Glossario di "Tour de France: au coeur du peloton"
Abbiamo guardato il documentario Netflix, in attesa della nuova edizione del Tour.
Il ciclismo su strada è storicamente uno sport noioso e poco televisivo. Gli appassionati lo sanno e non solo non ne fanno mistero, ma anche della sagace autoironia: il ciclismo è spesso visto come uno sport “da vecchi” anche dai più veraci appassionati, autoeletti umarell da divano in contemplazione di un cantiere continuamente in costruzione. Tuttavia, negli ultimi anni le due ruote stanno intraprendendo un processo lento ma progressivo di svecchiamento e sperimentazione, sia per quanto riguarda la corsa (percorsi brevi o su tracciati particolari) sia per ciò che concerne l’aspetto comunicativo. Il ciclismo ha bisogno di vendersi meglio: in questo senso arriva Tour de France: au cœur du peloton, documentario in 8 puntate sulla Grand Boucle prodotto da ASO (Amaury Sports Organisation, la società organizzatrice del Tour) in collaborazione con France Télévisions e distribuito da Netflix.
Il docu, girato durante il Tour del 2022, è stato presentato come la versione ciclistica di Drive to Survive (documentario sulla Formula 1), con il medesimo obiettivo di rivitalizzare il movimento e trovare nuovi appassionati in tutto il mondo. Per farlo, la produzione ha avuto accesso ai dietro le quinte di 7 squadre, seguite dalla troupe di produzione sin dalla preparazione del Tour: AG2R Citroën Team, Alpecin-Fenix, Bora-Hansgrohe, EF Education-EasyPost, Groupama-FDJ, Ineos Grenadiers, Jumbo-Visma e Quick-Step Alpha Vinyl.
All’interno delle puntate sono alternate interviste, spezzoni di gara, dietro le quinte e panoramiche dei luoghi percorsi; la speranza è quella di avvicinare quante più persone al ciclismo. Se ci saranno riusciti lo dirà solo il tempo; in questo pezzo vorremmo, piuttosto, cercare di restituire le impressioni offerte dalla visione con un glossario di parole dato dalla corsa. Nomi, luoghi, corridori, squadre: no, non è Natale e non state giocando con i vostri zii a un classico divertimento da tavola, ma forse l’esperienza ci si avvicina.
A come Alpe d'Huez: è la montagna per eccellenza del Tour, con i suoi epici tornanti assiepati di tifosi ogni volata che viene scalata. Ogni curva ha il suo frangente (per dire, c’è la curva degli olandesi), ogni punto emana adrenalina, talmente tanta che Rod Ellingworth, direttore sportivo della INEOS, dice che si rischia di finire la benzina subito. Ci vince Tom Pidcock, giovane corridore proprio della squadra inglese dal futuro brillante.
B come Balle: è l’immagine a cui viene associato proprio Pidcock, nella discesa che precede la scalata
all’Alpe. Il classe 1999, proveniente da mountain bike e ciclocross e tra i migliori in gruppo nella guida del
mezzo, si lancia a oltre 100 km/h in una scena che è già un instant classic. Comme une balle.
C come Crève: cioè foratura. In molti forano sul pavé, nella quinta tappa, quella che riproduce la Paris-
Roubaix. Emerge la disperazione di corridori che rischiano di veder sfumare sacrifici su un terreno inusuale per il Tour, che non viene affrontato tutti gli anni, ma che è un’incognita e può cambiare le sorti della classifica generale.
D come Domestique: gregario, aiutante. Questa figura cerca di farsi spazio nella narrazione (ed essendo la più letteraria viene anche semplice) ma si scontra con la realtà dei fatti, che vede corridori di ottimo livello essere messi in secondo piano rispetto a supercapitani, non senza mugugni.
E come Emboutillage: qui non servono traduzioni. È esattamente quello che vi potete immaginare, basta
solo traslarlo da una autostrada a vostra scelta a Ferragosto agli ultimi 3 chilometri di una tappa in volata.
Ci sono meno clacson, ma non meno ingiurie.
F come Frotter: cioè spingere, sgomitare. È, converrete, la conseguenza dell’emboutillage tra persone che
non portano un mezzo a quattro ruote, soprattutto se in grupponi da oltre 150 corridori.
G come Granon, Col du. Da molti ritenuta uno snodo cruciale del ciclismo degli ultimi anni, è lì dove
abbiamo scoperto l’umanità di un supereroe, Tadej Pogacar: non tanto nel perdere oltre 3 minuti nei
confronti dell’avversario Vingegaard, quanto nel rispondere continuamente a tutte le sollecitazioni
precedenti del danese e di Roglic, che l’hanno rinchiuso alla perfezione nella loro trappola per topi. Come
battere Pogi? Semplice: lo sfianchi e preghi.
H come Hautacam: alias un’occasione persa per gli sceneggiatori. Nella discesa prima della salita dei
Pirenei, ultima asperità del Tour, Pogacar scivola. Vingegaard lo aspetta e gli tende la mano.
Clamorosamente, questa scena non appare nella serie, mentre appare uno sbandamento appena
precedente del danese. Perché?
I come INEOS: la squadra per eccellenza, quella che ha fissato uno standard organizzativo e prestazionale
negli ultimi quindici anni. È, assieme alla Jumbo-Visma, la migliore tra quelle seguite dalle telecamere, la più abituata a stare sotto i riflettori. Per questo e non solo, è la squadra che ne esce meglio di tutte: più
misurata, più equilibrata, intelligente. I dirigenti della INEOS scompaiono nella struttura, è anche difficile
ricordare i loro nomi, ad eccezione di Steve Cummings (ma solo perché si è ritirato da poco).
J come Jakobsen, Fabio: il velocista olandese della Quick-Step è uno dei personaggi più autentici della serie. Mostrare il suo spaventoso incidente al Tour de Pologne del 2020 nel primo episodio aiuta gli spettatori ad empatizzare subito con lui, oltre a mostrare i pericoli di uno sport di cui si parla troppo poco in questi termini. Emoziona anche la scena sulla cima di Hautacam in cui fa uno sforzo inumano per rientrare nel tempo massimo: non lo diciamo noi, ma le lacrime del compagno di squadra Sénéchal. Ma J (doppia, in questo caso) anche come Julen Jurdie, direttore sportivo della AG2R Citroën, una delle due squadre francesi del World Tour. Jurdie si denuda fisicamente e umanamente, mostrandoci rispettivamente l’atlante dei suoi tatuaggi, tutti legati al ciclismo (mappe, monumenti, elenchi: c’è di tutto) ma anche l’aspetto più vulnerabile del suo lavoro, che lo tiene lontano dal figlio per tanto tempo.
L come Lampaert, Yves: la prima maglia gialla del Tour, su cui si è quasi glissato. Gli si poteva dedicare più
spazio, ma forse, così come altre vittorie, la sua è stata quasi incidentale alla narrazione.
M come Madiot, Marc: anche qui, doppia. È il general manager della Groupama-FDJ, l’altra squadra
francese del World Tour. Lo guardi e ti sembra un Martufello transalpino, ma nel corso delle puntate
emerge (forse fin troppo) una figura temperata e navigata, capace di gestire gli alti e bassi di una squadra
giovane e su cui i francesi puntano tanto. Sempre tranquillo, mai fuori giri, ripone una fiducia sconfinata nel talento dei giovani, tanto da preferire nettamente Gaudu a Pinot (cosa che viene vista quasi come un
sacrilegio): lo sta dimostrando costruendo una squadra fresca e giovanissima, in maniera anche inusuale
per il ciclismo.
N come Niermann, Grischa: storico direttore sportivo della Jumbo-Visma, deve gestire un gruppo di
fenomeni. Lo fa con fermezza, senza alzare troppo i toni, dando anche una certa libertà ai suoi.
O come O'Connor, Ben: il suo Tour è più che dimenticabile. Si ritira a metà corsa, ma seguire la sua vicenda da vicino aiuta – soprattutto i novizi – a percepire cosa attraversi un corridore che decide di lasciare il Tour: la frustrazione nell’uscire di classifica, l’emergere dei problemi fisici, la valutazione di strade alternative. E poi, l’addio. Da fuori, sembra tutto più “veloce”.
P come Poussière: è la polvere del pavé, una nube densa che sale e avvolge i corridori. Nella polvere finisce la Jumbo-Visma, che rischia di buttare una stagione dopo solo cinque giorni dall’inizio della Grand Boucle, ma riesce a limitare i danni. Sarà fondamentale.
Q come Quintana, Nairo: la sua squadra, la Arkéa-Samsic, non è tra le protagoniste del Tour, ma lui non si
vede praticamente mai nelle immagini (ad eccezione di un paio di apparizioni fugaci). “Correzione” dovuta alla successiva squalifica? Chissà.
R come Roglic, Primoz: perché non ci sono piccoli ruoli, ma solo piccoli attori. Il ruolo di Roglic, nel
documentario così come nel Tour, è maiuscolo: in poche scene emerge la sua genuinità, la sua repellenza al copione prestampato. Il modo in cui si mette a disposizione per Vingegaard, proprio nella tappa del Col du Granon, è a dir poco lodevole.
S come Sadistic: è così che Geraint Thomas, una delle persone più sagge del gruppo, definisce l’attività
ciclistica professionistica. Lo fa al termine di una chiacchierata con un suo direttore sportivo sui dolori, che
alla sua età (36 anni lo scorso anno) emergono sempre più. Dopo pochi istanti, sua moglie, Sarah (con cui
ha un rapporto sincero e tenero, anche se lei non vuole più vedere le corse) gli invia un messaggio: quando tu eri a scuola media Vingegaard e Pogacar non erano ancora nati. G sorride, orgoglioso.
T come Thibaut Pinot: per una volta ci permettiamo il lusso di invertire nome e cognome, perché per i
francesi il rapporto col loro campione è qualcosa di viscerale, familiare. È loro perché è intimamente
francese nel modo di correre, soprattutto nella sconfitta. Lui da un lato si è calato nel personaggio,
dall’altro sente una malinconia irreparabile: penso di ricevere più amore di quanto ne meriti, dice a un certo punto. Lo seguiamo nella sua fattoria, dove si sente a casa. Ci si dedicherà a tempo pieno da novembre, quando si ritirerà.
U come UAE Team Emirates: cosa manca a questa serie per fare il salto di qualità? La loro presenza. Non
per altro, ci mancherebbe: solo per Tadej Pogacar. L’assenza della UAE dalle squadre seguite permette a
Pogacar di essere il perfetto villain di questa storia, sempre dall’altro lato della barricata, sempre
nell’ombra, anche se lui puntualmente rompe la quarta parete e stuzzica ora Vingegaard, ora Van Aert, ora Thomas. Onnipresente, ma sempre con discrezione.
V come Vingegaard, Jonas: Vingo è proprio come quel tuo cugino stonato che vive in Nord Europa e lavora nella musica elettronica, o forse nel consiglio di amministrazione di qualche big tech: antipatico, fastidioso, ingombrante ma fortissimo. Con il suo inglese dall’inflessione piatta e preimpostata restituisce ancor di più un’impressione robotica. È spigoloso nei confronti dei compagni di squadra, vuole il massimo e oltre da tutti, ma poi ricambia con la stessa moneta.
W come WoutVanAert, tutto insieme, senza compromessi e mezzi termini: è sempre il protagonista.
Volata? Lui c’è, lotta contro Jakobsen e Philipsen. Pavé? È lui che salva la giornata, e in retrospettiva Tour e
stagione, di Vingegaard e Jumbo. Montagne? È ancora lì, dopo essere andato in fuga, a fare il ritmo a
Vingegaard. È la voce della razionalità, il grillo parlante del ciclismo, anche nelle interviste. Cosa gli vuoi dire di più? Di lui abbiamo già detto tanto, difficile dire tutto. Negli ultimi giorni, però, WoutVanAert ha avuto da ridire sul documentario: “È abbastanza inquietante vedere che il documentario contiene storie inesistenti. […] Io e Jonas siamo migliori amici”. Dai, Wout, questo è troppo anche per te.
Y come Youngsters: i giovani, il cuore del ciclismo moderno, i protagonisti assoluti. Nel Tour ne emergono
parecchi: risalta la loro disponibilità a stravolgere la loro vita per adattarsi alle esigenze del ciclismo, come
Neilson Powless, che si trasferisce con la ragazza Frances in Francia. Sono ragazzi spesso spontanei, come
Jasper Philipsen, il velocista della Alpecin-Fenix: è un po’ maldestro, e prende tutto alla leggera, tanto da
essere rinominato dai compagni Jasper disaster; la cosa non va giù al suo team manager, Christopher
Roodhooft, un tipo fin troppo serio. Alla fine, l’incontro tra queste due personalità.
Z come…Zut! Questa non la traduciamo, lasciamo cercare a voi.
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