No, Djokovic non ha abdicato
La sconfitta a Wimbledon, per paradosso, ci ha ricordato la sua unicità.
«La gente ha bisogno di un mostro in cui credere».
– Chuck Palahniuk, Cavie
Da una settimana chiunque scriva di tennis sta scavando fino a sondare il gergo di cui si nutre la narrazione di Wimbledon. Parole come "regno", "abdicazione", "salita al trono" riempiono gli articoli, le interviste ai professionisti, i libri sul tema. È la Torah del tennis, in fondo, questa sottile guerra psicologica: una dicotomia violenta tra campione e sconfitto, una reliquia intatta dei duelli cavallereschi medievali. La fotografia di questo discorso risiede nelle finali. Carlos Alcaraz ha vinto lo Slam più prestigioso del mondo, quello più conservatore e aristocratico. Novak Djokovic lo ha perso. Solo tre settimane prima Djokovic aveva vinto il 23esimo Slam contro Casper Ruud a Parigi, diventando il tennista più vincente di tutti i tempi. Un traguardo accolto freddamente, con riverenza. Nessuno lo aveva incoronato, nessuna corte si era radunata ai suoi piedi.
Allo stesso tempo, nel giorno della sua prima sconfitta sul centrale di Wimbledon dopo sette anni, tutti hanno iniziato a celebrarne la caduta sportiva. Un trentaseienne che perde al quinto set contro un ventenne come il corso naturale della storia; Alcaraz eretto a salvatore del tennis, il primo di una nuova stirpe di dominatori; Djokovic, invece, schiacciato dal tempo. È una visione francamente ingenerosa.
Fino alla finale, il torneo di Djokovic era stato ancora una volta eccezionale.
Il suo tennis mentale soggiogava gli avversari senza sforzo. Negli ottavi Hubert Hurcacz ha servito benissimo, chiudendo la partita con 33 aces e dando fondo a tutte le sue energie. Ha trascinato i primi due set al tiebreak, e poi nei punti clou non ha retto il confronto. A Djokovic non è servito neanche giocare un contrattacco: la sua pallina rimaneva in campo e tanto bastava per portare l'inerzia dalla sua parte. Hurcacz era attratto dall'errore. La forza oscura che nasconde i segreti delle vittorie di Djokovic era più forte che mai. Un solo match point vinto con la prima di servizio ha chiuso la partita, ricordandoci quanto la vittoria fosse una legge scritta nel patrimonio genetico di Nole. Una porzione del suo organismo: il sangue, le ossa, l'ossigeno.
Per tutta la carriera Novak Djokovic ha vinto senza mostrarci punti deboli. La grazia divina di Roger Federer tradiva in qualche modo la natura fragile della sua resistenza psichica; Rafael Nadal è stato un combattente valoroso, forse il tennista circondato dall'epica più letteraria, eppure il suo corpo non gli ha mai dato tregua. Djokovic sembrava venuto al mondo per distruggere il mito dell'umanità che soggiace allo sport. Un atleta capace di vincere per inerzia, grazie al solo terrore che il suo tennis spirituale incute negli avversari. Djokovic è innanzitutto questo: il tennista dell'anti-umano, quello che più di tutti ha tracimato il confine del possibile. Il suo tennis assomiglia a una emanazione di forza spirituale, di quella oscurità con cui doma ancora oggi gran parte dei suoi avversari. Djokovic come reincarnazione di Virgo, il cavaliere dello zodiaco che sprigionava tutto il suo potere tenendo gli occhi chiusi. Solo grazie alla propria anima.
È uno dei motivi per cui in fondo Djokovic viene ancora sottovalutato. Il modo in cui vince alcune partite, lavorando su sentieri psicologici – metafisici, se preferite – toglie materialità alla sua grandezza. Prendiamo il game decisivo con cui ha vinto il terzo set della partita contro Andrey Rublev, nei quarti di Wimbledon. In quella partita Djokovic era partito male, perdendo il primo set senza trasformare nessuna delle 3 palle break concesse dal russo. Aveva recuperato nel secondo: aveva strappato alla testa di serie n° 7 i primi due turni di battuta e si era portato rapidamente sullo 0-5. Nel terzo set la partita invece si fa equilibrata, il servizio di Rublev tiene a bada di Nole e si arriva sul 4-5 senza break.
Il rovescio di Rublev non è mai stato così ardente e inanella un punto spettacolare dietro l'altro. Sul primo 40 pari uncina un dritto di Djokovic a una spanna dall'erba e incrocia da metà campo con una finezza eccezionale. A un certo punto Djokovic non era il tennista più in forma in campo, e neanche quello più vicino a vincere il game più importante. Da quando è irrotto sul circuito, Djokovic è anche il tennista più lontano dalla sconfitta, però, un agglomerato di contrattacchi infernali e una concentrazione che finisce per diventare una sorta di meditazione. Un servizio vincente, un dritto sciatto finito a rete, un ace, un rovescio timido. Djokovic sbaglia tanto, ma non esce mai dalla partita.
Il game dura 15 minuti. Qualcuno lo considera l'acme della violenza di Djokovic: dopo aver convinto il russo di non essere in forma, rischiando di protrarre il terzo set a oltranza, chiude il punto con due dritti inavvicinabili. È anche questa, la forza di Djokovic, la capacità di sconfortare il tennista che ha di fronte facendolo sentire tremendamente fragile, come un pesce rosso finito in uno stagno di alligatori. «Ti mette molta pressione. È sempre lì. Ti senti come se appena facessi un piccolo errore, lui sarebbe lì, mentre in altre partite, contro altri avversari, potresti farla franca» ha detto Dennis Shapovalov, che nel 2021 ha perso contro Djokovic la semifinale di Wimbledon.
È una strategia che in finale non ha funzionato contro Alcaraz. Djokovic ha pagato gli errori gratuiti, qualche rovescio impreciso, e soprattutto la diagonale del dritto, il singolo particolare tecnico attraverso cui Alcaraz sta sbranando tutti. È un'informazione nuova, una rivoluzione copernicana per il mondo del tennis contemporaneo: finalmente possiamo dire che c'è un avversario contro cui Djokovic non riesce a dominare fino in fondo, fino a farlo sentire piccolo e indifeso. Alcaraz ha vinto i punti importanti della partita e ha lasciato Nole sgomento, come se la legge immutabile della vittoria fosse variata impercettibilmente. Come se d'un tratto la sua unicità, l'abilità di flirtare con il successo senza forzare il destino, si fosse vanificata.
Ovviamente non è andata solo così: c'entra qualche imprecisione di Djokovic, ma la vittoria di Alcaraz è arrivata dopo cinque ore di tennis fenomenale. Un gioco così colmo di variazioni – spettacolare nel senso federeriano del termine, e cioè eseguito con un'eleganza spontanea – da spezzare la migliore difesa del mondo. Dopo un primo set vissuto in apnea, trascorso come pura formalità, Carlos Alcaraz ha messo i denti sul collo della preda e non li ha più staccati. È così che deve essersi sentito Djokovic: continuamente asfissiato da un giocatore offensivo ma senza punti deboli da punire, capace di vincere battagliando da fondo e a rete, attaccando con il dritto o difendendosi all'estremo. Un attaccante micidiale nei dropshot e aggraziato come Federer, ma senza fragilità mentali nel corso della partita.
Eppure anche in questa nuova era apertasi il 16 luglio – l'era di Carlos Alcaraz, come l'ha definita Matteo Petrera su Sportellate – c'è qualche elemento da contestualizzare.
Partiamo dal primo, quello più evidente: la vittoria di Alcaraz è già un pezzo di storia, anche perché è la prima vittoria a Wimbledon di un tennista che non appartiene ai Fab 4 dal 2003. "Qualcuno nell'ultimo anno ha detto che nel suo gioco ci sono alcuni elementi di Roger, di Rafa e di me stesso" ha commentato Djokovic su Alcaraz. "Sono d'accordo. Anzi, dico che Carlos riassume il meglio di noi tre". Il riconoscimento della grandezza dell'avversario era stato evidente anche in partita, quando Nole aveva spaccato la racchetta contro il paletto della rete dopo il break nel quinto.
Forse è stato quello il momento di consapevolezza dell'umanità da parte di Djokovic. Eppure poche settimane prima, al Roland Garros, le cose erano andate diversamente. Djokovic e Alcaraz si erano trovati di fronte in semifinale, e dopo un paio di set in cui il duello aveva rispettato le attese che nutrivamo, le gambe dello spagnolo iniziano a irrigidirsi. Nel terzo set Alcaraz sembra somatizzare lo stress di ritrovarsi lì, a combattere contro un avversario che non dà segnali di cedimento, e finisce per soffrire di crampi. «Ho accusato la tensione di giocare contro una leggenda come lui» ha detto Carlitos. «Non avevo mai provato niente del genere».
È raro sentire parlare un campione Slam con questa riverenza di un altro campione Slam. Certo, Alcaraz ha sedici anni e ventuno titoli in meno di Djokovic, eppure il suo atto di subordinazione mentale dovrebbe spingerci a riflettere. I numeri e le vittorie non sono l'unica fonte possibile verità, e anche se il nostro mondo si avvicina sempre più a una visione distorta di Black Mirror, è una lezione che abbiamo imparato. Eppure in uno sport individuale e figlio di una ripetitività nauseante come il tennis, assumono proporzioni diverse. Alcaraz dovrà vincere almeno venti Slam per convincerci di essere della stessa genealogia di Federer, Djokovic e Nadal?
Probabilmente no, perché ha già convinto quasi tutti. D'altro canto, i traguardi gargantueschi raggiunti dai Big Three non possono farci dimenticare il loro impatto rivoluzionario sullo sport, sulla cultura di massa, sulla nostra stessa percezione di successo o fallimento. Non possiamo sapere se Djokovic continuerà a vincere o si fermerà di fronte al tunnel della senilità che Alcaraz ha scavato dentro di lui. Ha davvero importanza? Forse prima di arrivare a parlare in termini afflittivi di questo Wimbledon, dovremmo ricordarci di quanti tennisti sono stati in grado di ergersi così in alto all'età di Nole.
Il secondo fatto che vorrei trattare qui è il presunto discorso intergenerazionale. È una base narrativa banale ma di successo: descrivere la vittoria di un 20enne come l'inizio di qualcosa di nuovo e contemporaneamente la caduta definitiva dello status quo, di un mondo che non esiste più. Sic transit gloria mundi. Nella storia del tennis non è difficile trovare eventi simili, come la vittoria di Federer contro Pete Sampras a Wimbledon nel 2001. Un passaggio di consegne, la leggenda che si inchina di fronte alla storia in compimento, come in un libro di Hegel.
In questo caso, però, è il presupposto stesso di intergenerazionalità a mancare. Se è vero che Alcaraz ha sbranato le impercettibili vulnerabilità di Djokovic - aprendo uno squarcio dove altri non avrebbero scorto neanche un cunicolo - rimane ancora oggi l'unico tennista della nuova generazione a raggiungere picchi simili. Anche un Djokovic decadente, dal gioco pieno di sbavature a cui non ci aveva abituato, riesce a battere senza affanni Jannik Sinner o Stefanos Tsitsipas, per non parlare di Holger Rune. Possiamo davvero parlare di abdicazione se il peggior piazzamento per Djokovic significa essere numero due del mondo?
Un ottimo esempio di quello che sto dicendo è offerto dalla semifinale di Wimbledon, vinta da Djokovic in tre set contro Sinner. L'ennesima vittoria in cui Djokovic ha ammantato il suo tennis di una visione cupa e antagonista, e non solo perché ha provocato il pubblico che lo fischiava. Certo, mimare ai propri presunti sudditi il gesto delle lacrime per prenderli per il culo dopo aver salvato due palle break non deve essere proprio un atto di fine diplomazia, ma è stato tutto il resto della partita partita ad aver incusso violenza negli spettatori. L'efferatezza, cioè, di un match che non è mai nato.
Sinner partiva sfavorito, è indubbio, ma nei quarti dell'anno scorso aveva vinto i primi due set contro Djokovic, illudendoci persino di poter vincere. In quell'occasione Nole aveva faticato a reggere l'intensità di Sinner, e aveva vinto solo elevando i suoi colpi più in alto possibile. È celebre la sua esultanza mentre è sdraiato a terra e spiega le braccia in un volo metafisico, dopo aver contrattaccato un vincente che chiunque altro avrebbe guardato finire a fondo. Dopo un anno era lecito aspettarsi uno spettacolo simile, o quantomeno una resistenza decisa da parte di uno dei migliori giovani del circuito, Sinner appunto, contro un imperatore dominante ma sempre più vecchio.
La partita invece non è mai iniziata. Per tutto il torneo ci interrogavamo sui progressi di Jannik Sinner, sul servizio eseguito con un lancio di palla più basso eppure più efficace, ma non è servito a niente. Il peso che l'italiano sentiva sulle spalle per la sua prima semifinale Slam era chiaro a tutti, e anche se Djokovic non era in grande forma, non ha fatto altro che accentuare quel senso di inadeguatezza di Sinner, la sua sindrome dell'impostore. I discorsi tattici o gli incastri puramente tecnici – Sinner deve giocare più volte a rete, variare i tagli dei suoi colpi, e tutte le cose che ci ripetiamo – sono relativi.
La grandezza che Novak Djokovic ci ha mostrato in tutti questi anni è ferma come un ritratto impressionista in partite simili. No, Djokovic non ha abdicato alla conquista vitale e armoniosa di Alcaraz: ha semplicemente perso una finale in bilico fino all'ultimo set. È una narrazione che non vende, lo so. Non è quello che la cultura pop esige dagli scrittori sportivi: l'epica incessante, continua, inumana. Questa volta però non possiamo mischiare i discorsi.
Tutto ciò mi porta al terzo e ultimo elemento che vorrei contestualizzare, e cioè la nostra percezione di Djokovic come dominatore del tennis mondiale sì-ma-non-quello-vero. Dal 2011, l'anno del treble con cui è partita la sua affermazione, intorno alla figura di Djoker si sprecano giustificazioni balzane, ormai diventate noiose. Come ha scrittto Emanuele Atturo su Ultimo Uomo, il nostro bias nei suoi confronti è arrivato a una ridicolezza tale che uno dei più importanti giornali del mondo, il Guardian, il giorno dopo la vittoria di Djokovic al Roland Garros, ha titolato: «Per favore, non chiamatelo GOAT».
Djokovic non è mai stato inglobato nella narrazione regale del tennis. Lo abbiamo accolto come l'intruso, il villain della Marvel che ha polverizzato il Fedal. Le sue continue vittorie contro Federer, soprattutto quelle arrivate a Wimbledon, sembravano un'usurpazione immorale. Accusavamo Djokovic del suo talento per la vittoria, del suo continuo perfezionamento mentale, delle sue risposte al pubblico. Quanto è sbagliato tutto questo, quanto è ingiusto, pensavamo. Gliene facevamo una colpa: come poteva un essere umano giocare a tennis meglio di un semi dio?
Nel 2019 questi discorsi hanno raggiunto l'acme. Qualcuno ha smesso persino di guardare il tennis, altri hanno rinunciato a cercare una giustizia etica – e quindi estetica – nell'esistenza umana. Il tutto si svolgeva dietro le quinte, mentre sul proscenio a Londra Djokovic mangiava un pezzo d'erba di Wimbledon, pochi secondi dopo l'eco della steccata di Federer. Non è cambiato molto da allora. Raramente qualcuno tifa per Nole, e lui continua a gonfiarsi di questo odio incessante, a sentirsi vivo nei fischi. È un paradosso, no? Il tennista più vincente di sempre, quello che più di qualsiasi altro ci ha dato prova della sua grandezza, ricoperto d'amore solo nel momento in cui perde.
Abbiamo trascorso così tanto tempo, negli ultimi vent'anni, a chiederci quanto sarebbe durata quest'epoca sfarzosa, in cui i Big Three hanno inspessito le loro reciproche rivalità, che non accettiamo ne sia rimasto uno solo. E invece, nonostante la sconfitta in finale a Wimbledon sia stato il battesimo di un altro pretendente al trono del tennis – se preferite: l'avvento di Carlos I –, Novak Djokovic è ancora il numero due del mondo. La sua aura, da sola, riesce a piegare quasi tutti i tennisti del mondo. Vincerà altri Slam, magari, ricordandoci quanto sia stato in grado di distruggere ogni limite temporale. Non sarà mai ammantato di epica o di bellezza, né forse sarà mai ricoperto d'amore, ma anche Djokovic ci ha insegnato qualcosa su noi stessi e sulla nostra caducità. Smettiamola di trattarlo come se fosse uno dei tanti: è immorale, ingiusto, patetico.
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