Novak Djokovic celebra la vittoria dello US Open con una maglietta che ricorda Kobe Bryant.
, 13 Settembre 2023
8 minuti

L'umanesimo di Novak Djokovic


La vittoria dello US Open contro Medvedev è solo l'ultimo atto della sua grandezza.

Alla fine sono bastati tre set spietati: siamo stati testimoni di un combattimento cruento, sgombro dell'epica che eravamo pronti a intessere nel ventre della rivalità con Medvedev. È arrivata con serenità burocratica, questa 24esima vittoria nei tornei dello Slam. Un dritto scalcinato a rete, un tiepido sospiro di sollievo, un sorriso accennato: Djokovic che passeggia verso il suo avversario avvolto da una nube di atarassia, come se fosse già consapevole di quello spettacolo improvvisato. Djokovic l'imperituro; Djokovic il preveggente; Djokovic il demone; Djokovic il GOAT. Quante volte ancora proveremo a fotografare la sua grandezza, a ridurre a un momento questi 12 anni di dominio? Ogni vittoria è una sconfitta mancata, ormai: un'altra partita in cui Djokovic ci rassicura sul suo stato competitivo e il suo stoicismo ne riflette l'estraneità al tempo.

A Flushing Meadows il suo tennis è stato esiziale. Djokovic ha rabbuiato la pressione di Medvedev con il serve&volley: forse l'arma più anti-moderna del gioco, di certo quella più rischiosa. Lo ha fatto con la naturalezza di un giocatore di fine anni '90, come se il suo tennis fosse sempre stato così offensivo. Le sue discese a rete si sono fatte frequenti per sfruttare la lontananza di Medvedev in risposta, per renderlo un puntino sbiadito sull'obiettivo, eppure a guardarle bene contengono in sé qualcosa di voluttuoso. È una eccezionalità perenne, quella che Djokovic ci mostra quando la partita diventa un sinistro teatro di battaglia. Ha giocato il remake della finale del 2021 contro il tennista più tattico del circuito, quello che più di chiunque altro gioca a tennis con l'approccio razionalistico degli scacchi, ed è riuscito a sconfiggerlo sul piano strategico.

Ormai è diventato nauseante parlare dei numeri di Djokovic. In questi giorni ne avete sentito parlare per il nuovo record di settimane al numero 1 della classifica ATP, del nuovo record di Slam vinti nel tennis maschile. Sono tutti dati veri, eppure non possiamo non pensarli come dati parziali. Anche perché siamo arrivati a un punto in cui persino le statistiche paiono svuotarsi di senso di fronte alla sua grandezza. Quei record gargantueschi, così eccezionali che potrebbero rimanere inesplorati per qualsiasi futuro tennista, non rappresentano le molteplicità del talento di Djokovic, quella tendenza a cambiare lo stato della materia a suo piacimento che lo rende inesorabile.

Il primo scambio della partita è durato 19 colpi: l'antipasto succulento di una guerra tra due colossi del tennis moderno, un'altra finale intensa che ci sarebbe servita per incorniciare un nuovo modo di giocare. Fin dai primi punti le intenzioni di Djokovic erano chiare: estirpare le certezze di Medvedev, cacciarlo fuori dalla sua comfort zone per impedirgli di prendere il ritmo con il dritto. Spesso abbiamo accusato Nole di giocare in modo reattivo, forzando gli errori dell'avversario con un tennis crudo, cattivo, antiestetico. È stato sorprendente guardare questa sua ennesima nuova versione che cerca variazioni continue; riducendo la partita a un combattimento di tecnica pura, piena di volée eseguite con l'agilità di una timeline simile alla nostra, Djokovic ha trascinato il flusso degli eventi a sé.

Ha tentato il serve&volley 22 volte – commettendo solo 2 errori – e ha vinto 37 dei 44 punti totali in cui è sceso a rete. Per tutto il primo set, e poi più avanti nei momenti più complessi della partita, Djokovic ha sfruttato la posizione di Medvedev in risposta. Anche questo ha dato vita a una matrioska di trame che si scontravano: il russo preferisce rispondere da lontano, partendo coi piedi a ridosso dei cartelloni pubblicitari. È una scelta che col senno del poi arriviamo a pensare sia sconclusionata, eppure è uno dei tratti distintivi del tennis cerebrale di Medvedev. Difficilmente un avversario riesce a inghiottire le risposte del russo: quella distanza oceanica dal campo lo costringe a risposte solide, cariche di spin o con angoli ricercati, e Medvedev è uno dei migliori al mondo in questo fondamentale.

Contro qualsiasi tennista, Medvedev parte da così lontano per rendere il proprio tennis più acuto, efferato. E anche quando è costretto a recuperare a seguito di uno slice velenoso, ci riesce. Il suo problema in finale è stata la metafisica del suo avversario, la manipolazione asettica che Djokovic imprime alla pallina, il suo tennis subdolamente scarno. Abbiamo conosciuto Djokovic come il migliore difensore possibile da fondo campo, e stavolta è stato il migliore attaccante.

Il suo serve&volley ha deturpato il gioco di Medvedev. Un buon esempio è il punto giocato sul 2-0 per Djokovic nel primo set. In quel momento Medvedev era sotto di un break ma aveva vinto i primi due punti del game: stava provando a entrare in partita, a far capire a Nole che il vero combattimento non era ancora iniziato. E invece a Djokovic è bastato servire una prima esterna e solida per rendere Medvedev un fazzoletto gettato dal finestrino in autostrada. Le gambe lunghe e sottili, unite alla sua apparente scoordinazione, fanno sembrare il gioco di Medvedev più arruffato di quanto sia in realtà. In quel punto, però, la difficoltà è tangibile: non appena rimette la palla in campo, Djokovic ha tagliato verso la rete per effettuare forse una delle stop volley più belle della partita. Di certo una delle più violente.

Può sembrare assurdo, ma non va confusa la supremazia strategica di Djokovic con una brutta partita di Medvedev. Anche nel primo set, quello più atroce nello sviluppo stesso del punteggio e della battaglia tattica, il russo ha vinto punti eccezionali. Magari Medvedev ha chiuso troppo poco gli angoli, ma ha giocato quasi sempre agli incroci delle righe, rispondendo a Djokovic con una profondità inesplorata. Nello scambio che porta Djokovic avanti per 5-2, ad esempio, c'è una difesa che sarebbe bastata contro qualsiasi altro essere umano: due recuperi incrociati con il rovescio, arrivati a Djokovic al corpo, una rincorsa che ha costretto Nole a giocare un vincente in più del necessario.

I rimpianti di Medvedev riguardano soprattutto il secondo set, che poi è stata una collezione degli scambi thriller che ci aspettavamo per tutta la durata del match. Con il passare del tempo il russo ha preso le misure delle variazioni di Djokovic, e la sua solidità ha destato stupore. Medvedev ha vinto punti arpionando una palla corta straziante di Nole, comandando lo scambio già dalla risposta, scovando pulviscoli appena prima della linea di fondo con il rovescio lungolinea. È stato un set pieno di cose belle sostanzialmente inutili.

Medvedev poteva vincere il set, pareggiare nel punteggio e magari mettere angoscia nei meandri della mente di Djokovic. Ne ha avuto presto l'occasione: sul 5-6 aggancia il servizio centrale di Nole, e quello segue a rete la risposta per vincere un altro punto con il serve&volley. È una di quelle rare volte – ne capiteranno giusto ancora un paio – in cui a Djokovic esce dal piatto corde una volée mediocre, che non gli porta subito il punto. Medvedev si avvicina alla pallina con la solita aria turpe e scapigliata, quel tormento tipico di un personaggio scritto da Tolstoj, e riesce a giocare il rovescio in diagonale, proprio sulla racchetta dell'avversario. "Avrei dovuto vincere il secondo set" ha detto Medvedev a fine partita. "Sul set point avevo tutto il lungolinea aperto e ho giocato in cross: ho preso la decisione sbagliata".

Sono parole frutto di esasperazione. È forse fino a questo punto che il tennis di Djokovic ferisce gli avversari? Non solo lo abbiamo visto giocare e vincere contro tutti i migliori tennisti degli ultimi quindici anni: Djokovic annienta le loro bramosie, i punti di forza che li hanno condotti fin lì. Annienta la loro grandezza tecnica e mentale, fino a farli rimuginare per un singolo rovescio sbagliato in una finale dello Slam.

Il tennis non ha un limite temporale, è uno sport a punteggio alto, e Medvedev aveva ancora le chances per vincere il set al tie-break, eppure se la teoria è sempre cristallina, in campo i valori possono cambiare in un istante. Djokovic è forse il migliore anche in questo? Nel rendersi cioè estraneo a questa condizione puramente umana – la caducità mentale, l'influenza del punteggio sulla psiche – e contemporaneamente ergersi a burattinaio di una forza trascendentale che incide sulle partite di tennis come nient'altro.

L'aura preveggente del tennis di Djokovic ha fotografato una sfida primordiale tra stili diversi in risposta e al servizio: da una parte c'era Medvedev, diventato un puntino sfocato sullo schermo dei nostri televisori, come i bambini che giocano sullo sfondo delle inquadrature lunghissime di Polanski in Carnage; dall'altra c'era Djokovic e la sua aggressività, i piedi che entravano in campo sulla seconda dell'avversario, noncurante dei rischi concessi al servizio di Medvedev. A volte i due non sembravano neanche giocare allo stesso sport, con le stesse regole e gli stessi principi. In fondo per entrambi il tennis è una deriva esistenzialista, una categoria spirituale attraverso cui esprimersi.

Lo sappiamo bene per Djokovic. Negli ultimi anni ha recitato il ruolo da villain anche fuori dal campo, e forse è lì che la nostra idiosincrasia nei suoi confronti ha finito per tracimare sui giudizi in campo. Poco meno di un mese fa, appena dopo la sconfitta in finale a Wimbledon, si parlava dell'abdicazione di Djokovic: la rinuncia al trono del tennis mondiale, cioè, di un atleta che ha vinto tre degli ultimi quattro Slam. Eppure sembra che Djokovic stia facendo tutto il possibile per farci riconnettere a lui e alla sua unicità semplicemente giocando meglio di tutti gli altri. "Ho fatto del mio meglio per non farmi travolgere dalla pressione" ha detto per commentare la vittoria su Medvedev. "Due anni fa non avevo retto dal punto di vista mentale: ho imparato la lezione".

Il tennis che abbiamo visto nelle braccia, nelle gambe, ma soprattutto nella testa di Djokovic è figlio di un'incessante opera di ricostruzione di sé. Dopo la finale, Nole ha citato l'amicizia con Kobe Bryant e i messaggi che si sono scambiati nei momenti di difficoltà in cui aveva pensato di smettere di giocare a tennis. A New York, lo stesso teatro in cui il pubblico aveva celebrato la sua umanità nella sconfitta del 2021, Djokovic ha chiuso un cerchio della sua storia: ci ha donato un altro pezzetto di meraviglia, uno stupore infantile di fronte a quel serve&volley che non avremmo mai pensato di vedergli giocare con quella continuità.

Ha vinto con se stesso, contro se stesso, oltre se stesso. Non possiamo più pensare a lui come un tennista che risente dello scorrere del tempo: Djokovic gioca un tennis dell'umanesimo, nessuno più di lui ci ha comunicato l'idea di un essere umano consapevole della propria grandezza, versatile, contraddittorio, eterno. Dobbiamo accogliere questo messaggio filosofico, oltre che sportivo.

In un altro pezzo sul momento della carriera di Djokovic di un mese fa, dopo la sconfitta a Wimbledon, avevo scritto: "Vincerà altri Slam, magari, ricordandoci quanto sia stato in grado di distruggere ogni limite temporale. Non sarà mai ammantato di epica o di bellezza, né forse sarà mai ricoperto d'amore, ma anche Djokovic ci ha insegnato qualcosa su noi stessi e sulla nostra caducità. Smettiamola di trattarlo come se fosse uno dei tanti: è immorale, ingiusto, patetico".

Avevo provato a definire Djokovic negando il suo contrario: eppure oggi, a distanza di poche settimane, credo che sia stato un errore. Non solo, cioè, dovremmo soffermarci di più su questi momenti leggendari, senza considerarli normali (può essere definito normale un tennista che vince più di chiunque altro nella storia di questo sport?), ma dovremmo forse persino goderceli. Pensare al giorno in cui ci ricorderemo di Djokovic e proveremo a spiegare il suo impatto innovativo sull'uso della mente nel tennis a chi non lo ha visto dal vivo.

Djokovic vince senza sforzo, con l'ineluttabilità dell'energia mentale e oscura che ormai gli riconosciamo; Djokovic vince dominando, senza concedere un set agli avversari; Djokovic vince armandosi di un bagaglio tecnico che non è mai stato così esteso.

La verità è che non abbiamo ancora conosciuto una porzione di realtà in cui vale la pena affiancare parole a una frase più semplice, più essenziale di tanti orpelli: Djokovic vince.


Autore

  • Nato a Giugliano (NA) nel 2000. Cinema, rap e letteratura sopra ogni cosa. Studia ingegneria mentre cerca di razionalizzare il mito di Diego Maradona.

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