È iniziata l'era di Carlos Alcaraz
La vittoria su Djokovic ha avuto il senso di una legittimazione.
Novak Djokovic guarda il suo angolo con il respiro affannato e le mani sui fianchi. Dai suoi occhi sbarrati traspare incredulità mista a preoccupazione. Sono trascorse quattro ore e nove minuti da quando ha servito la prima palla della partita. Soprattutto, sono passati quattro set della finale di Wimbledon. Djokovic è arrivato fin qui risorgendo dalle sue ceneri, come aveva fatto in carriera altre mille volte. Il 6-1 del terzo set sembrava per tutti l'inizio di un triste destino. Nonostante ci avesse abituato a rimonte tanto spettacolari quanto crudeli per i suoi avversari, il livello tenuto da Alcaraz non lasciava spazio ad alcuna resurrezione. E invece, ancora una volta, ci sbagliavamo.
Il quarto set è stato vinto nel silenzio, con un doppio fallo di Alcaraz e un Djokovic che non esulta. A quel punto le nostre aspettative sono cambiate drasticamente. Il copione sembrava chiaro: il solito Djokovic che gliela fa credere fino all'ultimo e poi lo stronca. L'inizio del quinto set ci dà un'ulteriore conferma, con una palla break nel primo game al servizio di Alcaraz.
È questo il momento degli occhi sbarrati e le mani sui fianchi. Dopo uno scambio fuori da ogni logica, Djokovic incrocia di rovescio, Alcaraz recupera in extremis e il serbo gioca un dritto lungolinea in contropiede. Altro recupero, palla altissima e tutta la pressione su Djokovic, dal quale ci si attende lo smash che varrebbe il break. Il serbo invece si scompone. Gioca un colpo a metà tra uno smash e uno schiaffo al volo e la palla si ferma poco sotto al nastro. È l'ennesima volta che Alcaraz gli fa giocare un colpo in più, dopo quattro ore e nove minuti e dopo quattro set nella finale di Wimbledon.
Djokovic è incredulo per due motivi: in primis non riesce a credere di aver sbagliato un colpo del genere, ma soprattutto non riesce a credere di essersi lasciato sopraffare dalla pressione. La preoccupazione invece è figlia dell'esperienza. Sa di aver appena generato un momento di svolta nella testa del suo avversario, che si renderà conto di essere stato graziato e prenderà il suo errore come un segno del destino. Sa che contro uno bravo errori del genere li rimpiangi; lui a parti invertite non te lo perdonerebbe mai. Djokovic è preoccupato perché sa che Alcaraz ha la stoffa per essere bravo quanto lui. O forse lo è già.
E non è certo un segreto. Che Alcaraz fosse l'uomo più indicato a insidiare e rompere il dominio ventennale dei Fab Four lo abbiamo sempre saputo. L'effettiva presa di coscienza può avvenire in momenti diversi, ma non c'è nessuno che non l'abbia mai avuta, nemmeno noi italiani, che facciamo naturalmente e giustamente il tifo per Jannik Sinner.
Questa edizione di Wimbledon è stata la conferma, il momento preciso nel quale quella promessa si è concretizzata. Alcaraz ha interrotto un regno che durava, caso vuole, proprio dal suo anno di nascita. Nadal, Murray, e soprattutto Federer e Djokovic hanno dominato sull'erba per così tanto tempo che ormai ci eravamo abituati. Nemmeno un re del caos come Nick Kyrgios è riuscito a tagliare quel filo, che ha resistito per due decenni a qualunque minaccia.
Una conferma, dicevamo. Alcaraz ci ha confermato di poter essere quel tennista generazionale che tutti si immaginavano. Ha confermato di essere schifosamente prematuro, vincendo Wimbledon dopo aver disputato solo tre tornei in assoluto sull'erba. Infine, ha confermato di essere il numero uno del mondo, che in un periodo in cui Djokovic circola ancora non è mai banale. Per usare una metafora videoludica, Alcaraz ha sconfitto il boss finale. Ha superato quel livello che ti tiene bloccato giorni e non ti fa avanzare nella storia, costringendoti il più delle volte a usare i cheat. Ecco, ora trasformate i giorni in anni, venti precisamente, e tenete ben presente che nel tennis, come nella vita, non esistono trucchi. E allora, come ha fatto a batterlo?
Alcaraz ha avuto la meglio su Djokovic seguendo i propri principi. Nonostante un primo set deludente in cui non è mai riuscito ad entrare in partita, lo spagnolo ha continuato a proporre il suo tennis vario e pieno di armi, dall'ormai iconica palla corta al pestaggio con il dritto che raramente lascia scampo.
La partenza di Djokovic è stata fulminante, simile a quella del match contro Sinner, nel quale ha approfittato della tensione che correva lungo il corpo dell'azzurro e rendeva il suo braccio rigido. Anche Alcaraz ha sofferto le pressione; a volte a rete, spesso lungo, quasi mai incisivo. Nove errori gratuiti e solo sette vincenti sembrano le statistiche di un altro giocatore, condite da uno spaventoso 14% di punti vinti con la seconda. Il serbo invece praticamente perfetto, con cinque vincenti e appena due errori gratuiti.
Dopo la vittoria ad Indian Wells contro Daniil Medvedev, Alcaraz aveva detto di aver imparato a "non subire la pressione, a giocare in maniera rilassata". Una finale di Wimbledon farebbe vacillare anche la più solida delle certezze, e a quel punto non resta che attendere. Aspettare che la tensione passi e che finalmente inizi una partita vera. Esattamente ciò che succede nel secondo set. E quando poi si arriva al tie break, Alcaraz riceve il primo indizio che questa possa essere la giornata giusta. Djokovic non trova più il rovescio e regala il set allo spagnolo con due errori irriconoscibili. Uno dei colpi che lo ha reso grande lo sta abbandonando nel giorno più importante.
Nel terzo set vengono a galla i temi tattici che saranno decisivi per la vittoria. Lo spagnolo tiene dignitosamente sulla diagonale di rovescio, agevolato da un Djokovic non perfetto, e sulla diagonale di dritto si consuma un vero e proprio massacro. Alcaraz apre il campo dipingendo traiettorie impossibili e riesce con estrema facilità a trovare il lungolinea. Djokovic è bombardato da ogni lato.
E poi la palla corta, diventata ormai un marchio di fabbrica. Alcaraz la utilizza magistralmente, per ottenere direttamente il punto o per trascinare il suo avversario in una trappola mortale. Ad essa infatti seguono spesso passanti e pallonetti che fulminano i disperati a rete, come se questi fossero vittime sacrificali. Alcaraz è talmente sicuro dell'efficacia della smorzata che a volte ne abusa, rasentando l'esasperazione.
Ultimamente su Instagram e TikTok girano video di dilettanti che provano palle corte in situazioni e posizioni assurde, con la scritta "Come Alcaraz ha rovinato il mio tennis". Si tratta ovviamente di video ironici, ma l'impressione è che Alcaraz abbia sdoganato nel tennis l'uso frequente di una soluzione come il dropshot, decisamente sconsigliata a chi non possiede i mezzi tecnici adeguati.
In questo scambio c'è tutto: la solidità del rovescio, la facilità nell'andare lungolinea e la trappola della palla corta, con annesso passante per vincere il punto.
Un altro tema è il livello di intensità, che Alcaraz riesce a regolare perfettamente seguendo il flow della partita. Anche qui c'è stato un passo avanti; le fiammate ora sono meno sporadiche e il suo tennis ha finalmente trovato costanza e continuità, anche in maratone da più di quattro ore. Adesso è difficile che attraversi pesanti passaggi a vuoto, ed è altrettanto complicato che cali la concentrazione.
Quando Alcaraz entra in ritmo dà l'impressione di poter continuare così all'infinito, con qualche errore certo, ma con un tasso di rischio sempre al limite. I picchi poi ci sono sempre, ed è ciò che lo rende una forza della natura. Com'è possibile che un livello standard già altissimo possa avere degli apici ancora più elevati? La risposta ce l'hanno in tre o quattro. Lui è uno di quelli.
Come se non bastasse, è arrivata l'investitura da parte di Novak Djokovic anche a parole, oltre che sul campo. Nella conferenza stampa post partita, il ventitre volte campione Slam ha detto: "Sono d'accordo con chi dice che nel suo gioco ci sono elementi di Roger, di Rafa e di me stesso. Anzi, dico che sostanzialmente riassume il meglio di noi tre".
Sono parole pesanti sì, ma ci danno un'idea chiara di quello che Alcaraz potrebbe rappresentare in futuro. Perché al di là degli aspetti tecnici, Djokovic non ha tutti i torti. Nel suo atteggiamento in campo ci sono in parti uguali compostezza, agonismo e mentalità, le tre virtù dei triumviri del tennis da vent'anni fa a oggi. A voi il compito di associare ciascuna al Big corrispondente.
Ora tutto quadra. Il passaggio da un'era all'altra poteva avvenire solo a Wimbledon. La detronizzazione del re poteva compiersi solo nel suo palazzo reale. La battaglia decisiva poteva giocarsi solo nell'arena che per vent'anni è stata il palcoscenico delle gesta dei tre migliori giocatori della storia. E se l'epoca dei Big Three è veramente finita, è giusto che sia terminata in questo modo, per mano di colui che porta con sé il meglio di loro.
Novak Djokovic non ha più gli occhi sbarrati. Non è più incredulo e non è più preoccupato. Si commuove nel vedere suo figlio ancora lì, sorridente, a sostenerlo insieme al suo team. Per un attimo perde le parole e si chiude in se stesso. Forse ripensa a quell'errore di dritto, oppure al fatto che il traguardo del Grande Slam gli sia sfuggito di nuovo.
Tutti noi però sappiamo che non ha ancora finito. Lui è il primo a saperlo. Non avrebbe vinto quel quarto set altrimenti. In una giornata non brillante ha costretto il futuro dominatore del tennis al quinto set. Djokovic ha accettato il cambio d'epoca, il testimone ad Alcaraz lo ha passato. Questo però non significa che abbia esaurito il tempo. Troppe volte lo abbiamo dato per morto e troppe volte lui è risorto. Se pensa di avercene ancora noi gli crediamo. Di darlo per vinto, sinceramente, non ce la sentiamo più.
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