talento di Verratti negli stadi della Serie A.
Quello che però rimane più incerto è proprio quanto (e se) Verratti potrà volere un ritorno in Europa, piuttosto che godersi un meritato riposo in Qatar dopo un estenuante decennio in un PSG e in una Nazionale sempre sull'orlo dello psicodramma. Ad ogni modo, nonostante tutto lasci intendere il contrario, possiamo sperare che la carriera di Verratti non finisca così.
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