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, 26 Giugno 2023

Dove vuole arrivare l'Arabia Saudita?


Gli ultimi investimenti dei club sauditi sul mercato sono solo la punta dell'iceberg.

Lo stadio è colmo di spettatori illuminati dalle luci dei riflettori. Karim Benzema esce dal tunnel degli spogliatoi, accolto dal boato del pubblico, e si dirige verso la metà campo. Dopo i saluti e i convenevoli di rito, gli viene simbolicamente riconsegnato il suo Pallone d’Oro, vinto per la stagione 2021-22. Questa scena in realtà si ripete due volte nel giro di otto mesi: la prima volta Benzema è vestito in borghese e riceve il trofeo sotto la pioggia del Santiago Bernabeu, la seconda indossa una maglia giallonera e solleva il Pallone d’Oro davanti al pubblico del King Abdullah Sports City Stadium, casa dell’Al-Ittihad.

Non era mai successo che un pallone d’oro in carica finisse direttamente in un campionato di quelli che definiamo – anche con un po’ di spocchia europea da inventori del gioco – “retirement leagues”, intesi come quei campionati dove giocatori attempati ma una volta forti vanno a godersi gli ultimi anni di carriera. Un avvenimento che sembra ancora più assurdo se pensiamo alla differenza che Benzema riusciva ancora a fare in Spagna e in generale in Europa. Come tutti ben sanno, l’attaccante francese non è l’unico Pallone d’Oro a vestire i colori di una squadra saudita, visto che Cristiano Ronaldo ora esulta sotto la curva gialloblù dei tifosi dell’Al-Nassr. Questo, di fatto, renderà la Saudi Professional League l'unico campionato del mondo con due giocatori capaci di vincere almeno un Pallone d'Oro.

L’acquisto di Ronaldo – e in una certa misura anche quello di Benzema – è stato l’evento enorme che ci ha fatto accorgere di una cosa: l’Arabia Saudita è entrata come un fiume in piena sullo scenario dello sport mondiale. Negli ultimi anni si sono consumate acquisizioni di club (vedi Newcastle), sponsorizzazioni di scuderie di Formula 1, organizzazione di supercoppe e gran premi sul territorio saudita, fino a tentare di comprare interi sport – in senso letterale, come sta accadendo con il golf. Dietro a questa irruzione improvvisa e impetuosa, che certamente abbiamo già visto tentata da altri paesi come Cina, Russia e Qatar in passato, c’è un piano strutturato che ha come orizzonte il 2030, orchestrato con i soldi e gli sforzi del governo autoritario di Riyadh.

In questo articolo abbiamo quindi deciso di sviscerare le questioni più importanti che ruotano attorno a quanto sta facendo l’Arabia Saudita con il calcio, in modo da provare a mettere un po’ di ordine in questo fiume di notizie, domande e preoccupazioni che segue ogni annuncio che arriva dall’Arabia Saudita nelle ultime settimane.

Qual è lo stato attuale del calcio saudita?

Il gol di Al-Dawsari che a Qatar 2022 fissa sul 2-1 il punteggio di Arabia Saudita-Argentina – risultato che sarà poi definitivo – ce lo ricordiamo tutti. E ci ricordiamo tutti una buona nazionale, che per un momento è pure sembrata in grado di superare la fase a gironi. Al momento però l'Arabia Saudita è cinquantaquattresima nel Ranking FIFA – tra Mali e Venezuela, per intenderci – risultando così la quinta migliore nazionale asiatica. Nell'ultima Coppa d'Asia i Figli del Deserto si sono fermati agli ottavi di finale, battuti dal Giappone, una delle quattro squadre più in alto nel ranking. La nazionale saudita ha nelle sue fila solamente giocatori che militano nel campionato locale, quasi tutti nelle migliori quattro o cinque squadre.

La Saudi Pro League è, per l'appunto, un campionato con cinque squadre storicamente dominanti – come possono essere Juventus, Milan e Inter in Italia per fare un paragone – che si sono spartite tutti i campionati fin qui disputati tranne tre. Nel 2022-23 a vincere è stato l'Al-Ittihad, che ora è a 9 vittorie come l'Al-Nassr di Ronaldo, ma la squadra più titolata è l'Al-Hilal (18 titoli), dominatore dello scorso decennio di calcio saudita. I biancoblu sono anche la squadra più titolata d'Asia, con 4 AFC Champions League conquistate, di cui una nel 2019 e una nel 2021 e con due finali perse nel 2017 e nel 2022. Andando a consultare il Ranking AFC, il campionato saudita risulta il migliore di tutta l'Asia, trainato proprio dall'Al-Hilal, ma nel mondo - secondo Twenty First Group - è cinquantottesimo.

Oltre alle tre squadre già citate, tra le cinque "grandi" storiche del calcio saudita ci sono anche l'Al-Ahli, clamorosamente retrocesso due anni fa e appena ritornato in Saudi Pro League, e l'Al-Shabab, sei volte scudettato e ora squadra di Banega e Krychowiak. Sì, già prima dell'esplosione attuale diversi giocatori con un passato in Europa erano approdati nel campionato saudita, ma parliamo di calciatori non più di prima fascia. Nella stagione appena conclusa l'Al-Hilal annoverava nelle sue fila Vietto, Marega e Ighalo, l'Al-Ittihad gli ex "italiani" Coronado ed Hegazy e, prima di Cristiano Ronaldo, l'Al-Nassr puntava su Talisca e Luiz Gustavo. Tutti giocatori con stipendi non indifferenti, ma che non sono brand e non hanno portato con loro grandi titoli.

Cos'è il PIF (Public Investment Fund)?

Se seguite il calcio è impossibile che non abbiate sentito parlare del PIF. In relazione al Newcastle, acquistato proprio da questo fondo, ma anche accostato al nome dell'Inter, in un susseguirsi di voci a intervalli costanti che va avanti da fine 2021. Ma cos'è il PIF? L'acronimo sta per Fondo di Investimento Pubblico: è quindi una riserva finanziaria che l'Arabia Saudita utilizza per investire, con l'obiettivo di generare maggiori introiti per il Paese. È presieduto dal principe Mohammed Bin Salman. Il PIF esiste sin dagli anni '70 ed è cresciuto nel tempo fino a raggiungere un valore di 620 miliardi di dollari. Questo boom è avvenuto però negli ultimissimi anni; basti infatti pensare che le persone che lavoravano per il fondo erano una cinquantina nel 2016 e ora sono più di duemila.

Le potenzialità di avere un fondo simile e di avere soprattutto la capacità di riempirlo con moltissimo denaro – derivante soprattutto dalla vendita di petrolio – sono state subito colte da Mohammed Bin Salman, divenuto nel 2015 Presidente del Consiglio per gli Affari Economici e di Sviluppo. Il principe ha deciso di far diventare il PIF un investitore globale, cosa che prima non era, e lo ha posto al centro della strategia da lui pensata per l'Arabia Saudita. Da allora il PIF – o società/consorzi da esso guidati – ha quote in, tra le altre, Facebook, Starbucks, ENI, Disney, Boeing e Booking. Dall'ottobre del 2021, come dicevamo, si è aggiunta anche la prima squadra di calcio – il Newcastle – e, da inizio giugno 2023, il fondo possiede anche il 75% di quattro delle grandi del calcio saudita: Al-Ahli, Al-Hilal, Al-Nassr e Al-Ittihad.

Cosa sta facendo il governo saudita alla Saudi Pro League?

Immaginate che un fondo controllato e finanziato dal governo italiano, da un giorno all'altro, trasferisca a sé la proprietà di Juventus, Milan e Inter. È quello che è successo in Arabia Saudita il 5 giugno di quest'anno, quando la Saudi Press Agency ha annunciato che, nell'ambito dello Sports Clubs Investment and Privatization Project, i quattro club sarebbero passati sotto l'egida del PIF per il 75%, diventando società e venendo detenuti per il restante 25% da enti non-profit creati ad hoc. Allo stesso tempo la proprietà di quattro club minori è stata trasferita a società controllate dallo Stato: l'Al-Qadisyiah – squadra del porto principale del paese – alla compagnia petrolifera Saudi Aramco; l'Al-Diriyah alla DGDA e l'Al-Ula alla Royal Commission for Al-Ula, entrambe agenzie che si occupano della promozione del turismo nelle due città. Anche la proprietà dell'Al-Suqoor, in terza divisione, è stata cambiata, passando sotto il controllo di NEOM, la società che si sta occupando di costruire The Line, la città lineare voluta da Bin Salman e che dovrebbe sorgere proprio nella provincia dove ha sede la squadra.

Il progetto lanciato con questo annuncio dirompente prevede due fasi. La prima prevede appunto questo massiccio investimento da parte di società e agenzie gestite o partecipate dallo Stato in cambio della proprietà dei club in cui investono, mentre la seconda prevede la privatizzazione di un certo numero di club a partire da fine 2023. Secondo il governo saudita la prima fase dovrebbe, creando una sorta di circolo virtuoso, attirare sponsor e investimenti, aumentare l'impegno del settore privato nello sport saudita e creare nuove opportunità di lavoro. In aggiunta a questo, due giorni dopo la Saudi Pro League ha annunciato che rivelerà a breve una strategia di trasformazione a lungo termine per assicurare expertise, governance e sostenibilità.

L'obiettivo è entrare in modo definitivo in un'era "europea" del calcio professionistico saudita, sia come risultati che come livello di investimenti. Il governo saudita punta a rendere la Saudi Pro League uno dei dieci migliori campionati al mondo (ora come dicevamo è cinquantottesimo) e si aspetta di aumentare i guadagni commerciali della lega da 450 milioni di riyal a 1,8 miliardi di riyal entro il 2030, come anche di far salire il suo valore di mercato da 3 a 8 miliardi di riyal. Per farlo, il governo sa di aver bisogno di investimenti privati e le acquisizioni di PIF e delle altre agenzie hanno la funzione di preparare il terreno per attirare grossi investitori. Inoltre, avere il PIF e non la singola squadra nelle trattative con i giocatori e i club europei permette di avere un maggiore potere negoziale e, successivamente, dà modo di distribuire i calciatori equamente tra i top team, aumentando la competitività del campionato e, di conseguenza, l'interesse verso di esso.

Questo ampio intervento arriva in un periodo di grossa crescita di popolarità dello sport tra i sauditi. La partecipazione di massa agli sport è cresciuta dal 13% della popolazione al 50% nel giro di sette anni e nello stesso periodo le federazioni sportive saudite sono passate da 32 a 95. L'80% della popolazione saudita gioca o segue il calcio e nell'ultimo anno le presenze negli stadi dell'Arabia Saudita sono raddoppiate rispetto al periodo precedente. Nel caso dell'Al-Nassr di Ronaldo la crescita è stata addirittura del 143%. Sono premesse che assicurano al governo che un campionato competitivo e infarcito di campioni trovi grande interesse nel paese e folle importanti negli stadi.

Cos'è la Vision 2030?

Gli investimenti del PIF nel mondo del calcio e, in generale, la crescita esponenziale delle dimensioni e dell'attività del PIF negli ultimi sette anni sono da inquadrare in una strategia chiamata Vision 2030. Sempre nata sotto l'occhio attento di Mohammed Bin Salman, Vision 2030 punta a far diventare l'Arabia Saudita una potenza finanziaria regionale e, contemporaneamente, a ridurne la dipendenza dal petrolio, diversificando le aree di investimento e l'economia in generale del Paese. Sostanzialmente, il piano vuole preparare non solo economicamente, ma anche socialmente il Paese ad una fase post-petrolifera della sua storia. Particolarmente simbolico è che molti dei fondi per attivare questo piano vengano dalla vendita delle azioni di Saudi Aramco, la compagnia petrolifera nazionale.

Il progetto è organizzato su tre pilastri principali. Il primo si chiama "Ambitious Nation" e punta a migliorare l'efficacia del governo e ad attivare la responsabilità sociale; il secondo "Thriving Economy" e ha come obiettivi finali la crescita e diversificazione dell'economia e l'aumento dell'occupazione e il terzo è denominato "Vibrant Society", prevedendo di rafforzare l'identità nazionale e quella islamica, offrendo nel paese una vita sana e soddisfacente. Il calcio – e lo sport in generale – sono aree perfette su cui investire per avere un effetto positivo su tutti e tre i pilastri, ed è questa la direzione in cui vanno i grandi investimenti del PIF.

Lo schema della Vision 2030 dell'Arabia Saudita
I tre pilastri della Vision 2030 sono divisi in tre livelli di obiettivi.

Lo sport è inoltre fondamentale per un altro motivo: è un'ottima fonte di soft power. Permette di aumentare la propria influenza a livello globale, favorendo così scambi commerciali, investimenti, interesse nei prodotti culturali nazionali. Questo vale per il calcio ma anche per molte altre aree, in cui come vedevamo già brevemente il PIF ha già investito. Parliamo di cinema, ristorazione, intrattenimento, social media e ogni altro settore che permetta di veicolare la propria cultura ed espandere la propria influenza.

La scelta di puntare così fortemente sullo sport all'interno della Vision 2030 ha attirato all'Arabia Saudita numerose accuse di sportwashing, essendo un Paese che ha ancora moltissime problematiche sul tema dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Sono le stesse critiche mosse al Qatar, anch'esso accusato di voler nascondere le gravissime mancanze politiche, sociali e umanitarie con l'organizzazione di eventi sportivi. C'è poi chi, da una lettura ancora più profonda della questione, come Simon Chadwick, professore di sport ed economia geopolitica alla Skema Business School, che parla addirittura di uno sportwashing prima "interno" che "esterno": «Quello che Mohammed Bin Salman non vuole è che gruppi di ragazzi scendano in strada, puntando a rovesciare la famiglia reale perchè devono vivere in modo differente dal resto del mondo. Essenzialmente, quello che sta facendo ora il governo è dire: "Bene, se volete Cristiano Ronaldo o Messi noi ve li diamo"».

E se poi, come è effettivamente successo, il Messi calciatore non lo si può avere, l'Arabia Saudita si accontenta del Messi icona e brand, da utilizzare per promuovere attraverso il calcio altre aree della Vision 2030. Come è emerso nei giorni scorsi da un articolo del New York Times, Messi è pagato tra gli 8 e i 9 milioni di dollari l'anno per promuovere l'Arabia Saudita andandoci in vacanza, pubblicando sui social post promozionali, partecipando ad eventi di beneficenza e prestandosi come soggetto per alcune campagne promozionali per il turismo. Il tutto ovviamente senza fare menzione dei problemi ben noti che affliggono l'Arabia Saudita. Il calcio diventa quindi anche strumento di promozione per altre aree di investimento, attraverso una delle sue icone più grandi.

L'Arabia Saudita vuole anche ospitare competizioni estere o internazionali?

Sì. Molto brevemente, la risposta è sì e, anzi, lo sta già facendo da alcuni anni. Dal 2018 (escludendo il biennio del covid) la Supercoppa Italiana si tiene in Arabia Saudita e il suo allargamento a quattro squadre va anche nella direzione di disputare più partite in suolo saudita, visto che l'accordo sarà ancora in essere nei prossimi anni. Stessa cosa fa la Spagna dal 2020, avendo implementato il formato della Supercoppa a quattro squadre e con le partite disputate a Jeddah o a Riyadh. In più, nel dicembre di quest'anno l'Arabia Saudita ospiterà la sua prima competizione ufficiale FIFA: il Mondiale per Club. Sarà l'ultima edizione a 7 squadre del torneo, che dal 2025 passerà ad un formato a 32 squadre. La competizione fra due anni farà tappa negli USA, ma ospitarla di nuovo nel 2029 potrebbe essere un obiettivo realistico per l'Arabia Saudita.

Nel 2027 poi la nazione del golfo ospiterà per la prima volta la Coppa d'Asia maschile e vorrebbe fare lo stesso con il corrispettivo femminile, in programma nel 2026. Sarebbe un'assegnazione a suo modo storica ed estremamente controversa, perché parliamo comunque di uno Stato in cui – per quanto le policy della Vision 2030 stiano portando sempre più a un'apertura – le donne possono entrare allo stadio solamente dal 2018, stesso anno in cui è stato anche abolito il divieto per le donne di guidare. L'Arabia Saudita aveva già provato indirettamente a inserirsi nelle competizioni femminili, raggiungendo un accordo con la FIFA per sponsorizzare la Coppa del Mondo 2023 con il marchio Visit Saudi. Il piano è poi saltato per la dura opposizione dell'opinione pubblica occidentale e soprattutto delle calciatrici che saranno impegnate nella competizione.

L'Arabia Saudita avrebbe messo gli occhi anche sulla competizione sportiva più importante e seguita di tutte: il Mondiale di calcio. Non è stata ancora presentata una candidatura ufficiale, ma l'obiettivo sembra chiaro. Le voci circolate nei mesi scorsi vedevano i sauditi proporsi congiuntamente a Egitto e Grecia, con anche un possibile coinvolgimento dell'Iran. I primi due sono paesi con cui l'Arabia Saudita ha stretto, negli ultimi anni, fortissimi legami economici e commerciali e che gli avrebbero permesso di attirare più consenso possibile in sede di votazione e di aggirare il divieto per un Paese dell'AFC di candidarsi per il Mondiale 2030, visto che sarebbero passati solo otto anni dalla precedente Coppa del Mondo asiatica. Sembrava che l'Arabia Saudita fosse disposta a coprire completamente i costi dei suoi partner e a sobbarcarsi la maggioranza delle partite pur di ottenere la Coppa del Mondo.

Fare questo "favore" a Grecia ed Egitto avrebbe rafforzato poi ancor di più i rapporti con i due Stati mediterranei e li avrebbe messi quasi in una situazione di subordinazione economica all'Arabia Saudita. Inoltre, una possibile assegnazione del Mondiale avrebbe un impatto enorme in termini di soft power, primariamente verso i partner organizzativi, ma in generale verso tutto il mondo. Qualora succedesse, sarebbe solo l'ennesima Coppa del Mondo che funge da gigantesca "lavatrice" per fare sportwashing, come accaduto in Qatar lo scorso anno, in Russia cinque anni fa, in Argentina nel 1978 e così via.

Tuttavia, nelle ultime settimane più fonti hanno riportato che l'Arabia Saudita avrebbe rinunciato a candidarsi per il Mondiale 2030, anche se non c'è stato ancora nessun annuncio ufficiale. Questo non cambierebbe nulla nella sostanza delle cose: i sauditi si candiderebbero - da soli - per la Coppa del Mondo 2034, che ospiterebbero con i progetti della Vision 2030 già completati e che si terrà lo stesso anno dei Giochi Asiatici già assegnati a Riyadh. Una situazione forse ancor più favorevole.

Ma si stanno muovendo anche in altri sport?

Il calcio è ovviamente lo sport più seguito al mondo e perciò anche quello da cui si può trarre il maggior guadagno sia in termini economici che in termini di soft power. L'Arabia Saudita però non è rimasta ferma anche negli altri sport, capendo l'importanza di diversificare. Ad esempio dal 2018 l'Arabia Saudita ha iniziato ad ospitare la Formula E sul circuito di Diriyah e dal 2021 ha un contratto in essere anche con la Formula 1, che corre invece a Jeddah. L'organizzazione di entrambi i Gran Premi è stata a più riprese criticata, sia perché vista come una chiara operazione di sportwashing, sia perché nel 2021 e nel 2022 si sono verificati attacchi missilistici nei pressi dei due tracciati, per non parlare dell'esecuzione di 81 dissidenti del regime saudita due settimane prima della gara di Formula 1 del 2022.

Il circuito di F1 di Jeddah, in Arabia Saudita.
Il circuito di Formula 1 di Jeddah, con lo sponsor Aramco in primo piano. (Michael Potts)

È un altro però lo sport in cui l'Arabia Saudita è andata veramente all-in: il golf. Nel 2022 infatti è stato ufficialmente lanciato un circuito alternativo al PGA Tour, quello più importante e praticamente egemone sullo scenario golfistico mondiale. Questo circuito, chiamato LIV Golf, ha subito attirato molti grandi golfisti, diventando in breve tempo un rivale quasi alla pari del PGA, grazie soprattutto agli sterminati fondi iniettati dal PIF. È nata così una "guerra civile" nel golf mondiale, che si è conclusa con una vittoria assoluta dell'Arabia Saudita: il 6 giugno è stata annunciata la fusione tra LIV Golf, PGA Tour e PGA European Tour in un'unica entità commerciale, finanziata dal PIF. I tre tour manterranno una loro autonomia e PGA fornirà gran parte dei dirigenti, la sua storia, la sua cultura. Ma la conclusione è una: l'Arabia Saudita si è comprata un intero sport.

L'importanza di questo accordo sta anche in un altro ambito. Negli USA il golf è lo sport dei potenti, dei lobbisti e dei parlamentari, tra gli altri, e l'accordo tra i sauditi della LIV e gli americani della PGA arriva in un periodo di faticoso riallacciamento dei rapporti tra i due Stati. È un segno della volontà di riavvicinarsi molto più forte di qualsiasi stretta di mano. E forse non è un caso che la NBA abbia recentemente aperto all'ingresso dei fondi sovrani di altri Stati e che il commissioner Adam Silver sembri tutt'altro che contrario ad un coinvolgimento dell'Arabia Saudita nel basket statunitense.

Ma è come la Cina?

A questa domanda non c'è una risposta immediata che non sia un criptico "sì ma no". La strategia dell'Arabia Saudita condivide alcuni progetti e obiettivi con quella impostata dalla Cina alcuni anni fa, ma per diversi aspetti se ne distacca completamente. Per prima cosa, la Cina, nel suo tentativo di diventare una potenza calcistica, era passata direttamente alla "Fase 2" del progetto saudita: aveva cioè iniziato ad allentare il proprio controllo sul campionato, affidando maggiori responsabilità ai privati senza prima consolidare il terreno, oltretutto in un contesto ancora più regolamentato dallo Stato di quello saudita.

La fase iniziale di investimento è stata quindi meno coordinata e alla prima grossa crisi – la pandemia di Covid-19 – le proprietà sono crollate l'una dietro l'altra come in un domino, disposte a sacrificare gli investimenti nel calcio, che non avevano un grosso ritorno economico ed erano principalmente fatti per ottenere il favore del governo cinese nelle loro principali aree di competenza (generalmente edilizia e settore immobiliare). Ne hanno sperimentato le conseguenze anche i tifosi dell'Inter, che in due anni hanno visto il progetto tecnico nerazzurro quasi interamente smantellato.

Altra differenza cruciale sta nell'obiettivo ultimo dell'investimento massiccio nel calcio. Anche la Cina ovviamente puntava ad ottenere vantaggi economici – anche in quel caso specifico era centrale la diversificazione dell'economia – e di soft power, ma il fine ultimo a livello di risultati era vincere la Coppa del Mondo. Xi Jinping voleva – e vuole ancora – rendere la Cina la nazionale più forte del mondo. In un contesto del genere, potenziare il campionato è un mezzo per arrivare ad avere generazioni di calciatori autoctoni sempre più forti. L'Arabia Saudita non ha invece – per ora – come stella polare la vittoria della Coppa del Mondo o comunque il miglioramento immediato della nazionale di calcio. Al momento, gli sforzi sono tutti concentrati sul campionato per la crescita del campionato stesso, con la volontà di attirare capitali esteri, cosa che ad esempio in Cina era fonte di preoccupazione.

La nazionale cinese
Nonostante gli sforzi, la Cina è ottantunesima nel Ranking Fifa. (Reuters)

In più c'è un'altra questione che può risultare decisiva: la spinta dal basso. La Cina non ha mai avuto una cultura calcistica e per fattori educativi e culturali gli sport di squadra non attecchiscono particolarmente nel Paese. Prima dei grandi sforzi per far crescere il calcio cinese, l'interesse della popolazione verso di esso era estremamente moderato e anche successivamente il campionato locale non ha acceso i cuori della maggioranza dei cinesi. In Arabia Saudita, invece, l'interesse per lo sport e per il calcio è in ascesa da prima del boom di investimenti di quest'anno. Si intuisce che quindi il governo saudita non sta cercando di creare una base dal nulla ma sta cavalcando un'onda. E la cavalca portando i campioni che la gente già seguiva guardando i campionati europei, i calciatori-brand, cosa che la Cina non è mai riuscita a fare fino in fondo, lasciando i calciofili locali più propensi a seguire i campionati dove giocano i loro campioni preferiti.

Qual è il ruolo di Chelsea e Newcastle?

Al momento non possiamo dirlo con certezza, eppure ci sono una serie di dati di fatto da cui partire. La prima realtà incontestabile è che i club europei stanno provando a beneficiare del progetto saudita per scaricare calciatori con ingaggi elevati, che pesano eccessivamente sui bilanci. Prendiamo il caso del Chelsea. Sappiamo ormai tutti la vastità della rosa dei blues, che sarebbero stati costretti quest'estate a una serie di cessioni inevitabili. Da inizio giugno, sono già quattro i calciatori passati dal Chelsea alla Saudi League: Hakim Ziyech (all'Al Nassr), Kalidou Koulibaly (all'Al Hilal), N'Golo Kante (all'Al Itthad), Eduard Mendy (all'Al Ahli), a cui va aggiunto l'interesse dell'Al Hilal per Romelu Lukaku. È evidente che nessun altro club europeo risulti coinvolto così direttamente con la Saudi League. Il quadro era abbastanza chiaro da tempo: il nuovo proprietario del Chelsea, Todd Bohely – proprietario anche dei Los Angeles Dodgers, dei Los Angeles Lakers e dei Los Angeles Sparks – si è presentato al calcio europeo innanzitutto come presidente e amministratore delegato di Clearlake Capital, una società di private equity statunitense.

Clearlake Capital gestisce un patrimonio di circa 60 miliardi di sterline. Tra i suoi investitori, ed è questo il tema che in Inghilterra inizia a creare sgomento nell'opinione pubblica, c'è anche PIF. Come ha scritto Calcio&Finanza in un articolo di una settimana fa: «Il Chelsea ha dimostrato di non avere al suo interno fondi di provenienza russa, ma non ha mai pubblicato l’elenco degli investitori presenti e quindi, di conseguenza, non ha mai ufficialmente escluso, nonostante vari tentativi, una possibile presenza di fondi sauditi nell’operazione».

Il legame tra il Chelsea e PIF è preoccupante non solo perché può portare vantaggi competitivi – in questo modo il Chelsea potrebbe facilmente aggirare le regole del Fair Play Finanziario o, appunto, scaricare giocatori in Arabia Saudita. Un anno e mezzo fa, infatti, il fondo d'investimento dell'Arabia Saudita ha completato l'acquisizione del Newcastle per quasi 350 milioni di sterline. Yasir Al-Rumayyan, presidente non esecutivo del Newcastle, che in questi giorni ha parlato ai microfoni del club dopo una stagione «epocale», è anche a capo di Aramco – la compagnia petrolifera nazionale saudita – e il suo legame con bin Salman parte da lontano. La prova visiva che il Newcastle sia praticamente un club saudita ci è poi arrivata la scorsa stagione, durante la quale i Magpies hanno giocato con una terza maglia speciale, i cui colori omaggiavano quella della nazionale saudita.

Le ultime voci di mercato parlano di un interesse controverso del Newcastle per Ruben Neves, che è stato appena ceduto dal Wolverhampton per oltre 55 milioni all'Al-Hilal. In effetti non ci sarebbe niente di strano: Ruben Neves potrebbe tornare in Premier League a un prezzo dimezzato oppure in prestito, visto che i proprietari dietro il Newcastle e i quattro maggiori club sauditi è lo stesso. La sensazione è che l'accentramento del potere economico calcistico verso la monarchia del Golfo, prima o poi possa tradursi in una rilevanza politica e di interessi molto più profondi, considerando che il Newcastle è il primo vero investimento sportivamente estero finanziato da PIF.

L'Arabia Saudita vuole comprarsi la storia del calcio?

In principio fu Cristiano Ronaldo. Il suo arrivo all'Al Nassr sembrò l'ultima prova della sua finitudine, il vitalizio dorato che il calcio riservava a uno dei suoi protagonisti più grandi. "Abbiamo fatto la storia", aveva twittato il club saudita la sera dell'ufficialità. Ronaldo non era neanche sceso in campo, né reso virali all'estero gli highlights della Saudi League, che la sua aura rifletteva già la cosmogonia di una nuova era per lo sport in Arabia Saudita. Fino a quel momento, però, non era niente di nuovo: altri paesi avevano provato a costruire artificialmente una tradizione calcistica di livello acquistando calciatori dall'Europa. Gli USA ci avevano provato negli anni Settanta con la fondazione della NASL, acquistando campioni dell'epoca come Giorgio Chinaglia, Franz Beckenbauer e Pelé. A metà degli anni Dieci di questo secolo è stato il turno della Cina, dove sono arrivati, se non icone mondiali, calciatori importanti come Oscar, Carlos Tevez, Ezequiel Lavezzi. In entrambi i casi i progetti non sono andati a buon fine.

Più passano i giorni, più l'Arabia Saudita sembra vicina a completare un album assurdo di figurine accatastate con un criterio più o meno razionale. A inizio giugno l'Al-Itthiad, campione in carica della Saudi League, ha ufficializzato l'arrivo di Karim Benzema. Nessuno si sarebbe aspettato un addio così violento; il Pallone d'Oro in carica, capitano e leader del Real Madrid, convinto a lasciare il palcoscenico della Champions League con una riunione durata poco più di un'ora. L'Arabia Saudita sta provando a legittimare il proprio ruolo nel calcio mondiale – e in questo senso va letta la possibile candidatura per ospitare i Mondiali del 2030 o del 2034 – attraendo star internazionali sull'orlo del ritiro, ma che agli occhi degli appassionati appaiono ancora come divinità.

L'obiettivo dell'Arabia Saudita è attirare davvero il pubblico calcistico, facendo leva sulla nostalgia verso rivalità che credevamo sepolte. Per questo ha provato ad acquistare Lionel Messi (riuscendo comunque a strappargli un contratto di sponsorizzazione per il paese): la Saudi League come un cimitero artificiale per la storia del recente del calcio. Non è detto sia un piano balzano in sé. Il passo che viene dopo la nascita di uno storytelling che allarghi la dimensione puramente economica è la legittimazione mondiale. Quanti altri giocatori verranno attirati da stipendi fuori logica – prendiamo per ultima la notizia dei 20 milioni a stagione offerti dall'Al-Nassr a Brozovic – che si collegano alla nascita di un campionato semi-competitivo e, passatemi il termine, con questa dose di spettacolo nostalgico? «Secondo me, se continuano così tra cinque anni il campionato saudita può diventare uno dei cinque tornei più importanti al mondo» ha detto qualche settimana fa Cristiano Ronaldo.


  • Classe '99, fervente calciofilo e tifoso dell'Udinese, alla sua prima partita allo stadio vede un gol di Cesare Natali e ne resta irrimediabilmente segnato. Laureato in scienze politiche a Padova e in un corso dal nome lunghissimo che finisce per "media" a Bologna, usa la tastiera per scrivere di calcio e Formula 1 e il mouse per fare grafiche su Canva.

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