Gianmarco Tamberi ha fatto la storia dell'atletica
Con l'oro di Budapest, Tamberi ha dato ancora più luce a una carriera già straordinaria.
Ci abbiamo creduto tutti, non neghiamolo. Per una frazione di secondo, mentre Gianmarco Tamberi si accingeva a preparare la rincorsa all’ultimo tentativo a 2.40 – ancora ebbro dai festeggiamenti per la vittoria del titolo mondiale, l’unico che ancora mancava al suo già cospicuo medagliere – ci siamo illusi che ci avrebbe lasciato per l’ennesima volta a bocca aperta andando a valicare l’asticella che sarebbe valsa il miglioramento di un centimetro del già suo record italiano. Una cosa così oltre ciò che riteniamo impossibile, e allo stesso tempo così nelle corde dell’atleta che ci ha insegnato da anni che nulla lo è davvero.
Eppure no, Gimbo ha deciso di sorprenderci di nuovo. Passando sotto l’asticella, ha continuato la corsa sul materasso e poi di nuovo in pista per celebrare il titolo con un tuffo nell’acqua della “riviera” assieme a Soufiane El Bakkali ed Abraham Kibiwot, rispettivamente oro e bronzo della finale maschile dei 3000 siepi. La degna conclusione di tre giorni di passione, iniziati domenica mattina con la qualificazione acciuffata all’ultimo salto disponibile dopo svariati errori a 2.25 e 2.28, per arrivare a una finale iniziata sul piede sbagliato con un primo salto sbagliato a 2.25 e svoltata superando le tre misure successive, compreso il 2.36 che gli ha permesso di avere ragione del suo più quotato avversario, lo statunitense JuVaughn Harrison, al primo tentativo.
Quello di Tamberi è stato un percorso iniziato molto più lontano, con ben altre premesse, ma che ha permesso al trentunenne di Civitanova Marche di issarsi sull’ennesimo podio internazionale e consacrarsi come uno dei saltatori in alto più costanti e vincenti di ogni epoca.
Gianmarco Tamberi non è il classico predestinato, perlomeno non lo è stato nei suoi primi anni di carriera. La sua prima, vera passione è la pallacanestro, praticata con profitto fin da bambino per poi dedicarsi a tempo pieno all’atletica leggera a partire dalla stagione 2009. Nel giro di pochi mesi ottiene il minimo per prendere parte ai mondiali allievi in programma a Bressanone, prima rassegna iridata in cui veste la maglia azzurra: non basta il personale stabilito in qualificazione (2.07) a consentirgli di passare in finale, dove vincerà Dmitry Kroyter – promessa dell’atletica israeliana in grado di vincere tutto o quasi a livello giovanile, per poi arrendersi a una lunga serie di infortuni – davanti al danese Klausen e alla coppia di bronzo formata dal canadese Lovett e dal russo Tsyplakov. L’anno dopo, stesso identico copione ai mondiali juniores di Moncton (Canada): Tamberi è 21° in qualificazione, trionfa il qatarino Mutaz Essa Barshim che in finale trova un salto vincente da 2.30.
La prima svolta avviene nel 2011, ai campionati italiani juniores in programma sulla stessa pedana della Raiffeisen Arena di Bressanone. Sotto consiglio del padre e allenatore Marco (a sua volta ex primatista italiano indoor, finalista alle Olimpiadi di Mosca 1980, la cui carriera venne interrotta troppo presto da un incidente stradale) Tamberi si presenta in pedana con la barba rasata solo da un lato. Lo fa per stemperare la tensione dopo un paio di mesi difficili a causa di un infortunio alla caviglia: ne viene fuori il titolo italiano di categoria ed un record personale migliorato due volte fino a 2.25, misura replicata due mesi dopo a Tallinn per la sua prima medaglia internazionale (bronzo agli europei juniores dietro a Nikita Anishchenkov e al solito Klausen). La mezza barba, o “half shave”, diventa ufficialmente il suo portafortuna e marchio di fabbrica.
L’anno seguente arriva il debutto nella nazionale assoluta con la partecipazione alla Coppa Europa e un buon quinto posto agli europei di Helsinki (2.24), a cui segue un imponente 2.31 registrato sempre sulla magica pedana di Bressanone che gli vale il minimo per le Olimpiadi di Londra. Nei due anni seguenti, fra alti e bassi, si mantiene nell’élite dell’alto europeo con un quinto posto agli europei indoor di Göteborg 2013 (2.29) e un settimo a quelli outdoor di Zurigo 2014 (2.26).
Ė un momento estremamente positivo a livello mondiale per la disciplina, con un fermento ai vertici che non si vedeva quasi da due decenni: tra il 2013 e il 2015 ben cinque atleti (Bondarenko, Barshim, Drouin, Protsenko e Dmitrik) riescono a saltare oltre i 2.40, definendo ad ogni competizione un livello apparentemente fuori portata per il resto del mondo. Tamberi entra in una nuova dimensione e si unisce a questo parterre il 2 agosto 2015, quando a Eberstadt (Germania) porta a 2.37 il record italiano durante uno storico meeting interamente dedicato al salto in alto e caratterizzato dal rumoroso accompagnamento di pubblico e musica.
Ai mondiali di Pechino arriva al nono posto, disputando la prima finale mondiale a livello assoluto, e tutta l’Italia comincia ad accorgersi dell’estroso saltatore marchigiano e della sua mezza barba. Tamberi è un atleta che fa discutere, sia per i suoi comportamenti in pedana che per alcune improvvide dichiarazioni rilasciate a inizio 2016: appena nominato capitano della nazionale in affiancamento all’esperta Libania Grenot, Tamberi definisce pubblicamente “vergogna d’Italia” Alex Schwazer, che sta progettando il ritorno all’attività dopo quattro anni di squalifica per doping. L’opinione pubblica si divide fra chi vede con favore la sua capacità di trasformare ogni gara in uno spettacolo e chi lo considera uno sbruffone e un “perdente di successo”, spinto dai media come nuovo volto di richiamo per la federazione italiana in uno tra i periodi più bui della sua storia.
Ma Gimbo vola: agli europei di Amsterdam conquista la medaglia d’oro dopo una gara condotta da favorito con una grande dimostrazione di autorevolezza, bissando il successo ai mondiali indoor di Portland dove era invece arrivato come outsider. Al meeting Herculis di Montecarlo Tamberi ritocca il record italiano portandolo a 2.39 in quello che tuttora rimane il più bel salto della sua carriera, un segnale a tutti i suoi avversari in vista delle imminenti Olimpiadi di Rio de Janeiro. Ma non si accontenta: prova i 2.41, misura che varrebbe la miglior prestazione dell’anno, e sul secondo tentativo la gamba di stacco cede vistosamente.
La diagnosi non lascia scampo: lesione del legamento deltoideo della caviglia sinistra, un infortunio che richiede lunghi tempi di recupero e soprattutto rischia di minare interamente la sua carriera. A Rio, Gianmarco va solo da accompagnatore – impossibilitato a gareggiare tanto quanto Schwazer, contro il cui ritorno si era schierato pubblicamente e che nel frattempo è stato nuovamente fermato dall’agenzia mondiale antidoping per una seconda positività sospetta e altamente contestata negli anni a venire. C’è chi tira in ballo il karma, chi stigmatizza l’ennesima spacconata dell’aver voluto a tutti i costi cercare la grande prestazione in una gara essenzialmente già vinta – ma è proprio nella difficoltà e della rinuncia a un appuntamento sognato e curato per anni che Gianmarco mette le basi per tornare in gara più forte, con la consapevolezza e il killer instinct che lo definirà in tutta la sua “seconda vita” sportiva.
Le prime stagioni dopo l’infortunio parlano di assestamento e di qualche delusione (fuori in qualificazione ai mondiali di Londra, ottavo a quelli di Doha) bilanciata dal successo agli europei indoor di Glasgow ad inizio 2019 con un dignitoso 2.32, il suo secondo miglior salto dal ritorno alle competizioni. La pandemia rinvia di un anno ulteriore l’appuntamento con le Olimpiadi giapponesi, a cui Gianmarco arriva sull’onda di prestazioni incoraggianti (2.35 saltati due volte al coperto, 2.33 all’aperto) ma decisamente lontano dai favori del pronostico.
A Tokyo, Gimbo si inventa la gara della vita, facendo sfoggio di una maturità e un agonismo fuori dal comune: da 2.19 in su ogni misura è superata al primo tentativo, mentre i principali avversari accumulano errori alle misure inferiori destinati poi a pesare nel conteggio necessario a dirimere i piazzamenti di vertice. L’unico atleta in grado di contrastarlo si rivela proprio Mutaz Essa Barshim, grande amico e rivale fin dalle categorie giovanili – a sua volta tornato a competere dopo un grave infortunio patito nel 2018, molto simile a quello di Tamberi due anni prima – con il quale resta appaiato anche dopo l’esaurirsi dei tentativi potenziali alla quota di 2.39 con tre errori a testa. La decisione di condividere la medaglia d’oro invece di procedere a un ulteriore salto di spareggio, come l’iconica domanda “Can we have two golds?” di Barshim al giudice di pedana che si informa su come procedere, fa in breve tempo il giro del mondo e viene salutata come uno dei momenti più memorabili dell’intera storia dei Giochi.
La vittoria del titolo olimpico completa un inseguimento durato cinque anni, restituendo allo sport italiano un Tamberi immensamente cresciuto in termini fisici, mentali, psicologici e comunicativi. Stupisce sempre più la sua tenuta mentale, che lo porta a raddrizzare con un solo salto qualificazioni iniziate male o malissimo – sia ai mondiali di Eugene che a quelli di Budapest è protagonista assoluto dopo aver centrato la finale all’ultimo salto disponibile, nel primo caso salvandosi addirittura due volte al terzo tentativo – ma anche a scendere in pedana “in missione” e con il chiaro obiettivo della vittoria sempre in mente, anche in condizioni di forma non eccellenti o in circostanze che farebbero presagire il contrario, come nella vittoria alle finali di Diamond League di Zurigo 2022, arrivata con il record stagionale di 2.34 appena pochi giorni dopo il matrimonio con la storica fidanzata Chiara Bonfanti.
L’esuberanza e l’atteggiamento in gara, inizialmente bollati come fonti di distrazione, si sono rivelate l’arma vincente di un campione che trova le sue energie nel contatto col pubblico: gli appassionati di atletica di tutto il mondo lo hanno adottato e reso una delle figure più emblematiche e conosciute del movimento, con un trasporto oggettivamente mai visto per un atleta italiano. La grandezza di Gianmarco sta anche in questo saper portare in scena una genialità allegra e contagiosa che rappresenta a pieno titolo l’Italia e la sua storia, uno show sempre diverso e improvvisato sul momento di cui nessuno sembra avere mai abbastanza – specie in un’atletica che soffre da anni un’affannosa ricerca di “personaggi” da promuovere mediaticamente dopo il ritiro di Usain Bolt – e che non manca mai di coinvolgere chiunque si trovi ad assistere a una gara con lui in pedana.
Ma la forza più grande di Gimbo resta il riuscire a far ricredere, con ogni prodezza ed ogni traguardo raggiunto, la sempre numerosa schiera dei suoi detrattori. Un atleta che è visibilmente maturato in ogni aspetto della sua carriera, capace di dire la parola giusta al momento giusto e soprattutto di ispirare un intero movimento che sotto la sua “guida” sta vivendo una nuova stagione di competitività dopo tante annate disastrose. Un vero e proprio leader per lo sport italiano, pronto a condurlo metaforicamente verso le imminenti Olimpiadi di Parigi che saranno banco di prova e di riconferma dopo i fasti di Tokyo 2020. Magari, chissà, con l’obiettivo di farci sognare ancora.
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