10 temi dell'NBA 2022/2023
Tutto quello che abbiamo imparato dall'ultima stagione.
Il primo titolo della storia dei Denver Nuggets ha fatto calare il sipario sulla stagione NBA 2022/2023. Dal Draft della scorsa notte fino alla serata d'ottobre in cui inizierà la Regular Season 2023/2024 sarà tempo di scambi, previsioni, analisi e approfondimenti degli scenari del futuro. Come ogni anno, però, la stagione appena andata in archivio ha proposto spunti notevoli, sia in campo che dietro le scrivanie della Lega più pazza del mondo. Ne abbiamo scelti 10 che, tra il parquet e tutto ciò che ci gira intorno, ci pare siano ascrivibili a dati di fatto e non più a opinioni o impressioni.
C'è sempre più equilibrio competitivo
L.B.: La classifica della Regular Season 2023 parla chiaro: a Est 5 partite di distanza tra il sesto posto (Brooklyn post Armageddon) e il decimo, l'ultimo utile per partecipare al Play-In Tournament (Chicago); lo stesso numero di partite divideva a Ovest i Thunder, giunti decimi, dal quarto seed dei Suns, con ben 6 squadre comprese tra le 45 e le 42 vittorie stagionali. Se già questi numeri da soli raccontano l'equilibrio raggiunto quest'anno dalla Lega, i Playoff appena conclusi ne sono stati ulteriore conferma: moltissime serie sono arrivate a gara 6 e 7 e alcuni 4-0 o 4-1, Nuggets-Lakers su tutti, sono apparsi risultati "bugiardi" rispetto all'andamento della serie.
Non è un caso che Lakers e Miami, entrambe arrivate ai playoff tramite Play-In, siano arrivate i primi alle Conference Finals e gli Heat addirittura alle Finals, confermando la bontà della scelta della Lega circa il mini torneo di accesso playoff. La stagione più equilibrata di sempre ha prodotto i playoff più equilibrati ed incerti di sempre, con davvero 16 pretendenti al titolo.
Solo il tempo ci dirà se siamo di fronte ad un outlier, o se il contesto di equilibrio durerà nel tempo. I prossimi anni, soprattutto, ci diranno di più sulle cause di esso. Al momento le ipotesi più plausibili sono:
- La ridotta importanza della regular season, utilizzata della squadre soprattutto come una lunga preparazione ai playoff;
- Gli effetti di lungo periodo delle politiche di equilibrio competitivo (il pilastro della struttura NBA), Play-In compreso;
- La crescente differenza tra le caratteristiche necessarie per fare bene nelle 82 partite e quelle per avanzare ai Playoff, soprattutto in termini di profondità roster, mix tra esperienza e gioventù, nonché di equilibrio tra punti forti/deboli della squadra.
A seconda di quale sarà giudicato il fattore predominante tra i 3 elencati, la Lega dovrà giungere a conclusioni radicalmente diverse: ad esempio se si certifica un effettivo calo di performatività delle squadre durante la regular season, il rischio nel lungo periodo potrebbe essere quello di un calo di interesse del pubblico per la traversata del deserto delle 82 partite. 6 mesi cioè di partite dalla qualità non altissima. Dall'altra parte invece, l'equilibrio competitivo è un risultato inseguito a lungo, ma che per la natura ciclica della NBA è destinato a durare poco, al pari di qualsiasi status quo della storia della NBA. L'ultimo fattore è già consolidato nella logica di chi segue la Lega: è oramai chiaro che esistano concetti di team building molto premianti nella stagione regolare ma che poi diventano più fragili arrivati alla post-season ("pace basso", "roster profondo ma privo di stelle", "importanza eccessiva al reparto lunghi"). Minnesota, Atlanta e Sacramento, sapete dirci qualcosa?
Joker è il leader migliore possibile nel 2023
M.B.: Con Dario Costa abbiamo parlato della leadership di Steph Curry, fondamentale per i successi della dinastia Warriors, e di come si discostasse dalla narrativa che ha caratterizzato l'NBA dei nostri padri e dei nostri fratelli maggiori. Tra Steph, Giannis e il più recente MVP delle Finals, ecco che un nuovo modello di guida, caratteriale ancor prima che tecnica, si è venuto a delineare.
Ciò non significa che Nikola Jokić debba essere automaticamente posto più in alto in un'ipotetica scala valoriale rispetto alle superstar del recente passato, ma nel 2023 non c'è modo migliore di essere leader by example. La Mamba Mentality di Kobe, l'egotismo esasperato di His Airness veicolato tramite The Last Dance e le manie di protagonismo dirigenziale di LeBron tra Miami, Cavs e Lakers sono, che piaccia o no, figlie di un tempo che ormai non è più, nel quale la pressione mediatica non tanto attraverso i media generalisti ma quanto sui social e sugli schermi del singolo cellulare ha permesso comunque di mantenere un minimo distacco tra gli uomini e gli atleti.
Convogliare l'ossessione nella professione e non viceversa è insostenibile oggi giorno, dove a un'infinità di stimoli e risorse senza precedenti sono da associarsi altrettante bucce di banana e pericoli dietro l'angolo. Non saremo noi a dire che Jokić si dedichi più superficialmente alla vita di atleta o che abbia ottenuto i premi individuali e di squadra unicamente grazie al talento, anzi. Però la capacità di trasmettere la semplicità, il non far pesare all'esterno tutto il peso che inevitabilmente la mente di uno dei giocatori più forti del pianeta è chiamato a trasportare, inevitabilmente genera solo dividendi positivi.
I superteam sono finiti, o almeno obsoleti
L.B.: Riavvolgiamo il nastro all'estate 2019. L'NBA è il gioco delle coppie: Davis-James a LA sponda gialloviola, Leonard-George lato Clippers; i Brooklyn Nets si assicurano di poter schierare, ma solo al rientro dall'infortunio, Kevin Durant affianco a Kirye Irving. I Lakers effettivamente portano a casa l'anello nella bolla di Orlando e, dopo il dominio Warriors, l'NBA sembra tornata ai fasti degli "Instant Team", creati nel soffio di un battito d'ali senza andare troppo per il sottile.
Avanziamo velocemente ai Playoff 2023. I Los Angeles Lakers sono ancora quelli guidati da Lebron e Davis, i Clippers continuano a navigare nel loro status di super team (per quanto falcidiato dagli infortuni), così come i Dallas Mavericks di Doncic e Irving (forse il peggior esperimento della storia recente). Nel frattempo i Nets hanno arricchito ulteriormente il loro roster ingaggiando James Harden, e pure i neonati Phoenix Suns hanno puntato tutto su due pesi massimi come Kevin Durant e Booker.
Nessuno di questi superteam ha vinto l'anello nelle ultime stagioni. Nel 2021 hanno trionfato i Bucks, nel 2022 i Warriors e quest'anno i Nuggets. Provare a sostenere che queste tre squadre siano la raffigurazione della classe operaia che va in paradiso è francamente impossibile, ma sono esempi di gruppi creati e consolidati nel tempo, con concetti di gioco molto riconoscibili. Semplificare ciò che accade in un lega come l'NBA è semplicemente la cosa più sbagliata possibile, ma l'era delle Analytics richiede una preparazione tecnica, tattica e strategica che in squadre composte e strutturate sulla somma di fortissimi singoli può non essere sufficiente.
Oramai gli avversari conoscono tutte le debolezze, proprie e dell'avversario, e il ritmo si è cosi tanto alzato che minutaggi elevati chiedono un tributo fisico esagerato: da li nasce l'esigenza del load management, che però può penalizzare quelle squadre dove la qualità è concentrata nella figura di pochi singoli giocatori, rispetto a quelle con un impianto tattico ben codificato e che coinvolge ogni componente della rosa.
Non esistono realizzatori migliori di Devin Armani Booker
M.B.: Come poter considerare il prodotto di Kentucky lo scorer più grande dell'intera NBA quando non solo non è tra i primi 10 giocatori dei Playoffs (16 squadre su 30, giova ricordarlo) per palloni toccati e tempo trascorso palla in mano, ma non è nemmeno il primo nella sua squadra? Se la squadra è Phoenix e il #35 è Kevin Durant è logico che gli spazi e i modi per mettersi in mostra sono più limitati. O meglio, sarebbero. Il condizionale è d'obbligo, perché la crescita di Devin Booker continua a regalarci nuovi orizzonti esplorabili dal figlio di Melvin.
Tenere il 68% di True Shooting e il 29% di Usage per una run Playoff da 11 partite è un unicum nella storia dell'NBA. A livello di efficienza al tiro quella di Booker è stata la 55esima prestazione nella storia della Lega, ma tra quelli più in alto di lui in classifica solo Reggie Miller nel 1993 (27.4%), Donovan Mitchell nel 2020 (37,5% ma solo 7 partite e senza un KD con cui dividere i possessi) e Khris Middleton 2018 (24.1%) possono avvicinarsi nel coniugare quantità e qualità nella gestione dell'attacco. I 47 di gara 3 coi Nuggets sono il manifesto dell'ineluttabilità offensiva di Book.
Non si tratta di dire che sia un giocatore globalmente migliore, più funzionale per un contesto vincente o più forte di X o Y. La strutturazione dei Suns, a maggior ragione dopo la trade che ha portato in Arziona Bradley Beal, non consente di immaginare cosa potrà accadere nel medio-lungo periodo, ma questi Playoff hanno messo in chiaro due realtà incontrovertibili: Kevin Durant non è lo scorer migliore dell'NBA e non lo è nemmeno nella sua squadra. Colpa, o merito, di Devin Booker.
Non ha più senso riporre aspettative nelle rivoluzioni estive
L.B.: L'estate scorsa, a poche ore dall'inizio della Off-Season, l'NBA fu terremotata dalla richiesta di trade da parte di Kevin Durant, il quale sembrava aver anche definito una lista di possibili destinazioni gradite. Inizialmente la Lega impazzì, con Miami, Phoenix e Toronto a dialogare con Sean Marks per portarsi a casa l'ex Warriors. Poi accadde:
Se Gobert valeva 5 giocatori e 5 prime, cosa mai poteva essere sufficiente per avere Durant? Poi risuccesse:
Dalla trade Spurs-Hawks per Murray il mercato NBA semplicemente entra in un'era glaciale dopo due colpi da KO alla sua consistenza valutativa. Alcuni parlarono di "Mozgovization", richiamando l'assurdo contratto firmato dal centro russo nell'estate del 2016 coi Lakers, sull'onda del nuovo ricchissimo regime salariale, a seguito dell'esplosione del BRI (Basketball Related Income, somma dei ricavi relativi al business NBA non contenuti nei contratti dei giocatori ma generati da attività direttamente o indirettamente legati alla loro attività) proprio di quell'estate.
Fin da subito, i commenti di chiunque si interessasse di NBA vertevano sulle conseguenze per i due grandi acquirenti, i T'Wolves e gli Atlanta Hawks. Le due franchigie avevano di fatto ipotecano il proprio futuro per portarsi a casa rispettivamente Gobert, un intimidatore d'area di proporzioni storiche ma che aveva ampiamente dimostrato la propria inconsistenza a livello playoff e chiamato ad un'impossibile co-esistenza con Karl Anthony Towns, e Murray, playmaker con poco tiro ma molto esplosivo, che però ha necessità di avere molto la palla in mano. Nella squadra di Trae Young.
La stagione ha ampiamente dato ragione ai critici, in modo quasi impietoso: Minnesota ha chiuso settima con un record di 42-40, accedendo ai playoff da ottava e uscendo subito 4-1 dai futuri campioni di Denver; dall'altra parte non è andata molto meglio, con Atlanta che ha chiuso la stagione regolare 41-41, dopo aver anche cambiato coach, e hanno dato del filo da torcere ai Celtics, uscendo battuti in 6 gare.
Ci si chiede ora quale sarà il piano B, come potranno cioè le due franchigie uscire da questo pantano tecnico-strategico. Occorrerà rifare tutto da capo, per non finire nella situazione dei Nets post Prokorov: senza possibilità di fare strada nella post season e con un rebuilding sostanzialmente impossibile a causa della cessione delle proprie scelte future a un'altra franchigia. L'impressione è che in futuro i management NBA ci penseranno due volte prima di mettere così tanto nel piatto. Giusto pensare in modo non convenzionale, ma la differenza tra coraggio e stupidità è sottilissima, specialmente quando di mestiere fai il GM NBA. Qualcuno non l'ha evidentemente detto a Mat Ishbia.
Il fallo di piede deve diventare fallo antisportivo
M.B.: Premessa: questo non significa criticare le scelte dei giocatori, la cui forza e scaltrezza sta anche nello sfruttare ciò che il regolamento permette loro di fare. Ci si è scagliati per anni contro la capacità dei vari Harden, Trae Young e Chris Paul di trarre a proprio vantaggio la rimozione dell'hand checking prima che il regolamento si adattasse a un gioco molto più spezzettato dagli eccessivi viaggi in lunetta. Forse proprio il Barba è stato il giocatore più flessibile e camaleontico nell'assumere forme diverse a seconda di cosa fosse concesso alla difesa e cosa all'attacco. Non significa, quindi, indicare il singolo cestista colpevole per rispettare il regolamento, ma forse analizzare la realtà dei fatti grazie alla visibilità dei diretti interessati può aiutare a una modifica delle regole.
In gara 4 delle Finals il centro di Sombor ha commesso ben quattro kick ball violation, intercetti volontari col piede per ostruire la linea di passaggio che non solo interrompono l'azione ma di fatto annullano il vantaggio creato. Così come nel calcio non si può toccare la palla con gli arti superiori, nemmeno involontariamente ormai, così nella pallacanestro è punito il tocco volontario con quelli inferiori. Esiste però qualcosa di più antisportivo di scontare sostanzialmente nessuna pena quando si fa qualcosa di non consentito dal regolamento? L'NBA ha nuovamente l'occasione di sfruttare la bellezza del suo esponente più in vista per cambiare, in meglio, la storia del Gioco.
Il nuovo CBA sarà la rovina dell'immediato futuro NBA
L.B.: Il 27 Aprile la NBA e la Associazione Giocatori annunciavano di aver raggiunto un accordo per il nuovo Collective Bargain Agreement, il contratto di lavoro dei giocatori NBA. Queste le principali modifiche introdotte:
- Ulteriore limite salariale, 17 milioni sopra l'attuale Luxury Tax, oltre la quale la capacità di manovra delle franchigie interessate sarà notevolmente intaccata (Beal è passato a Phoenix prima della chiusura effettiva della stagione 2022/2023 proprio per questo: dal 2 luglio in avanti la squadra potrà assorbire solo il 110% dei salari mossi in uscita, mentre oggi il trade kicker è fissato al 125%);
- Tetto al massimo aumento salariale rispetto a stagione precedente, per evitare scalini esagerati, come quello avvenuto nel 2016;
- Possibilità per le squadre di trattare con i propri free agent "Bird Rights" appena terminate le Finals con un vantaggio di quindi circa 2 settimane rispetto alle altre;
- Introduzione di un torneo Mid-Season, al quale parteciperanno tutte le squadre, ma che avrà una fase finale a 8.
I dettagli sono poco chiari, ma quest'ultima modifica andrà a congestionare ulteriormente un calendario che avrebbe invece bisogno di essere alleggerito. È chiaro che 82 partite in 6 mesi sono oggettivamente troppe per poter assicurare un livello di spettacolo all'altezza.
Senza mezzi termini, la Regular Season ha interi segmenti (specialmente post ASG) ad attrattività molto limitata anche per gli appassionati: è giusto cercare di darle una maggior importanza competitiva e anche i nuovi limiti di gare disputate per i premi stagionali vanno in questa direzione, ma pensare che gli atleti odierni, con il gioco di oggi, siano sempre al massimo ogni notte è pura utopia. L'epoca del load management non nasce da capricci delle superstar. Nell'era delle Analytics, l'attenzione verso la condizione fisica e l'integrità fisica conduce inevitabilmente verso politiche del genere, e la colpa non è certo di chi le pratica. Ci si potrebbe chiedere cosa possa attrarre maggiormente il pubblico: la quantità no matter what, o un minor numero di partite, di qualità maggiore, specialmente sapendo che riducendo le partite ognuna di esse avrebbe un peso specifico maggiore?
A marzo non si devono guardare le partite e i risultati
M.B.: Prendiamo le 8 squadre arrivate al secondo turno dei Playoffs 2023 e prendiamo i loro record nel mese di marzo, quello conclusivo della stagione regolare NBA. Le migliori 8 delle 30 squadre occupano queste posizioni nel parziale delle circa 15 partite conclusive (dalle 14 alle 17 a testa, per la precisione), quasi il 20% del totale: 76ers 1° (12-5), Lakers 5° (10-5), Celtics 7° (10-6), Knicks e Suns 10° a parimerito (9-6), Warriors 14° (9-7), Nuggets 16° (7-7), Heat 20° (7-8). Troppo facile limitarsi alle due finaliste, il campione sarebbe stato troppo ridotto, ma il fatto che solo 3 siano in top10 la dice lunga su quanto abbia senso vedere tutt'altre competizioni sportive piuttosto che la National Basketball Association in quel periodo dell'anno. O meglio: se si vuole guardarla, non bisogna prenderla sul serio.
Un mese dove Spencer Dinwiddie è il 4° miglior assistman della Lega (9.7 APG), dove Tyrese Maxey tira il 51.3% da 3 su 7 tentativi a partita e D'Angelo Russell ha il 3° +/- di tutta l'NBA (+9.7), quanta valenza può avere sugli imminenti Playoffs? Nessuna. La questione gravosa è il recency bias che attanaglia il dibattito dello sport contemporaneo, dove ha senso dare peso solo a quello che è appena successo pensando che si protrarrà in eterno. La March Madness, l'inizio di Formula 1 e MotoGP, le Classiche di Primavera del ciclismo, la Champions League che entra nel vivo: alternative credibili e attendibili per fare e guardare altro ci sono.
Si arriva a competere seguendo vie diverse
L.B.: La stagione 2020 rimarrà per sempre "the Bubble Season"; non potrebbe essere altrimenti dopotutto viste le conseguenze del Covid-19 sulle nostre vite. L'accezione però è spesso usata come etichetta per assegnare una minor importanza ai risultati che ne scaturirono: il titolo dei Lakers già citato, l'ottimo cammino degli Heat e dei Nuggets o il famoso 8-0 di Phoenix nei cosiddetti Seeding Games. Appena tre anni dopo però, le quattro squadre giunte alle Conference Finals sono esattamente le stesse di Orlando, per giunta tutte con nucleo base molto simile al 2020.
I Lakers si poggiano ancora sul duo Davis e Lebron, finalmente più liberi da infortuni rispetto agli ultimi due anni e attorno al quale hanno ricostruito un supporting cast adatto a completare le caratteristiche dei due. I Nuggets, si potrebbe dire, vanno dove li porta il P&R Jokić/Murray, l'arma contro la quale al momento non c'è risposta, ma vorrebbe dire sminuire il resto. La dirigenza Nuggets ha lavorato con pazienza e metodo, inserendo giocatori importanti al Draft (Jokić, Murray, Michael Porter Jr e Christian Braun), tramite free agency (Kentavious Caldwell-Pope, Bruce Brown e Jeff Green) e centrando la trade di Aaron Gordon: quest'ultimo è stato la ciliegina sulla torta, il giocatore perfetto che mancava nel meccanismo che ruota attorno alla capacità di passaggio di Jokić.
La stessa pazienza e metodo è stata applicata in casa Celtics. Oramai da anni il duo Tatum-Brown è il cuore delle ambizioni biancoverdi e qualcuno sotto sotto comincia a sospettare siano troppi. Benché siano stabilmente da anni alle Conference Finals (con apparizione alle Finals nel 2022), a Boston sembra però costantemente mancare il classico centesimo per arrivare al dollaro. Boston è forse "la più squadra" tra le 30 della Lega, con una struttura ben delineata: negli ultimi anni le sconfitte sono maturate da un chiaro aspetto tecnico (le palle perse) derivante da una certa pochezza e frugalità degli schemi offensivi.
Palese che gli elementi per vincere ci siano tutti, ma quanto si potrà aspettare prima che Brown cominci a migliorare le proprie scelte offensive?
Infine gli Heat. La favola di questi playoff. Dopo un record di 44-38 in regular season e aver seriamente rischiato di non oltrepassare il play-in, il gruppo di Spoelstra (miglior coach della Lega) si è inventato una cavalcata incredibile, aiutata sicuramente dall'infortunio di Giannis nella serie coi Bucks, ma pienamente legittimata dalla gara-7 al Boston Garden, dopo essersi fatti riacciuffare dal 3-0 al 3-3. Durezza mentale e fisica, volontà di competere, condizione fisica sempre migliore di chi si trovano davanti, riluttanza totale alla sconfitta: sono queste gli elementi base della "Heat Culture" di Pat Riley.
Quando hai questa cultura, anche i famosi undrafted (giocatori che non sono stati scelti al Draft, in altre parole: scarti della Lega) possono trasformarsi in titolari o giocatori decisivi dalla panca: questo è il caso di Struss, Gabe Vincent, Caleb Martin e Duncan Robinson. Ovviamente per arrivare alle Finals ti servono anche le stelle, e Butler e Adebayo lo sono. Oltre a questo però incarnano al 100% lo spirito di Riley: ecco il segreto di Pulcinella di Miami.
Quattro squadre, quattro filosofie diverse, quattro storie di successo: l'NBA è una Lega affascinante perché le strade per vincere sono davvero tante e ogni anno è difficilissimo indovinare chi alzerà il Larry O'Brien Trophy. Le regole ferree per potersela giocare sono poche: avere 2 giocatori tra i primi 30 della Lega, di cui uno almeno nei primi 10 e il minor numero di debolezze da dover nascondere ai playoff. Da lì c'è libertà totale di metodo: chi rimarrà più coerente ad esso nel tempo avrà maggiori chance degli altri.
I passaggi in salto sono diventati una buona scelta
M.B.: Non esiste ancora un portale che tenga conto delle statistiche, delle percentuali e dell'efficacia dei passaggi in salto tra tutti quelli eseguiti su un parquet NBA. Non escludiamo tuttavia che già dalla prossima stagione, vista la rapidità con cui la Lega ci ha abituato a reagire alle nuove tendenze, che ci saranno sezioni dedicate esclusivamente a questo aspetto del gioco. Perché è proprio il caso di dirlo: "Jump passes are good now", come è stato sottolineato anche in questa puntata del podcast The Dunker Spot.
Dieci anni fa tra i primi 10 della Lega per assist a gara c'erano Greivis Vasquez, Jrue Holiday e Goran Dragic. Anche solo nel 2018 era in top 10 un playmaker decisamente più ortodosso in quanto a tecnica di passaggio come Jeff Teague. Ora è pressoché impossibile non considerare fondamentale nell'evoluzione del passing game anche i jump passes.
"Non passare mai la palla quando hai entrambe le gambe staccate da terra" è uno dei primissimi insegnamenti che qualsiasi allenatore di minibasket ha sempre cercato di inculcare in chi muove i primi passi con una palla a spicchi tra le mani. A maggior ragione ad altissimi livelli, però, ormai le dimensioni dei corpi che occupano il terreno di gioco impongono di esplorare nuovi punti di vista per creare vantaggi e trovare il compagno smarcato. Così come il jumpshot di Hank Biasetti ha rivoluzionato il modo di tirare una palla dentro al cesto, il fatto che si sia sempre più grossi, più lunghi e più atletici porterà a considerare Jokić, Dončić e Haliburton come trend setter storici.
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