Come il Sud Sudan ha conquistato il basket africano
Con la vittoria contro la Cina, il Sud Sudan ha scritto la pagina più importante della sua (breve) storia sportiva.
La Repubblica del Sud Sudan è il paese più giovane al mondo, nonché fanalino di coda su 191 paesi analizzati nei report sull’Indice di Sviluppo Umano (HDI) delle Nazioni Unite. Diventato indipendente dal Sudan appena 12 anni fa - ufficialmente il 9 luglio 2011 - dopo tre decenni di guerra civile, è ricaduto in un violentissimo conflitto per il controllo del potere durato attivamente altri sette anni e costato quasi 400’000 morti e più di tre milioni di rifugiati, rimasto congelato ma mai realmente pacificato dopo la tregua firmata nel 2018. Non esattamente il contesto ideale per la crescita di un movimento sportivo di alto livello, ma, parafrasando l’abusato (e falso) aforisma di Antoine Magnan, «il Sud Sudan non lo sa e vola lo stesso». Sotto la guida tecnica di Royal Ivey - già vice allenatore di Thunder, Knicks e Nets - e quella manageriale dell'ex stella NBA Luol Deng, le Bright Stars hanno sbaragliato le qualificazioni al Mondiale vincendo tutte le partite tranne una, contro il favoritissimo Senegal, e chiudendo il girone con il record di punti (23) e di gran lunga la migliore differenza tra canestri fatti e subiti (+170 contro il +117 dell’Angola).
Questo risultato, chiaramente, non nasce dal nulla: anche prima del suo riconoscimento come stato indipendente, il Sud Sudan aveva una già ricca storia d’amore con il basket, da decenni sport più amato e praticato nella regione. Sebbene spesso si legga che l’amore per la pallacanestro sia in qualche modo legata alla presenza di uno tra i gruppi umani più alti al mondo (circa 182cm di media tra gli uomini adulti), la storia è ovviamente molto più complessa e ha radici storiche - e sportive - ben profonde. Il secondo giocatore africano nella storia dell’NBA (e giocatore più alto nella storia della Lega), arrivato negli USA appena un anno dopo Hakeem Olajuwon, fu Manute Bol, nato e cresciuto in una famiglia di pastori dinka in quello che all’epoca era il centro del Sudan e oggi è il nord del Sud Sudan. Bol, che durante l’infanzia aveva giocato soltanto a calcio, iniziò a giocare a basket in squadre locali soltanto a 16 anni e nel giro di poco tempo arrivò alla soglia della selezione nazionale. A 20 anni venne notato da un talent scout statunitense, che lo convinse a trasferirsi negli USA con una borsa di studio nel 1982. Arrivò in America senza conoscere una parola di inglese e, per alcune testimonianze, senza praticamente saper né leggere né scrivere.
Per i primi due anni si dedicò quasi totalmente allo studio allenandosi a basket nel tempo libero. Al terzo e ultimo anno però, grazie a un netto miglioramento nel suo rendimento scolastico, il college gli concesse di partecipare al torneo NCAA. I risultati furono strepitosi: media stagionale di 22.5 punti, 13.5 rimbalzi, 7.1 stoppate a partita e oltre il 60% al tiro. Pochi mesi dopo venne scelto al Draft dai Washington Bullets e chiuse un anno da rookie da record, con 397 stoppate in 80 partite. La sua esperienza negli USA proseguì tra alcuni alti e bassi, incomprensioni tecniche e curiosità tattiche (fu tra i primi centri a cui venne chiesto di tirare regolarmente da tre, quasi impensabile all’epoca) fino al 1994, anno in cui passò prima in CBA per poi chiudere la carriera alla Libertas Forlì, dove collezionò soltanto due presenze. Resta, a oggi, il giocatore NBA con la più alta media di stoppate a partita in carriera (8.6).
Come è facile immaginare, le sue imprese oltreoceano fecero innamorare una generazione di giovani sud sudanesi alla pallacanestro, creando un sostrato fertile per il successivo sviluppo del movimento. In principio è stato il già citato Luol Deng, ma ora è anche e soprattutto suo figlio, Bol Bol, attualmente ai Phoenix Suns. Manute, però, non è considerato un eroe nazionale soltanto per i suoi successi sportivi. Dopo il ritiro non si è fermato a godere dei piaceri della Riviera ma ha scelto di tornare nel proprio paese, impegnandosi attivamente durante l’estenuante e sanguinosa guerra di indipendenza dal Sudan: secondo la sua testimonianza, Bol avrebbe speso gran parte dei guadagni della pallacanestro in iniziative umanitarie per le regioni devastate dal conflitto. In patria visitava regolarmente i campi profughi investendo grandi somme per migliorare le condizioni degli sfollati. Quando il governo centrale sudanese gli offrì il Ministero dello sport a patto di convertirsi all’islam, lui - cristiano - rifiutò nettamente e in risposta Khartoum gli impedì l’espatrio per sei mesi, finché diplomatici statunitensi non riuscirono a farlo uscire dal paese garantendogli lo status di rifugiato politico. Passò il resto della sua vita negli Stati Uniti, continuando a spendere e spendersi per la riconciliazione tra Sudan, Darfur, Sud Sudan. Morì nel 2010 a causa di una grave insufficienza renale.
La sua eredità, tanto sportiva quanto umanitaria, è comunque passata in ottime mani. Luol Deng, per anni stella NBA e ora Presidente federale del basket sud sudanese, è uno dei tanti bambini innamoratisi del basket grazie a Manute. Nato a Waw, nel centro del Sud Sudan, anch’egli di etnia Dinka, figlio di un parlamentare indipendentista, fuggì in Egitto con la famiglia durante la seconda guerra civile. Ai piedi delle piramidi incontrò proprio Bol, che per mesi insegnò a Luol e ai suoi fratelli «i fondamentali della pallacanestro e, soprattutto, della vita». In una live su Instagram in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, ha raccontato:
«Manute rappresentava le cose giuste. Era famoso, giocava a basket, ma tornava sempre a casa e restituiva ciò che gli era stato dato. Sono entrato nel mondo della pallacanestro perché Manute si è preso una vacanza per aiutare la comunità sud-sudanese in loco. Quindi, se non fosse stato per qualcuno che stava cercando di aiutare le persone del proprio paese d'origine, non avrei mai avuto le opportunità che ho avuto».
Dall’Egitto si trasferì a Brixton, sud di Londra, dove si dimostrò totalmente fuori scala per il basket giovanile britannico. A 14 anni venne chiamato da un liceo statunitense e nel 2004, ad appena 19 anni, viene selezionato dai Chicago Bulls con la #7. Manute Bol, però, oltre al basket gli aveva insegnato “la vita”: non a caso, il nel 2007 riceve lo Sportsmanship Award, premio per il giocatore più sportivo dell’NBA e dona l’intero premio di 25’000$ Pacific Garden Mission, l’organizzazione umanitaria più antica e famosa degli Usa. Nel 2008 vince il Golden Icon Award For Best Sports Male Role Model, nel 2008 lo UN Refugee Agency’s Humanitarian of the Year Award, e nel 2014 il Walter Kennedy Citizenship Award, tutti riconoscimenti dovuti ai traguardi raggiunti dalla sua fondazione volta a garantire educazione, sanità e beni di prima necessità - Luol Deng Foundation - in Sud Sudan, nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
È proprio grazie al lascito sportivo e morale di Manute Bol che, appena ottenuta l’indipendenza nel 2011, un gruppo di ex cestisti sudanesi hanno formato autonomamente la South Sudan Basketball Federation, inaugurando la nuova nazionale con una vittoria sull’Uganda appena due giorni dopo la nascita formale del Sud Sudan. Da quel momento, Deng e compagni hanno lavorato giorno e notte allo sviluppo di un campionato competitivo sia per uomini che per donne, nonostante le enormi difficoltà.
«Trovare finanziamenti, restare in contatto con giocatori sparsi in tutto il mondo e le rigorose procedure burocratiche sono state tra le sfide più difficili, sia per le società che per la nazionale» racconta Simon Mayen Malok - uno dei primi giocatori a spendersi per la creazione di una lega e di una rappresentativa nazionale - in un’intervista a BBC. Il suo collega Acuil Malith, che rinunciò al basket per unirsi all’esercito del SPLM negli anni Ottanta, ha fatto di tutto per riuscire ad ottenere il via libera per qualificazioni ad AfroBasket in Egitto, di cui Malok ricorda innanzitutto la commozione nel vedere per la prima volta migliaia di fan cantare l'inno nazionale del paese.
«Come figlio di uno dei tanti liberatori, molti dei quali sono morti per l'indipendenza, è stato un momento molto emozionante. Mi sono detto che questo è ciò per cui sono morti. È una sensazione incredibile per il paese. Noi della vecchia guardia stiamo realizzando il nostro sognom, i giovani sono motivati dall'orgoglio dopo essere stati emarginati. Alcuni sono stati rifugiati e stranieri per tutta la vita, ora si trovano a condividere il parquet con i migliori giocatori al mondo. Poi è una bellissima sensazione leggere notizie sul Sud Sudan nei media mainstream che non parlino della guerra. Il successo di questa squadra sta mostrando un nuovo lato del Sud Sudan al mondo e al contempo motivando le persone sud-sudanesi ad essere più coinvolte nello sport. Oggi abbiamo accademie locali un po’ ovunque, piene di ragazzi ogni santo giorno»
Quello del Sud Sudan, al contrario di quello che si potrebbe pensare, non è quindi un exploit dovuto al caso o a un’annata di overperformance, ma uno straordinario progetto a lungo termine sviluppato da ex superstar mondiali, giocatori a cui la guerra ha negato lo sport e ragazzi rifugiati sparsi in ogni angolo del globo. Un esempio di tenacia, perseveranza e resilienza che solo lo sport riesce a offrire. Questa FIBA World Cup, poi, può sembrare un traguardo, ma è soltanto il primo passo per una nazionale che ambisce con ragione a diventare la migliore del proprio continente.
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