Non vedremo un altro Ibrahimovic
La sua personalità è stata parte della sua grandezza.
Alla fine esce sempre fuori per come è. Neanche un vortice di emozioni e lacrime condizionano Ibrahimovic e fargli togliere la maschera da Zlatan. San Siro è gremito. Lui indossa una camicia nera, un look da tamarro elegante che guarda caso gli calza a pennello. Ha il microfono in mano per l’ultimo saluto della sua carriera. Non riesce a trattienere il pianto emotivo, come non lo trattengono molti sugli spalti.
Dalle casse dello stadio esce Enya con la sua musica idilliaca. Appena si spengono, Ibra comincia a parlare: “Non respiro, ma va bene”. Parte con il discorso che si era studiato ma subito esce dalla parte per tornare se stesso appena sente i fischi dei tifosi dell’Hellas Verona proveniente dal settore ospiti: “Fischia, fischia. Questo è momento di vostro anno, che vedete me”.
San Siro si gasa, esulta come avesse fatto un numero dei suoi in campo. Lo è stato davvero, il suo ultimo show, la sua ultima frecciatina, la sua ultima giocata, per quanto senza pallone. L’ultima volta che ha indossato quella maschera da strafottente, da pallone gonfiato. Come detto, neanche lì ha rinunciato a indossarla. E a questo punto viene da dire che non era affatto una maschera. Che Zlatan è questo, spontaneo ai limiti dell’arroganza, nel bene e nel male. È per questo che il suo addio è stato così intenso e ammirato, anche da chi lo ha sempre considerato antipatico. Un altro Messi o Ronaldo prima o poi potrebbero uscire fuori. Ma, mi sento di dire, come Zlatan non ci sarà mai nessuno.
Non saprei dire quanto contano i suoi numeri ma è giusto metterli visto che stiamo parlando di un calciatore ritirato. Ibrahimović, tra club, nazionale maggiore e nazionali giovanili, ha collezionato 999 partite segnando 580 reti, più di uno ogni due partite. Il club con cui ne ha segnati di più è il PSG, con 156. Lì è sembrato onnipotente, al punto che si parlava più del suo carattere che di quanto fosse stato decisivo per quel club che voleva diventare un colosso. Ha sempre fatto parlare di se tanto come calciatore quanto come personaggio, anche quando era fuori dal campo infortunato, anche quando era dall’altra parte del mondo scegliendo di assaggiare l’esperienza dell’MLS e la vita losangelina con i Galaxy.
Anche quando è andata a Sanremo a fare l’ospite, con i suoi ingressi boriosi accompagnati da musica balcanica e battute neanche così esilaranti su Amadeus e Achille Lauro. La cosa che ha contraddistinto la sua carriera è che non ha mai smesso di stupire. Aveva detto che si sarebbe ritirato presto, che non voleva vivere un declino. Non è andata così ma è difficile parlare di declino nei suoi ultimi anni di carriera. Questo perché Zlatan si è adeguato. Al calcio moderno, al suo fisico, al fatto che i compagni giovani potevano scalzarlo dalle gerarchie. Addirittura al suo ruolo in campo, cambiandolo. Da terminale offensivo dotato di estro è diventato un regista offensivo, in grado di attirare pressione, liberare spazio per i compagni ed essere in grado di servirli con passaggi semplici o complicati.
Quando è tornato al Milan era legittimo che ci fosse qualche dubbio. Era il campione al tramonto che si univa ad una squadra disastrata e sfiduciata. Cosa poteva fare, con la sua età e i suoi infortuni? Poteva davvero fare la differenza o era lì solo per vendere magliette? Poteva davvero incidere in campo al punto da aiutare il Milan ad essere qualcosa di più di una risicata qualificazione in Europa League? Sembrava improbabile, e invece ha stupito per l’ultima volta.
Ci sono state delle partite in cui sembrava un palo della luce, ma se si guarda con attenzione il suo lavoro in campo è stato sempre prezioso per quanto alle volte estemporaneo. Un giocatore ancora in grado di regalare alti momenti di calcio, come il colpo di tacco con cui ha mandato in porta Castillejo contro il Benevento. O il gol contro la Fiorentina, troppo bello per essere annullato dal suo tocco di mano involontario. O la punzione contro la Roma. Momenti che hanno ricordato che Ibra è stato uno dei pochi in grado di saper fare la differenza ad alto livello in campo in Serie A a quasi 40 anni. La sua leadership e dedizione in campo hanno aiutato Pioli e compagni a convincersi di avere le carte per poter competere in Serie A nel suo breve ciclo finale da Milanista.
La grandezza dell'ultimo Ibrahimovic è stata quella di sapersi adattare. È ironico come proprio Ibra fosse stato sempre accusato di questo durante la carriera. Quello che cambiava sempre squadra perché viziato ed esuberante. Quello in grado di giocare sia per Juve, Inter e Milan, facendosi sia amare che odiare da quei tifosi. Quello che era andato al PSG a prendere i soldi in un campionato meno competitivo. Quello che annunciava il suo stesso trasferimento allo United, scegliendo un semplice contratto annuale. Il primo grande campione dopo David Beckham ad andare in MLS. E invece proprio a fine carriera ha fatto delle rinunce rispetto agli altri colleghi pur di restare ad alto livello e dove voleva, al Milan. Il club in cui più si è sentito a casa.
Lui stesso aveva ammesso di non aver vouto il trasferimento al PSG, trovandosi costretto dalla dirigenza del Milan ad andare via per togliere il suo pesante ingaggio dal bilancio. Quella storia non gli doveva essere andata giù e si è impegnato per tornare a San Siro alla prima occasione utile, facendo una mossa intelligente tanto per lui quanto per il club. Ha riscritto la propria immagine, dimostrandosi intelligente e non sbruffone.
Prima sì, invece, sembrava solo uno sbruffone. Quel tipo di giocatore che quando segna ti da fastidio, ti irrita facendoti dire “sei così forte, perché ti atteggi da pallone gonfiato?”. A me è successo la prima volta durante Italia-Svezia a Euro 2004, quando si inventò il gol di tacco più assurdo che ancora ricordo. Sull’azione confusa e palla in area è riuscito ad anticipare Buffon con un colpo di tacco che solo lui poteva pensare, mandando il pallone proprio nello spazio tra la traversa e la testa di Vieri, l’uomo su quel palo. Ibra mi aveva esasperato per tutta la partita. “Come fanno a dire che è forte questo?” dicevo “È solo grosso, tutto fumo niente arrosto”. Con quella giocata, quella che ha presentato Ibra agli italiani che ancora non sapevano quanto avrebbe inciso sulla Serie A dei 20 anni successivi, cominciai ad arrendermi al suo talento. Ne fece tanti altri di gol che mi fecero dire la stessa frase. Mi arresi definitivamente dopo una punizione calciata come un missile contro la Fiorentina, quando indossava la maglia dell’Inter. Lì pensai “Ok, se fai ste cose puoi comportarti come vuoi”. Ed era solo l’inizio.
Dopo arrivarono una serie di giocate che ancora oggi sono limpide nella mia memoria. Il gol al volo da 35 metri contro il Lecce. La rovesciata pazza da 30 metri contro l’Inghilterra. Le varie sassate da fuori area che ha siglato con la maglia del PSG. Le rovesciate con la Svezia. Giocate che facevano passare in secondo piano le volte in cui in campo non sapeva controllarsi e stuzzicava gli avversari rischiando l’espulsione. Molte volte lo hanno aspettato al varco, molte volte lui se l’è proprio cercata. Altri momenti in cui torna a stare antipatico. Come tutte le volte che imbruttito arbitri, avversari e giornalisti. Che ti viene da dire: “ma che bisogno c’era?”. Ed erano proprio quelle situazioni che ci mettevano di fronte a Ibra per come è totalmente. Adesso che sono passati anni non ci sono più dubbi. Quelle non sono maschere da boro, sono altrettanto colpi di talento quanto i suoi gol, dribbling o passaggi. Era il suo modo di giocare, di divertirsi, di essere unico.
In molti hanno cercato di colpire questa sua caratteristica come il motivo per cui Ibrahimovic non ha mai vinto la Champions League. La verità è che è stato sfortunato. Quanta sfortuna devi avere per andare nel Barcellona proprio l’anno in cui, in semifinale, Mourinho tira fuori la sua masterclass? E se poi vai al Milan e immediatamente dopo il Barcellona vince di nuovo la Champions League? È stata la sfortuna, o meglio episodi. E il calcio è uno sport episodico, e in quel frangente a Ibra gli episodi hanno detto male. Ma non per questo è stato un giocatore non decisivo, non al livello di altri.
Anche senza grandi trofei internazionali, escludendo l'Europa League vinta da infortunato, Ibrahimovic resta uno dei 3 calciatori più influenti dell’ultimo ventennio. Non ha smesso di esserlo neanche dopo il suo infortunio al crociato a Manchester. Gli davano del finito; del resto, con quel fisico era difficile non rifarsi male, non adeguare la propria forza e il proprio gioco ad un ginocchio più debole di prima. Lui però ha stupito di nuovo tutti. Con il ritorno al Milan si è fissato un obiettivo: dimostrare che Zlatan era ancora Zlatan.
Pochi giocatori si sono messi in gioco così nel finale di carriera. Ancora meno hanno avuto anche la sua determinazione nell’aiutare tanto il collettivo. Al suo ritorno al Milan, ormai alle porte dei quarant'anni, ha fatto 10 gol e 5 assist in 18 partite. La stagione successiva ne ha segnati 15 in 19 gare. Finché il fisico lo ha sostenuto è stato un fattore sia performando sul campo che aiutando i suoi compagni, trasmettendo loro la sua fame. E quando il Milan non vinceva, lui ci ha sempre messo la faccia, ma senza lasciare intendere che stesse remando da solo.
Ronaldo, con uno stato di forma diverso, non ha mai pensato questo negli ultimi anni alla Juventus e al Manchester United ma a sé, trattando le sue squadre come strumenti per celebrare la sua grandezza. Prima di Zlatan, proabilmente, l’unico giocatore offensivo influente in maniera positiva a quasi 40 anni è stato Ryan Giggs, ma forse non in modo così evidente. Come Ibra, possiamo dirlo, non c'è stato nessuno. E i frutti del suo lavoro hanno portato in dote al Milan uno scudetto inaspettato e bellissimo.
Questo finale di carriera ci ha detto che il titolo che aveva scelto Daniele Manusia per il libro su di lui: “Zlatan Ibrahimovic, una cosa irrepetibile”. Si, è stato davvero una cosa irripetibile: come lui non vedremo nessuno. Forse vedremo un talento grande come il suo su un fisico enorme come il suo. Haaland, forse, oggi è la cosa che più ci si avvicina come determinazione e dominio fisico sugli avversari, ma forse non avrà mai il suo stesso carisma né il suo stesso senso di potere. Però nessuno avrà mai più le sue doti da capopopolo, che sia in campo o davanti ai microfoni.
Nessuno sarà più così influente sulle sorti della propria squadra nell’arco di un’intera stagione a quarant'anni. Ibra ha spremuto tutto il suo talento e il suo carisma fino all'ultima goccia, meritandosi il saluto commosso di San Siro e saldando la sua narrazione a quella del Milan, rompendo quella, ormai stantia, del mercenario che lo ha accompagnato lungo tutta la sua vita. Noi siamo stati fortunati a godercelo, al punto che forse possiamo anche mettere da parte tutti gli aspetti del suo carattere che lo hanno reso antipatico. Perché si Ibra è antipatico, arrogante, aggressivo. Ma chi non è attratto da chi usa la propria aggressività con questa determinazione? Chi non vorrebbe, almeno un po', essere così? Per questo alla fine abbiamo tutti un po’ amato, o invidiato, Zlatan Ibrahimovic.
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