Considerazioni sparse su "Gianni Minà, cercatore di storie"
Con il caldo torrido di questi giorni, nella penombra di una stanza altrimenti inondata di sole, prendetevi un caffè con ghiaccio con Minà e lasciategli raccontare il mondo attraverso lo sport.
- Benché post mortem, la Rai, sul proprio canale digitale, una volta a settimana propone un collage di circa 25' di servizi giornalistici di Gianni Minà su specifici personaggi o tematiche. Il collante è, ovviamente, lo sport, una lente con cui il giornalista sabaudo ha voluto indagare costumi, politica e società. Le personalità che gli si parano davanti sono veri e propri giganti, hanno auree che avrebbero rischiato di rendere chiunque gli si parasse dinanzi uno qualunque, facendo scadere tutto nella banalità dovuta alla riverenza. Il buon Minà, invece, seppur con rispetto ed educazione, riusciva a entrare sentimentalmente negli animi dei suoi interlocutori tanto che gli stessi lo vedevano come unica possibile controparte con cui aprirsi anche in momenti non del tutto consoni (a bordo campo, negli spogliatoi, in una pausa tra un set e l'altro);
- Erano anni complessi, quelli in cui Minà si muoveva come inviato. L'Italia era un paese pur sempre sul confine tra i due blocchi e chi lavorava per l'emittente di stato, ora come allora fondata e gestita su equilibri politici, doveva danzare come una farfalla e pungere come un'ape se voleva preservarsi il posto di lavoro. Così è come il baffuto piemontese si destreggiava quando intervistava Alì o Diego o Juantorena o Castro, a margine di un incontro di boxe, o Agnelli nel cuore pulsante del capitalismo italiano. Erano note le sue posizioni politiche soprattutto perché non le ha mai nascoste o malcelate. Eppure la capacità narrativa è talmente raffinata che nemmeno dalla commissione parlamentare gli si poteva muovere critica. Ciò emerge da ogni singola puntata. Minà era rispettato da chiunque si trovasse davanti al suo microfono: questa era la sua forza più grande;
- Il modo di vivere lo sport, come esso stesso, è radicalmente mutato. Minà stesso lo ammetteva, nell'ultimo periodo, e non faceva mistero di quanto tutto ciò lo disgustasse. La enorme e palese differenza che balza subito all'occhio di chi guarda questi racconti è la gestione dell'atleta di turno. Non esistono barriere fatte di addetti stampa, social media manager, procuratori, agenzie etc che, di fatto, impediscono il racconto in presa diretta. Eppure non si parla di personaggi minori o atleti di c.d. sport meno remunerativi. Platini è intervistato con l'accappatoio, Panatta tra un set e l'altro, Maradona nel tunnel dello stadio, Castro nel corridoio di un palazzetto e addirittura riesce a intervistare De Niro e Leone appena terminate le riprese di "C'era una volta in America" nel teatro di posa - circostanza di una rarità incredibile e che solo a lui poteva essere permesso. Il risultato è un racconto diretto ed emozionale. Lo sportivo parla a mente calda, quando la stanchezza gli fa calare ogni barriera diplomatica e gli permette di esternare il sentimento in quel momento preponderante: rabbia, delusione, frustrazione, gioia. L'idolo ritorna a essere umano, con ogni sua sfaccettatura di debolezza. Questo non lo svaluta o lo sminuisce ma, di contro, ma ci permette di viverlo appieno;
- Le domande che Minà prepara di primo acchito paiono semplici, immediate. Semplicemente, invece, sono pensate per lasciare a chi gli si pone dinanzi la possibilità di potersi esprimere nella maniera che più gli andasse bene. Questo mette a proprio agio chi deve rispondere perché gli lascia spazio per potersi esprimere nel modo che preferisce. Spesso gli ospiti, nelle sue introduzioni, lo correggono su alcune definizioni. Non perché Minà non avesse centrato il personaggio dinanzi ma, bensì, perché c'era la volontà di raccontarsi a tutto tondo e, specialmente, perché non erano concordate prima le domande. Basti notare i volti di chi viene intervistato per capirlo, soprattutto quelli non in presa diretta;
- Sarà banale e scontato, ma quella tipologia di narrativa nei circuiti mainstream è praticamente scomparsa. Lo sport è diventato storytelling romanzato e teatrale, molta retorica, ricostruzione personale degli accadimenti. Non più un confronto diretto con i protagonisti o un viaggio nei luoghi da cui raccontarlo dal vivo. Tutto è divenuto post produzione. Per questo manca Minà, perché con lui se ne è andato una via narrativa di cui, forse, era l'ultimo viandante.
Ciao Francis
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