Adriano voleva solo giocare a calcio
E la sua carriera ce lo ha sempre ricordato.
Quando Adriano entra in campo per la prima volta con la maglia dell'Inter, poco più che maggiorenne, la maglia nerazzurra, in un pieno stile anni Novanta, gli cade addosso come fosse una tunica. Succedeva a giocatori più grandi di lui, figuriamoci se non succede a lui che, sì, è uno e novanta ma ha un fisico asciutto, lineare e pulito, come il più classico dei giocatori che in Primavera sembra gigante ma che messo vicino ai grandi è talmente esile che sembra sia stato steso su un piano di legno con un mattarello.
Il contesto in cui Adriano mette il piede sul pallone per la prima volta con l'Inter è quello del Santiago Bernabeu, nell'amichevole che i nerazzurri stanno giocando con il Real Madrid. Gioca sei minuti, sostituendo Bobo Vieri e il suo primo tocco di palla è un controllo di petto, spalle alla porta, nel mezzo spazio destro. Karanka alle sue spalle gli prova a dare una spinta ma lui lo usa come appoggio: pianta la gamba destra a terra e con la sinistra traccia il compasso, scappandogli all'interno e prendendo velocità con una semplicità mostruosa. Ha la sfortuna di sbagliare il passaggio, non riuscendo a imbeccare Dalmat in posizione aperta.
Pur essendo poco più che maggiorenne, in quella partita Adriano mostra una capacità nel giocare spalle alla porta formidabile: ha una lucidità fuori dal comune per il modo in cui usa il suo corpo e le sue gambe, incredibilmente lunghe, per gestire il pallone. Ha ancora una certa leggerezza, tanto che l'azione da cui nasce la sua celebre punizione se la costruisce proprio con una conduzione straordinaria.
Inizia tutto con un pallone respinto che finisce circa sulla trequarti del Real Madrid. Adriano si orienta subito bene col corpo, cercando di inseguire il pallone ma anche di poter opporre la schiena e le braccia a Salgado, come lui diretto verso di esso. Ci riesce: con il braccio ostacola Salgado e si mette tra lui e la palla, mandandolo per terra, dopodiché si allunga il pallone, mandando giù anche Hierro e arrivando praticamente in area. Una volta al limite cerca di rientrare sul destro ma Conceicao gli si para davanti, sporcandogli il pallone. Questo è il momento in cui si vede la superiorità atletica del primo Adriano: il brasiliano accelera e anticipa l'intervento di Hierro, che a questo punto non vede più la palla ma solo le sue gambe. Punizione.
Il talento di Adriano è talmente autoevidente che viene quasi difficile capire come mai non abbia giocato regolarmente sin da subito. Cuper però si fida poco e per questo lo spedisce prima in prestito alla Fiorentina e poi in comproprietà al Parma, dove insieme a Mutu forma una delle più belle coppie d’attacco di quegli anni. In quegli anni Adriano sembra venuto da un altro pianeta: ha una potenza straordinaria nelle corse e nel suo sinistro: segna 29 gol in 52 partite e in alcuni momenti la sua iconografia, tra la maglia larga, i capelli rasati e il passaporto brasiliano, sembra quasi ricalcare quella di Ronaldo.
Da Parma viene richiamato di corsa, con l'Inter invischiata in una stagione a dir poco deludente. Adriano torna e diventa subito l'unica nota positiva di quella stagione. Zaccheroni, però, di Adriano sottolinea l'aspetto mentale: "Arrivava tardi, era imprevedibile, sempre con una scusa: un giorno aveva forato la macchina, un altro lo aveva fermato la polizia", dice in un'intervista alla Gazzetta. "Una mattina si presenta con Oba Oba Martins e dopo l’inizio degli allenamenti. Mi fermo. Li guardo. Li raggiungo e con calma gli spiego che per quel giorno erano liberi di tornare l’indomani. Adriano è scoppiato in lacrime".
La sua stagione però resta straordinaria: con i suoi gol trascina l'Inter fino al quarto posto e ai preliminari di Champions League. A premiarlo sarà la nazionale brasiliana, da cui viene convocato per la Copa America in Perù. Adriano gioca una Copa straordinaria: segna una tripletta alla Costa Rica nel girone; poi una doppietta al Messico nei quarti di finale; poi un altro gol in semifinale all'Uruguay e un ultimo in finale all'Argentina. La finale, in particolare, è quasi un'esibizione della sua potenza. Sembra un carro armato: a turno Coloccini, Ayala e Heinze cercano di dargli spinte e spallate ma si schiantano contro di lui come se fosse un muro di gomma. Quando è invece lui a provarci, i suoi avversari vanno in pezzi, travolti dalla sua potenza.
Il suo passo non è straordinariamente veloce: in almeno una situazione Coloccini riesce a recuperarlo in velocità ma mai a spostarlo e a riprendere il pallone. Anche nel modo in cui fa valere il suo fisico sembra venuto dal futuro: si aiuta con le braccia e orienta il corpo sempre nel modo giusto. Ha anche la scaltrezza di mollare qualche colpo ai suoi avversari, come se il suo gioco non li intimidisse già abbastanza. Inevitabilmente, di tutta la partita il gol che segna è forse il suo gioiello: lo è sia perché arriva a venti secondi dalla fine, quando il Brasile è sotto per 2-1, che per il modo in cui arriva. È un gol casuale: su un cross dalla trequarti destra c'è una mischia in area e Luis Fabiano, con il tacco, riesce incredibilmente a mettere giù il pallone. Adriano riceve con Quiroga alle sue spalle ma riesce a usare la sua gamba per arpionare il pallone, aggiustandoselo quasi miracolosamente sul sinistro.
Quello che succede dopo quel miracoloso stop è un saggio della sua onnipotenza: Adriano, infatti, riesce a coordinarsi per colpire al volo. E lo fa con una potenza fuori da ogni logica. Abbondanzieri, in porta, è quasi congelato e può solo vedere questo razzo che va all'angolo alla sua sinistra. L'imperatore esulta come un pazzo; si toglie la maglia, mostrando un fascio di muscoli che sembra scolpito nel marmo. Tutta la squadra impazzisce e l'unico che sembra mantenere il controllo è Parreira, che rimane fermo e urla con i pugni verso il cielo.
La Copa America di Adriano è uno sguardo sul futuro e sul passato: l'Imperatore ha momenti in cui sembra la reincarnazione di Ronaldo, altri in cui si associa come Benzema e altri ancora in cui calcia come Cristiano. Vederlo giocare è un'esperienza travolgente e totalizzante. Quando ci chiediamo cosa sarebbe potuto essere Adriano, forse in questa partita troviamo la risposta.
Probabilmente questo è il momento più alto della carriera di Adriano; il momento in cui sa di essere pronto a prendersi il mondo. Il modo in cui, però, tutto si sgretola velocemente ci costringe a metterci davanti alle nostre fragilità più profonde. Nella stessa estate, un paio di settimane dopo il trionfo con la nazionale, è costretto a tornare in Brasile. Suo padre è morto. "Lo vidi piangere, scagliò via il telefono e cominciò a gridare che non era possibile. Non potete immaginare che genere di urla", racconta Zanetti, "ho i brividi ancora oggi".
Con gli occhi di oggi possiamo dire che è effettivamente quello il momento in cui tutto si rompe. In quel momento, invece, sembra andare ancora tutto bene: nella stagione 2004/05 Adriano sfiora l'onnipotenza: segna ventotto gol e in alcune partite si rivede la mostruosità della finale di Copa America. Al Mestalla, contro il Valencia, le sue progressioni fanno impazzire i difensori, che sembrano giocare sul ghiaccio. Svaria su tutti i lati: a sinistra cerca di aprirsi spazi e attaccare in verticale; a destra è più raffinato, tocca con l'esterno per prendere l'interno del campo e creare più caos. La sua partita è una compilation di scatti, girate e progressioni che sembrano far implodere il Valencia. A inizio secondo tempo ha una sorta di Momento Federer: imbeccato dalla destra, Adriano controlla col sinistro e salta verso l'esterno Canizares, che era uscito al limite dell'area. Nel momento in cui Navarro gli prova a chiudere lo spazio, Adriano si mostra anche più furbo di lui: con una veronica lo manda a vuoto e calcia; il tiro però va fuori ed è un peccato.
L'Adriano del 2004 è questo: un treno lanciato che spazza via i suoi avversari. Il gol che segna all'Udinese, prendendo palla sulla sua trequarti e correndo dritto per dritto fino alla porta avversaria, spostandosi il pallone e facendo cadere ogni figura che gli si piazzi davanti, dà proprio quest'impressione. Basterebbe la sua progressione per rendere quell'azione straordinaria; Adriano però fa ancora di meglio: al limite dell'area, in uno contro due, si sposta il pallone sul sinistro, i suoi avversari si piantano come inchiodati improvvisamente a terra e lui calcia, ancora una volta, con una forza straordinaria. "È diventato verde come Hulk", dice Caressa in telecronaca.
Il 2005 è l'ultimo anno in cui vediamo un grande Adriano. In estate domina anche la Confederations Cup ma già al suo ritorno i suoi numeri iniziano a declinare e i suoi momenti di dominio si riducono sempre di più. L'Adriano che torna dalla Germania sembra un giocatore frustrato, sempre a metà tra la consapevolezza di esssere un fuoriclasse e la difficoltà nel dimostrarlo. Inizia a logorarsi anche il rapporto con Mancini, a cui Adriano rimprovera di averlo messo in campo da infortunato nel derby di metà aprile.
La settimana dopo, Mancini, con la sua classica mancanza di diplomazia, racconta a mezzo stampa la sua verità: "Mi dispiace molto che abbia detto che l'ho messo in campo nel derby anche se non stava bene, perché le cose non stanno così. Giovedì mattina, dopo l'allenamento, gli ho chiesto come stava e lui mi ha risposto che stava bene". Quando Adriano torna in Germania per il Mondiale non è già più il giocatore che era. Segna un bel gol con un sinistro piazzato nella partita del girone con l'Australia ma sarà il suo terzultimo ufficiale con la nazionale. Il penultimo arriverà agli ottavi di finale: un tap-in in fuorigioco – non visto – contro il Ghana.
Qui inizia la fine: nella stagione successiva Adriano gioca sempre meno e sparisce sempre più. Dopo i 28 gol di due anni prima siamo scesi a 6 e Mancini, che di pazienza ne ha sempre avuta poca, lo ha sostituito con Ibrahimovic. Quando le sue prestazioni iniziano a mancare è forse il momento in cui ci rendiamo conto che per lui il calcio è qualcosa che non importa più. Lo dice lui stesso: "Se devo essere onesto, anche se ho segnato tanti gol in Serie A in quegli anni, anche se i tifosi mi amavano davvero, la mia gioia era svanita". Tra i vari problemi che hanno afflitto i suoi ultimi anni, Adriano cita soprattutto la lontanza da casa. "Ero in Italia, dall’altra parte dell’Oceano, lontano dalla mia famiglia e non ce l’ho fatta. Sono caduto in depressione".
Probabilmente è per questo che, alla fine, l'Inter decide di rimandarlo in Brasile. A casa sua Adriano si sente protetto e accolto. I tifosi lo accolgono come un eroe. Il suo primo gol, in amichevole contro il Guaratinguetà, è davvero uno dei suoi: un tiro da fuori dalla potenza impressionante, che sembra strappare via la rete dai pali. Nel vedere l'Adriano del San Paolo le sensazioni che si ricevono sono molto eterogenee: è un giocatore che riesce ancora a mostrare il suo dominio tecnico e la sua potenza ma che lo fa attraverso l'immagine di un fisico imbolsito, una corsa più maldestra e pesante e, soprattutto, attraverso una rabbia, quella con cui esulta a ogni gol, che sembra totalmente distruttiva. In Brasile, però, questo basta: in 10 partite segna 6 gol e torna all'Inter con l'idea che forse c'è ancora qualcosa da fare.
La sua speranza dura giusto qualche mese. Mourinho prova a rimetterlo in piedi: gli dà spazio e prova a stimolarlo ma, nella situazione di Adriano, il risultato ultimo è l'esatto opposto, come racconta a The Players' Tribune. Quando la nazionale lo convoca, è Mou a chiederglielo: "Non torni più, vero?". "Già lo sai".
In quell'intervista, Adriano spiega molto chiaramente il modo in cui ha sofferto la morte di suo padre – "Ho un buco nella caviglia e uno nell'anima" – e come la sua passione per il calcio fosse legata quasi esclusivamente al lato più ludico. Proprio la pressione, che inevitabilmente accompagna un atleta del suo calibro, è sembrato farlo collassare su sé stesso in un modo catastrofico, tanto che Adriano, anche diversi anni dopo, ancora ricorderà ogni titolo utilizzato per dargli del grasso e dell'alcolizzato. "La stampa alle volte non riesce a capire che siamo degli esseri umani", dice Adriano. "L'Imperatore significava avere troppe pressioni. Io venivo dal nulla. Ero solo un ragazzo che voleva giocare a calcio e poi uscire a bere qualcosa con i suoi amici".
L'unica persona che sembra capire le difficoltà umane di Adriano è Massimo Moratti: "Mi ha lasciato il mio spazio perché sapeva cosa stavo passando", dice, tradendo chiaramente che, forse, la vera mancanza che ha sofferto nella sua vita è la mancanza di empatia. Empatia per un ragazzo che a 22 anni ha avuto il mondo in mano e in nove giorni se lo è visto crollare addosso. Empatia che, in un modo iper-competitivo, è spesso assente. Eppure, la pigrizia narrativa che lo ha accompagnato lo ha sempre dipinto come un giocatore vittima degli eventi, delle cattive compagnie. Tutto il suo passato da ragazzo delle favelas viene sempre citato con un rigurgito di pietismo assolutamente ingiustificato, nonostante Adriano stesso abbia detto più volte di essere molto legato a quei posti e a quel senso di comunità.
Facendo uno sforzo di comprensione in più, però, si riesce a capire cosa dice Adriano quando parla della sua gioia svanita. Il suo modo di giocare era qualcosa di genuino e connotato al suo sentirsi felice nel giocare a calcio, qualcosa che, lo dice lui stesso, era strettamente legato alla passione di suo padre. La depressione che ne è seguita non sembra originata tanto dalla sua scomparsa, quanto dal fatto che questa abbia messo Adriano davanti alla pressione che il mondo del calcio esercita sui suoi attori principali. Una pressione che spesso si rivela insostenibile.
Il suo ritorno a casa, quindi, non è stato altro che un modo per ritornare nell'ambiente che lo ha amato e ritrovare le facce conosciute, il calore umano e l'affetto di quei tifosi, di quegli amici, che potevano anche accettare che non fosse più O Imperador ma solo Adriano. Il suo unico desiderio era tornare in mezzo alla sua gente, alla sua famiglia. Una scelta di ridimensionamento, certo, ma che alla base aveva il suo desiderio di ritrovare la felicità. Lo ricorda anche lui: quando, in Brasile, andava ad allenarsi non lo faceva per giocare, lo faceva perché dopo poteva andare a divertirsi coi suoi compagni. Con i suoi compagni del Flamengo, Adriano aveva ritrovato in parte sé stesso nella complicità che aveva creato con i compagni, con cui si diceva "corro io per te" quando uno di loro faceva tardi la sera prima e non ne aveva per giocare. In fondo, Adriano cercava solo questo, solo qualcuno che gli ricordasse quanto era bello giocare a calcio e divertirsi nel farlo.
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