Valentín Barco, falso dieci
Il giovane argentino vuole riportare la Libertadores al Boca.
Nell’estate 2004 Juan Román Riquelme ha vinto un trofeo. Lo so, per un giocatore del suo livello e con il suo palmares un titolo in più non dovrebbe fare notizia, ma la Coppa Intertoto vinta dal Villarreal ha un sapore che il diez argentino non aveva mai associato alla vittoria, ovvero sia il gusto agrodolce del riscatto. Riquelme arrivava da due stagioni complesse con il Barcellona. Il diez era stato voluto fortemente dal presidente Gaspart, disposto a fare di tutto per assicurarselo per soddisfare un capriccio personale e per riempire nuovamente la maglia numero 10, rimasta orfana di Rivaldo finito al Milan. Sin dal suo arrivo nella città catalana, però, Riquelme capisce che se al Boca era stato l’idolo e il simbolo nella sua nuova squadra la musica sarebbe cambiata molto in fretta. Accolto da circa 500 tifosi all’aeroporto e scortato alla clinica per le visite mediche come il grande colpo dell’estate blaugrana Riquelme vive le prime ore catalane su una nuvola, convinto di poter replicare al Camp Nou quanto fatto alla Bombonera; basta il primo colloquio con Van Gaal per riportare l’argentino sulla terra. Riquelme viene accompagnato fino all’ufficio dell’allenatore olandese dove, sulla scrivania, sono riversati centinaia di VHS. “Questi video sono tutti suoi (Van Gaal ha sempre preferito la formalità coi suoi giocatori, nda). Lei è il miglior giocatore del mondo quando ha la palla tra i piedi ma quando non ce l’ha giochiamo uno in meno”. La nuvola si era sciolta dopo la corrente di parole di Van Gaal e Riquelme era stato catapultato di nuovo sulla terra.
L’equivoco alla base del rapporto Riquelme-Van Gaal era di natura concettuale ancora prima che tecnico: l’allenatore aveva espressamente richiesto un esterno sinistro – indicando Kily Gonzalez del Valencia come nome preferito – ma il presidente, vittima dello stesso sortilegio che aveva rapito Moratti qualche anno prima aveva portato un giocatore totalmente diverso che per di più contrastava con la visione generale dell’allenatore solo per soddisfare un capriccio personale. Non potendo avere un esterno sinistro Van Gaal decise, quindi, di far giocare Riquelme in quella posizione; così lontano dal centro del gioco, però, Riquelme vedeva depotenziate di parecchio le sue abilità di passatore e le letture che ne hanno contraddistinto la carriera e quindi, dopo poche partite, decise di fare di testa sua e di giocare come se fosse tornato alla Bombonera. Come raccontato in seguito dallo stesso giocatore nel ricordare il suo periodo catalano: “Non ce la facevo più a stare sulla fascia toccando tre palloni a partita e allora dopo due o tre partite ho deciso di tornare a fare quello che più mi piaceva: abbassarmi fino a centrocampo per ricevere più palloni possibili, in quell’occasione ho fatto due assist a Kluivert ed ero estasiato”. Purtroppo, questa bravata non sortì lo stesso effetto su Van Gaal che al primo allenamento utile non perse tempo per far capire a Riquelme come dovesse comportarsi in campo: "Tutti dicono che lei ha giocato un’ottima partita però io le ho detto che deve giocare sulla fascia sinistra”, facendo eco a queste parole nella stessa intervista citata poco sopra Riquelme ricordò come per lui fosse una tortura giocare così largo sulla fascia e come Van Gaal lo estromise quasi subito dal gruppo dei titolari.
Ciò che è mancato a Riquelme nella sua esperienza blaugrana, che non decollerà nemmeno con i sostituti di Van Gaal, Antic e Rijkaard, è la capacità di europeizzarsi, adattando al suo gioco a quello di un allenatore che veniva da un contesto completamente diverso dal suo. Riquelme era stato stratosferico al Boca, arrivando ad essere il miglior calciatore sudamericano di quel periodo, ma quel Riquelme non aveva ragione di esistere al Barcellona, che lo voleva ingabbiare in rigidi schemi e corse senza palla, togliendo tutta la poesia dal gioco dell’ultimo diez.
A questi fattori va aggiunto il fatto che Riquelme, ovviamente, era un giocatore extracomunitario e quindi la sua gestione avrebbe dovuto essere parecchio oculata per non sprecare un posto prezioso in una rosa in ricostruzione come quella del Barça. L’addio del giocatore, in un certo senso, era stato profetizzato dal suo arrivo, quando Riquelme aveva preso il posto di extracomunitario a Rivaldo. Sarà un giovane brasiliano di ventitré anni appena acquistato dal PSG a portargli via il posto, Ronaldinho.
Fatte queste premesse non è difficile capire come l’esperienza al Villarreal sia per Riquelme una chance di riscatto. Ancor di più a partire dalla stagione 2004/2005 quando la società valenciana decide di investire massicciamente per consegnare al neoallenatore Manuel Pellegrini una delle miglior versioni mai pensate del submarino amarillo. Nella sola sessione estiva arrivano Forlán, Sorín e Gonzalo Rodríguez per poco meno di dieci milioni di euro e Santi Cazorla viene promosso in prima squadra per dare profondità ad un centrocampo ricchissimo e molto ben assortito composto da Sebastián Battaglia, Marcos Senna e – appunto – Riquelme. La stagione 2004/2005 è un successo senza precedenti nella storia del Villarreal, che si classifica terza dietro solo a Real Madrid e Barcellona. Va ancora meglio l’anno successivo quando il Villarreal arriva fino alla semifinale di Champions League eliminando, fra le altre, Manchester United e Inter.
Il Villarreal arriva alla semifinale contro l’Arsenal convinto di poter fare l’impresa e, nonostante l’1-0 rimediato a Londra, il sogno dura almeno fino all’ottantasettesimo della partita di ritorno, quando Clichy frana addosso a Josè Marí e l’arbitro concede il calcio di rigore. Quando il Madrigal si rende conto di chi sarà l’esecutore sembra già prepararsi per i supplementari; infatti, Riquelme sta sistemando il pallone per calciare. L’atteggiamento del diez, però, non sembra dei più convinti, il bacio che da al pallone prima di appoggiarlo sul dischetto sembra quasi un tentativo di esorcizzare qualcosa, di entrare in comunione con quell’oggetto inanimato che però può regalagli la gloria eterna dimenticandosi di tutto il resto; anni dopo, quando gli chiederanno del perché dei suoi tanti baci alla palla dirà: “Perché ogni giorno la trattiamo peggio”, ma in quell’occasione quel bacio sembra più un motivo per cercare di spingere in porta il pallone con qualcosa di più che con un semplice tiro, un modo per imprimere un super potere sul tessuto bianco e rosso della sfera.
Anche la rincorsa è strana, Riquelme non conta i passi guardando Lehmann ma dandogli le spalle, come a ricordagli chi sta per calciare, mostrandogli il nome sulla schiena; mentre aspetta il fischio dell’arbitro Riquelme non guarda mai il portiere, cerca quasi di dimenticarsi dove si trovi guardando un punto intermedio fra il dischetto e la linea di porta, che tanto un pezzo d’erba è uguale a Villarreal come in Argentina. Quando il pallone si stacca dalle sue Predator bianco-nere-oro il diez sa già che Lehmann ha intuito la traiettoria e non appena rialza lo sguardo lo vede respingere il pallone con le due mani, lontano, quasi a volergli far percorrere i diecimila km che lo dividono da Buenos Aires con una parata.
Adesso immaginiamo che la strana parabola creata da Lehmann muoia lentamente nelle mani di un ragazzo che all’epoca della semifinale di Champions non aveva nemmeno tre anni. Lo stadio, neanche a farlo apposta, stracolmo di gialloblù, sta aspettando di incornare un nuovo idolo in un posto dove i calciatori ci mettono novanta minuti per convertirsi in divinità da adorare o in nomi da cancellare dalla memoria per sempre. Anche in questa occasione il ragazzino non guarda mai il portiere ma questa volta non ha lo sguardo basso, guarda a cosa c’è dietro alla porta: un muro di occhi in attesa che Valentín faccia quello per cui sembra nato, decidere le partite di calcio. Anche il ragazzo bacia il pallone quasi come per offrirlo in sacrificio al popolo genovese, quasi come un pegno per l’immortalità calcistica, per la gloria fra la gente che di idoli ne ha incoronati tanti celebrandoli come divinità. Quando tira su gli occhi per uno sguardo al portiere il pallone sta lasciando le sue predator - questa volta nere-arancio - spegnendosi piano piano alla destra del portiere, che si era accasciato sull’altro lato. Mentre il muro è diventato una valanga il ragazzo non si scompone, batte la mano sull’escudo, alza le braccia al cielo e si lascia travolgere dai suoi compagni di squadra.
Il nome di Valentín Barco, che, come avrete capito, è il ragazzo che ha calciato il rigore, ha iniziato a circolare sulla bocca degli appassionati di calcio argentino circa due anni fa, quando l’allora allenatore del Boca, Miguel Ángel Russo, ha fatto debuttare il Colorado in Primera División (Superliga Argentina formalmente, nda) contro l’Unión Santa Fe. Barco ha commentato così il suo debutto in Primera “Miguel è una grande persona, mi ha comunicato che avrei giocato poco prima di lasciare l’hotel, forse per non mettermi troppo pressione, e tutti i miei compagni sono stati fantastici, mi hanno accolto benissimo dal primo giorno che sono arrivato in prima squadra." Nel fare una dedica non si è ovviamente dimenticato della famiglia: “Questo è per tutti quelli che mi hanno supportato fin dal primo giorno, che hanno fatto sacrifici [la famiglia di Barco è originaria di una cittadina a 400km da Buenos Aires e lui percorreva questa distanza andata e ritorno quattro volte a settimana, nda] per aiutarmi a realizzare il mio sogno”.
Questa prima partita non è, però, il primo passo di una salita vertiginosa verso l’olimpo xeneize, bensì il punto di partenza di una crescita costante, maturata grazie anche alla pazienza di Barco e alla lungimiranza dei suoi allenatori. Prima di rivedere Barco con continuità in prima squadra, infatti, dobbiamo attendere l’aprile di quest’anno, quando, il neoallenatore del Boca, Jorge Almirón, decide di aggregare il colorado in stabilmente in prima squadra. Ma c’è di più, l’idea dell’ex allenatore dell'Elche è quella di trasformare Barco nell’architetto della squadra.
Sin dai suoi primi passi nelle inferiori del Boca, Barco ha dimostrato ottime qualità di lettura quando si trattava di impostare l’azione, caratteristica anomala per un terzino classico ma sempre più richiesta nel calcio moderno dove le posizioni canoniche stanno scomparendo. Come sostenuto da Martí Perarnau nel suo libro Herr Pep, il calcio moderno, ispirato da Guardiola, è caratterizzato dalla spasmodica volontà di occupare il centro del campo e per fare ciò sono fondamentali i terzini, che si trasformano in centrocampisti aggiunti per creare una fitta rete di passaggi e impedire la ripartenza una volta persa palla. Barco sembra cresciuto con questi principi tattici in testa; guardandolo giocare lo si vede sempre rivolto con il corpo verso il centro del campo, alla ricerca costante di un compagno con il quale chiudere un uno-due.
La capacità di Barco nel destreggiarsi in spazi stretti e nel conservare il pallone è sublimata dalla fantastica tecnica individuale di cui è dotato, su YouTube è pieno di video compilation dove lo si vede ogni volta provare un modo nuovo per dribblare: dopo una finta di corpo, con una veronica, un sombrero o spostandosi la palla con la suola. Ciò che più sorprende è che queste giocate – molto spesso – vengono effettuate per il puro piacere estetico del gesto. Prendiamo per esempio il no look nell’ultima partita con il Nacional, non c’era alcun bisogno di passare il pallone in quel modo – e gli avversari glielo hanno fatto capire – ma per Barco quello era l’unico modo lecito di fare quella giocata. Stesso discorso vale per i tocchi con la suola. Torniamo alla partita con il Nacional. La giocata che fa Barco sul gol di Merentiel è assolutamente innecessaria – seppur bellissima – perché dribblare con la suola un avversario già fuori tempo e per di più in una zona critica del campo? Perché non conta solo il risultato finale della giocata ma anche la bellezza che quest’ultima può generare, meglio un caño interrotto da un fallo killer dell’avversario che un volgare dribbling che si conclude con un gol o con un assist.
Barco in campo è – già – il referente del Boca, calamitando su di sé una mole di palloni inconsueta per un terzino. Però va ricordato che Barco non è un terzino in senso classico, è più un regista dirottato sulla fascia: un falso dieci. I traccianti che tira per pescare le sue punte, la capacità di puntare ed irridere l’avversario e l’immaginazione al momento di concretizzare una giocata non hanno nulla a che vedere con la porzione di campo che il Colorado occupa. Sembra quasi avere un rifiuto per i compiti del terzino prediligendo la fantasia del diez all’atletismo dell’esterno difensivo. Almirón questa cosa l’ha capita fin da subito e infatti gli ha consegnato la squadra, Barco è presente in ogni espettorazione della partita, ogni volta che il pallone è tra i piedi di uno xeneize il Colorado è lì, pronto a dettare il passaggio o a condurre l’azione in prima persona con tocchi di suola e finte che fanno ammattire chiunque provi a stargli dietro.
Per una hinchada che vive di passioni ed idoli come quella del Boca trovare un giocatore così in questo momento è stato come riavvolgere il nastro a cavallo degli anni novanta quando la 12 impazziva per la dupla Riquelme-Palermo, capace di conquistare insieme due Coppe Libertadores. A Barco, designato ad essere nuovo idolo della 12, viene chiesta sostanzialmente la stessa cosa, ha le capacità per farlo ed è il suo momento, lo sa, lo sanno.
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