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Tommaso Castello con la Nazionale Italiana di rugby.
, 8 Settembre 2023

Il rugby continua a darmi tanto, anche se è finita: intervista a Tommaso Castello


Abbiamo fatto due chiacchiere con l'ex Nazionale e capitano delle Zebre.

Il rugby italiano ha una tradizione di trequarti centro peculiare. Nella storia non c’è stato il campione alla Ma’a Nonu, l’asso che sapeva scardinare le difese sia di forza sia di fino; in compenso, sui nostri campi abbiamo visto tanti giocatori affidabili, che sapevano cosa ci fosse da fare in campo e farlo bene. Cristian Stoica, Gonzalo Canale e Luca Morisi, solo per restare negli anni del Sei Nazioni. Tommaso Castello rientra pienamente nella categoria di cui sopra: grande solidità fisica e una buona attitudine in attacco e difesa. Le doti umane l’hanno reso anche un leader sia alle Zebre, dov’è stato a lungo capitano, che in Nazionale. Insomma, un vecchio balordo della palla ovale, volendolo associare al suo Genoa.

La carriera di Castello è però terminata un pomeriggio del Sei Nazioni 2019, sul prato ovale di Twickenham, per un gravissimo infortunio che lo ha costretto al ritiro e a ripensare la sua vita. Ne aveva parlato alla fine del 2021, in un’intervista al Secolo XIX, nella quale annunciava che l’anno dopo sarebbe partito per Cambridge, dove lo aspettava un master in Business Administration. Di lui si erano perse le tracce per un paio d'anni, prima che decidesse di tornare, sorridente e ben motivato, a parlare ai nostri microfoni.

Tommaso Castello con la divisa delle Zebre al Cardiff City Stadium.
Partiamo da te. Il rugby italiano ti ha lasciato due anni fa, quando annunciavi il ritiro e l’ammissione a un master a Cambridge. Come sta andando quest’esperienza?

Il corso è finito a giugno e ne ho approfittato subito per tornare in Italia perché, per quanto abbia insistito per avere un’opportunità all’estero, mi son reso conto che bene come in Italia non si vive da nessuna parte. È stata un’esperienza fenomenale: mi ha aperto un mondo che non sapevo esistesse, mi ha messo in contatto con persone provenienti da paesi, background ed esperienze diverse. Mi son reso conto che quello che avevo vissuto prima era una briciola rispetto alle opportunità che esistono fuori dal mondo del rugby, una nicchia piuttosto limitata. Dal punto di vista dell'apertura mentale, è stato importante; poi mi ha dato l’opportunità altrettanto importante di trovare un lavoro che mi interessi, che sia impegnativo, ambizioso e, allo stesso tempo, gratificante sotto tanti punti di vista, che mi metta alla prova.

Fondamentalmente, tutto ciò che facevo sul campo e ho cercato di farlo anche al di fuori: mi sono sempre messo alla prova con sfide sempre più impegnative e ambiziose, per riconoscere in me stesso la capacità di raggiungere obiettivi di un certo livello. Vivrò comunque in Inghilterra: ho finito il corso a Cambridge e ho trovato lavoro in una banca d’investimento a Londra. Ho cambiato vita, il corso doveva essere un trampolino e così è stato. Ho iniziato un nuovo lavoro, in una nuova città, con tutti i cambiamenti del caso.

Immagino non ci sia più margine per rientrare nel rugby, nemmeno in un piccolo club. È una dimensione finita per te?

Quando ho dato l’addio alle Zebre è finita. Quel che è stato è stato: è stato bello, però da subito ho cercato di voltare pagina e guardare altre opportunità. Il rugby mi ha dato ma, purtroppo, mi ha anche tolto tanto, spingendomi a un ritiro prematuro. Noto che a livello lavorativo desta sempre molta curiosità e interesse il mio passato da sportivo; è anche grazie al rugby, non solo perché ho deciso di cambiare nazione e vita, che ho avuto determinate opportunità. Le persone riconoscono in chi ha ottenuto risultati sportivi delle qualità che poi, si spera, vengano riproposte in ambito lavorativo. Il rugby continua a darmi tanto, compresa l’opportunità di iniziare a lavorare in un ambiente molto competitivo come quello dell’alta finanza a Londra.

Tommaso Castello in campo con la maglia delle Zebre.
Si è parlato molto del ritiro di Manfredi Albanese, giocatore che a 22 anni ha mollato la Benetton e la Nazionale. Si parla molto della crisi di alcune federazioni storiche e di club molto importanti. Va ripensato il rugby ad alto livello a livello economico e professionale?

Questa è una domanda complicata, posso parlarti del mio punto di vista. Credo che il rugby, per com’è portato avanti in Italia, crei una sorta di falsa speranza per tantissime persone. Giocatori che giocano in Serie A o anche in Eccellenza [la Serie A è la seconda divisione del rugby italiano, l’Eccellenza ora si chiama “Serie A Elite”, nda] che fanno soltanto quello, ritenendosi professionisti, non hanno capito che la vita è un’altra. Non basta avere l’opportunità di guadagnare soldi che ti consentono di vivere agevolmente senza crearti una via d’uscita di un certo livello. Va fatta sensibilizzazione.

Il rugby va considerato professionistico con tutti i crismi per le due franchigie, Zebre e Benetton Treviso, che garantiscono ai giocatori tutte le tutele del caso: contributi pagati, TFR, tutti i diritti di un lavoratore a busta paga. Al di sotto dovrebbe esserci qualcos’altro, anche perché il rugby italiano non è così riconosciuto a livello europeo. Bisogna guardarsi negli occhi e capire i pochi soldi a disposizione in cosa li vogliamo investire. Acquistare giocatori stranieri che vengono in Italia, pagandoli con soldi che potremmo destinare ad accrescere i settori giovanili, migliorare le strutture, creare dei rapporti con le aziende affinché i giocatori possano, una volta terminata la carriera, avere accesso al mondo del lavoro in maniera più semplice.

Un altro esempio sarebbe supportare i giocatori che studiano: ricordo che, durante la mia carriera, mi sono laureato in Scienze Motorie nel 2016 e in Ingegneria Meccanica nel 2022 e ogni volta che dovevo sostenere un esame mi trovavo a dover chiedere un permesso, sperando che mi concedessero l’opportunità di farlo. Sia la mia squadra, quando avevo allenamento, sia i professori quando chiedevo di posticipare un esame perché avevo un allenamento che non mi era stato consentito saltare.

Andrebbe migliorato il rapporto tra il mondo del rugby e il mondo universitario, per chi vuole studiare, o con i centri di formazione. Non è che debbano studiare tutti: uno si può anche specializzare perché vuole diventare un falegname o un panettiere. Credo che andrebbe creato un tessuto per cui a chi gioca venga data l’opportunità di studiare, se vuole studiare, o imparare un lavoro manuale, se vuole impararlo, nei ritagli di tempo, perché di tempo ce n’è tanto. Dando priorità al rugby durante la carriera ma avendo l’opportunità di iniziare a lavorare in una determinata maniera.

Tanti ragazzi sono portati a credersi professionisti, ma se a 25 anni non giochi stabilmente in Nazionale, fai parte di una delle due franchigie o giochi all’estero è aria fritta. Sì, ti consente di vivere agiatamente, comunque al di sopra della media, per un certo periodo della tua vita ma poi, quando inizi a dover lavorare e a confrontarti con persone che hanno dieci anni meno di te, allora poi diventa difficile.

È questa la strada che devono percorrere due club a cui sei molto legato, cioè CUS Genova e Calvisano, per ripartire? Squadre che vivono un presente tecnico-societario difficile e negli ultimi tempi hanno perso le loro figure tutelari, Marco Bollesan e Alfredo Gavazzi?

Per il CUS Genova parliamo del rugby di base. Mi sembra assurdo prendere giocatori da fuori. Servirebbe prendere allenatori con esperienza, a cui va affidato un processo di ricostruzione a 360° ripartendo dal settore giovanile per avere poi giocatori creati in loco che possano rinforzare i ranghi della prima squadra. Calvisano è un discorso diverso: è stata probabilmente la squadra che ha avuto più successi, al di fuori delle franchigie. Lì è un discorso del campionato che andrebbe rivisto.

Nel rugby chi mette i soldi lo fa a fondo perduto; una volta finiti gli appassionati, che pur di gestire il proprio gioco sono disposti a mettere centinaia di migliaia di euro all’anno, milioni nel corso di anni, si vede poi il risultato. Mi sembra un modello insostenibile: sono soldi spesi senza rientri, perché non sono i diritti TV o le presenze allo stadio a ripagare i budget delle squadre. Andrebbe ripensato restringendo il numero di squadre partecipanti al massimo campionato: c’è troppa differenza tra le prime e le ultime. E dare la possibilità ai giocatori che vogliono provare a fare del rugby la loro vita, arrivando alle franchigie e giocando in nazionale, di fare un percorso parallelo di crescita che consenta, una volta finito di giocare, di non trovarsi in mezzo alla strada.

Foto di gruppo dei giocatori del CUS, squadra genovese di rugby.
Tra pochissimo inizia la Rugby World Cup. Quali sono le squadre, o i singoli, che ti hanno colpito? Quali ti aspetti al varco? Te la sentiresti di fare un pronostico?

Le Fiji, al di là della vittoria contro l’Inghilterra. A livello di qualità individuale è tra le più forti al mondo, parlo proprio di qualità tecniche e fisiche dei giocatori. Poi storicamente non sono riusciti a esprimere in maniera collettiva la loro qualità, non hanno mai avuto risultati eclatanti. Oltre alla vittoria con l’Inghilterra, il fatto che tantissimi ormai giocano stabilmente in squadre blasonate e siano abituati a determinate strutture di gioco secondo me li rende la squadra più interessante da vedere.

Per quanto riguarda la vincitrice ci sono almeno 4 squadre che se la possono giocare: Sudafrica, Francia, Nuova Zelanda e Irlanda. Per quanto riguarda i giocatori ce ne sono diversi da tenere d’occhio, purtroppo tanti si sono fatti male all’ultimo. Sarà una Rugby World Cup estremamente interessante, ci sarà una grandissima competizione. Non c’è più la squadra imbattuta e imbattibile, come gli All Blacks di qualche anno fa. C’è più livellamento tra le squadre dei due emisferi. Sono molto curioso di vedere come andrà avanti.

All’estero si sta parlando molto del gioco degli Azzurri, della qualità delle soluzioni offensive costruite da Crowley. Come vedi i tuoi ex-compagni e i talenti emersi negli ultimi anni in Italia?

L’Italia mi ha fatto un’ottima impressione. L’ho vista più volte negli ultimi due anni e Crowley ha dato un’identità alla squadra davvero importante. È stato un grande allenatore per un gruppo così giovane. Penso che abbia ancora amplissimi margini di miglioramento. La parte che mi ha impressionato di più è la proposta offensiva: ho visto una confidenza nel muovere la palla e attaccare gli spazi che non è mai stata davvero parte del bagaglio del XV azzurro. Ora l'Italia gioca e pensi che potrebbe essere qualunque squadra. Veramente bello vederla: agli occhi di tifosi e appassionati, credo stia riscuotendo tantissimo consenso. Al di là dei risultati, gioca in modo da farsi apprezzare.

Giocatori e staff sanno meglio di me quanto sarà difficile, avendo nel girone Francia e Nuova Zelanda, ma affrontarle dopo due partite impegnative ma sulla carta abbordabili [Namibia e Uruguay, ndr] è meglio che farlo subito. Abbiamo possibilità di costruire ulteriormente la nostra fiducia, come fatto nelle ultime partite di avvicinamento. Poi non si sa mai cosa può succedere; nei test ci sono state partite con risultati imprevedibili. Abbiamo una possibilità di fare un'ottima World Cup, pur sapendo che non partiamo tra le prime del nostro girone.

Nonostante le buone sensazioni, però, la FIR ha deciso di concludere il rapporto con Crowley e puntare su Gonzalo Quesada, allenatore con un curriculum importante. Come valuti questa scelta?

Non sono nella posizione di poterla valutare perché non conosco Quesada. Conosco Crowley, anche se non sono mai stato allenato da lui: mi dispiace perché ha fatto un ottimo lavoro in termini di identità di squadra. Cambiare allenatore porterà una ventata d’aria fresca, ma quello che di buono ha creato Crowley forse verrà leggermente rivisto. Quesada sarà molto bravo se riuscirà, invece di ripartire da zero, a costruire su quello fatto da Crowley. A prescindere da come andrà la World Cup, credo che Crowley abbia già dato prova di essere stato un grande allenatore. Chiunque gli subentrerà dovrà essere bravo a costruire da dove lascia, invece di ripartire da capo.

Kieran Crowley, CT della nazionale italiana di Rugby.
(Foto: INPHO/Ryan Hiscott)
Gli ultimi test match sono stati caratterizzati da due episodi: il ‘caso Farrell’ e l’espulsione di Scott Barrett degli All Blacks. Entrambi sollevano un problema annoso: gli infortuni, la tutela della salute di chi gioca e la valutazione del metro arbitrale. Che giudizio dai?

Credo che il rugby debba prestare molta attenzione al benessere dei giocatori. Tante volte si è visto come regole troppo soft abbiano causato infortuni o problemi. Forse oggi c’è un’eccessiva forzatura per quanto riguarda determinate aree di gioco, espulsioni sul campo poi rivalutate in sede di appello. Dovrebbero esserci regole sensate e ragionevoli che non debbano far ricorrere ogni volta all’appello per aggiungere o sottrarre giornate di squalifica. I giocatori vanno tutelati, perché senza loro non ci sarebbe niente, ma le regole, così come sono concepite adesso, non sono così chiare. Altrimenti non si vedrebbe questa dissonanza tra quello che capita sul campo e quello che viene decretato al di fuori.

Ci vorrebbe un po’ più di linearità: essere più rigidi sotto certi aspetti e sotto altri ricordarsi che stiamo giocando a rugby, uno sport duro e che non può essere denaturato. Certe volte c’è un’eccessiva attenzione verso alcuni scenari senza però ricordarsi che il rugby è il rugby, lo è stato per tantissimi anni. Spesso queste sanzioni, che appaiono fin troppo drastiche, vengono riviste in sedi secondarie perché forse non così giuste.

Per chiudere… cosa diresti a un bambino o a una bambina che vuole approcciarsi al rugby?

Il rugby è lo sport di squadra per eccellenza. Se avete voglia di far parte di un ambiente in cui avrete l’opportunità di conoscere tante persone, sancire rapporti di amicizia che dureranno per tutta la vita, questo è l’ambiente giusto. Parlo da ex rugbista anche se in realtà ho cominciato a giocare a calcio, fino a 12 anni il rugby non sapevo cosa fosse. L’ho scoperto con la World Cup 2003. Mi sono appassionato in virtù del fatto che l’ambiente che avevo trovato era molto amichevole anche con chi, come me, arrivava da un altro mondo. Penso in quanto poco tempo sia riuscito a entrare in squadra e diventato amico di coloro che tuttora rimangono miei amici, a distanza di quasi vent’anni. Penso a tutte le soddisfazioni del caso, le sensazioni vissute prima di scendere in campo.

Se chiedi a qualcuno che ha giocato a calcio con successo ti dirà che per lui lo spogliatoio e le sensazioni pre e post partita sono state impagabili. Ogni sport porta con sé valori e ricordi irripetibili. Per quanto riguarda me, per il rugby, direi: volete trovare un ambiente in cui conoscerete persone con cui sancirete rapporti che andranno avanti nella vita, con cui avrete possibilità di condividere emozioni sul campo, sia di gioia sia di sofferenza, che vi marcheranno il carattere e faranno parte della vostra identità? Se la risposta è sì, penso che il rugby sia uno sport giusto.


  • Mille cose e contemporaneamente nessuna. Tra le altre collabora con Radio Onda d'Urto e SalernitanaLive

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