Metti un giorno a vedere la Pro Recco
Reportage da una partita della più gloriosa squadra della pallanuoto.
Nella mia infanzia di bambino nato e cresciuto sulle rive del Levante genovese e che non ha mai giocato a pallanuoto, la pallanuoto non era un semplice sport. Ai miei occhi ingenui, quei quattordici bestioni che facevano friggere l’acqua della piscina a furia di bracciate, stavano compiendo la reiterazione di un rituale arcaico, una specie di titanomachia che vedevo raffigurata tutti i giorni sulle pareti della mia stessa casa. All'epoca vivevo in un palazzo che se ne stava aggrappato sul versante della collina, stretto tra la spiaggia, una viuzza tortuosa e lo Sturla, il torrente che dà nome al quartiere. L'edificio era conosciuto da tutti come “il palazzo degli atleti”, perché le pareti esterne ed interne erano, e sono tutt’ora, decorate con stucchi e bassorilievi raffiguranti nuotatori e pallanuotisti che io osservavo con la stessa fascinazione del contadino medioevale di fronte ai racconti biblici scolpiti sulla facciata di una cattedrale. Affacciandomi dalla finestra della cameretta o dal balcone, poi, vedevo la spiaggia interrotta dalla sagoma della piscina e le bandiere verdi e bianche della Sportiva Sturla sventolare fradice di salsedine davanti alle mareggiate.
Ciò che contribuiva alla mia idealizzazione di questo sport, poi, oltre ai simboli e alle strutture, erano le fattezze dei pallanuotisti che incontravo nel corridoio che dagli spogliatoi portava alla piscina alla fine delle lezioni di nuoto. Uomini enormi, ai miei occhi alti tre o quattro volte la mia persona, con spalle larghe come armadi e petti su cui si sarebbe potuta apparecchiare una cena per otto persone. Non mi sembravano appartenere alla mia stessa specie. Erano titani, oppure giganti, creature semidivine simili a quelle dei miti greci che mio padre mi raccontava prima di andare a letto.
Con il passare degli anni, tra medie e inizio del liceo, i pallanuotisti cominciarono ad assumere una fisionomia più umana. Tanti ragazzi che conoscevo giocavano e, nella mia scuola, davano vita a dinamiche simili a quelle dei giocatori della squadra di football nei telefilm americani. Giravano in gruppo e li si poteva riconoscere – oltre che dalla stazza – da un paraorecchie della calottina appeso allo zainetto Eastpak. Soprattutto, avevano un grande, enorme successo con le ragazze più carine, davanti alle quali io invece cadevo lesso come una fainting goat davanti a un ombrello aperto. Crescendo, il timore reverenziale per quelle creature leggendarie si era trasformato in qualcos’altro, la prospettiva era cambiata, ma una parte del fascino rimaneva intatto.
A un certo punto delle scuole superiori, l’ombra lunga della pallanuoto è scomparsa dalla mia vita. Nuovi amici, altri giri, altri interessi, un trasloco in città e tanti anni all’estero hanno contribuito a spezzare quel legame indiretto che per quindici anni era stato una costante involontaria ma inevitabile nelle mie giornate.
Da qualche mese sono tornato a Genova. Quasi in contemporanea, mia madre è tornata a vivere nella casa di fronte al mare in cui sono cresciuto. Oggi guardo lo sport con occhi molto diversi rispetto all’adolescenza, la spontaneità e lo stupore hanno lasciato il posto a una visione più complessa e sfaccettata. Ma mi è bastato rivedere la sagoma scura della Sportiva Sturla al tramonto e le bandiere verdi e bianche contro l'orizzonte per far riaffiorare in me l'emozione ancestrale che provavo da bambino. In questi mesi ho pensato più volte a scrivere qualcosa sulla pallanuoto, ma non essendo né un esperto né un grande appassionato non sapevo bene che forma dare a questo desiderio. Poi ci sono arrivato: l’unica strada era quella biografica. La narrazione diretta e (spero non troppo) emozionale dell'esperienza personale, il racconto un po' gonzo. Così ho cominciato a scrivere questo pezzo.
L'importanza della Pro Recco
Non è l'unica cosa che ho fatto. Ho deciso pure di comprare i biglietti per l’ultima partita stagionale della Pro Recco, programmata per il 24 maggio a Punta Sant’Anna, la piscina di casa. Per fortuna, il match era di altissimo livello: Pro Recco-Olympiakos Pireo, due tra le quattro-cinque migliori squadre al mondo, e pure il peso della partita era stimolante, dato che le due contendenti si giocavano il secondo posto nel girone di Champions League che avrebbe garantito un sorteggio migliore nella successiva Final Eight. Un nugolo di volonterosi amici ha deciso di seguirmi: quando si va a vedere eventi sportivi dal vivo la compagnia non guasta mai.
Soltanto al momento dell’acquisto mi sono reso conto di quanto fosse assurdo che uno come me, da sempre appassionato spettatore di qualunque sport, non si fosse mai e dico mai spostato di quei pochi chilometri sufficienti a veder esibirsi la squadra sportiva che fuori da ogni discussione è la più importante e vincente della Liguria – se non, addirittura, d’Italia.
Per chi non lo sapesse, la Pro (d’ora in poi la chiamerò affettuosamente così) si potrebbe paragonare alla Juventus o, ancora meglio, al Real Madrid della pallanuoto. Tra il 1959 e il 2023 si è assicurata 35 scudetti, dei quali 9 consecutivi tra ‘64 e ‘72 e 15 negli ultimi 17 anni. Solo la pandemia nel 2020 e l’impresa di Brescia nel 2021 hanno interrotto questo filotto impressionante. Ma per essere "il Real Madrid della pallanuoto" serve qualcosa di più delle vittorie domestiche: nella bacheca della Pro figurano anche 10 Champions League, più di qualsiasi altro club. Le ultime due le ha vinte consecutivamente. Oltre alla Champions, la Pro ha conquistato 8 Supercoppe Europee e persino una Lega Adriatica, il campionato riservato ai paesi balcanici.
Complice l’immaginario sulla pallanuoto che mi sono autocostruito in tanti anni (sì, forse dovrei parlarne al mio terapeuta), complice l’aura di invincibilità della Pro Recco, le mie aspettative erano alle stelle. La partita si giocava in orario tardo pomeridiano e in un luogo che conosco a menadito. Poco importa che la pallanuoto sia uno sport poco seguito in Italia (date un’occhiata alle tribune delle piscine ungheresi, greche o balcaniche!), prima di prendere il treno ero gasato come un ragazzino che va alla sua prima notte europea a San Siro.
Il viaggio
Si gioca alle 19, alle 17 sono già in stazione. La giornata è splendida, il regionale al binario 14 di Piazza Principe incredibilmente puntuale, la birra fresca in una mano e il sorriso scemo di chi sta andando incontro a una serata che aspetta da tempo. Per chi non ci fosse mai stato o non l’avesse mai vista nemmeno in cartolina, è necessario descrivere in breve Recco.
Recco ha un aspetto piuttosto modesto per essere una città che ospita la più grande, ricca e importante squadra di uno sport professionistico e olimpionico come la pallanuoto. È una placida cittadina rivierasca – anche se con 9377 abitanti forse è più corretto definirla un paesone che una cittadina – a un paio di uscite autostradali dal centro di Genova, affacciata su quel piccolo paradiso chiamato promontorio di Portofino. Il nome della città deriva dal torrente perennemente in secca che divide in due l’abitato, nel cui letto si svolge ogni anno per la natività della Vergine Maria una grande esibizione di fuochi d’artificio e grossi petardi metallici detti "mascoli". Oltre alle sagre pirotecniche e alla Pro, Recco ha un altro vanto per cui è conosciuta nel mondo: la deliziosa focaccia al formaggio, un mare di crescenza abbracciato da due sottilissimi strati di impasto.
Incredibilmente, passeggiando per il paese sembra che la Pro attragga molto meno interesse rispetto a feste locali e delizie da forno. Nel tragitto tra la stazione e la piscina, non vedo né una bandiera né un gagliardetto né un graffito bianco-azzurro, «eppure stasera si gioca una delle partite più importanti della stagione» commenta uno dei miei amici, aggiungendo con il più ordinario classismo da cittadino in gita in provincia: «ma si sa che a Recco sono un po’ abelinati».
Man mano che ci avviciniamo alla piscina, una leggera brezza ci porta alle narici il profumo del mare. Siamo abbastanza in anticipo e possiamo permetterci di prendercela comoda: ci fermiamo in un bar per un caffè, poi in un altro per una birra fresca. Nelle persone con cui scambiamo due chiacchiere, negli angoli della città che ci circondano, tutto è eccezionalmente tranquillo. Non si percepisce particolare ansia o eccitazione per la partita, buona parte degli abitanti del posto è a malapena al corrente che si giochi. «Andate alla piscina? Ma giocano “i grandi”, vero?» mi dice un signore davanti alla storica gelateria Cavassa. Nonostante per me stia per succedere qualcosa di straordinario – la sfida tra due delle squadre più forti del mondo (e della storia) della pallanuoto – ho l’impressione che per Recco e i Recchelini le vittorie della Pro siano ormai ordinarie. Qualcosa a cui il paese è abituato, come la focaccia al formaggio. Non come la Sagra del Fuoco di inizio settembre, che invece è sempre attesissima nonostante si ripeta sempre uguale da decenni.
Arrivati a Punta Sant’Anna, la vista è la più bella che io abbia mai goduto nei pressi di un impianto sportivo. Tenendo la vasca alle spalle, alla mano sinistra si allunga la spiaggia di Recco, già punteggiata di sdraio e ombrelloni dai colori sgargianti (qualche stabilimento avrebbe bisogno di un armocromista!); alla mano destra, il molo in pietra grigia che termina con un’elegante torretta cilindrica, anch’essa costruita con grossi blocchi di pietra grigio chiara che la luce delle sei trasforma in un giallo-ocra leggero. Di fronte ai nostri occhi, così vicino che sembra di poterlo raggiungere con un salto e un paio di bracciate, si staglia la parete del promontorio di Portofino, macchiata dalle casupole colorate di San Rocco, San Nicolò e Porto Pidocchio. In mezzo, l’acqua calma e verdognola della baia.
L'assurda normalità della Pro Recco
Alle spalle, come dicevo, la gloriosa piscina di Punta Sant’Anna, che ha molto a che vedere con Recco e molto poco con l’élite sportiva mondiale. Ha solo due tribune, di cui una è vecchia e inagibile ma ancora in piedi come un relitto bellico, mentre l'altra, costruita di fronte alla prima, è fatta di tubi di metallo e ha l'aspetto di una struttura effimera smontabile in pochi minuti come il palco di un concerto. Può ospitare massimo 500 persone e infatti è piena fino all’ultimo centimetro disponibile.
La tifoseria organizzata, che per trent’anni ha seguito la Pro con bandiere, tamburi, cori e striscioni come siamo abituati a vedere nel calcio o nel basket, non esiste più: «il tifo più rumoroso è stato allontanato dalla società, quindi il vecchio tifo (Rekko Front, Boys, ecc.) non ha più simpatia verso questa dirigenza» mi ha raccontato Valentina, un'amica di Recco a cui ho chiesto che fine avesse fatto il tifo organizzato. «Tre o quattro anni fa abbiamo provato a ricostruire una tifoseria sotto lo striscione “Recchelini”, ma non abbiamo mai raggiunto numeri decenti perché da un lato la vecchia tifoseria è risentita a causa di quell'accaduto, e dall’altro non c'è stato ricambio generazionale». Sugli spalti c’è qualche vecchio tifoso, un manipolo di vecchie glorie tra cui l’immancabile Eraldo Pizzo detto "Il Caimano": è considerato il più grande pallanuotista della storia, quantomeno dell'epoca in cui si giocava in mare. Ci sono i ragazzi delle squadre giovanili con genitori e allenatori. Soprattutto, ci sono amici e familiari dei giocatori, che battono sulle spalle dei loro amici/parenti/beniamini che siedono a un metro di distanza su delle banali sedie bianche di plastica, di quelle del giardino di tua nonna o del bar del campetto. Si rivolgono a loro con nomignoli e soprannomi: «Vai Tommi!», «Dai Andre!», «¡Dale Eche!» e avanti così. Se lo speaker non ricordasse continuamente che si tratta dell’ultima giornata del secondo girone della LEN Champions League, potrei pensare di trovarmi non dico a una partita amatoriale, ma al massimo a un torneo giovanile.
Il mio primo pensiero va ai giocatori dell’Olympiakos, e più in generale a quelli di tutte le squadre di questo livello, abituati a giocare in grandi città, in piscine coperte e rumorosissime, in cui centinaia di ultras rendono il bordo vasca infuocato. Cosa passerà loro per la testa, venendo a Recco? A quelli che vengono in Liguria per la prima volta, i più anziani avranno spiegato che la Pro è molto diversa dalle altre grandi squadre? Che gioca in un impianto pressoché amatoriale, stretto tra spiaggia e molo, in un paesello pigiato tra i monti e il mare? Qualcuno di loro avrà pensato, come ho fatto io, all’assurda normalità di questo setting, così straordinario – nel senso letterale di “fuori dall’ordinario” – e allo stesso tempo così familiare, quotidiano, più simile ai tornei locali dell’infanzia che alla luccicante Champions League?
Forse no, forse nessuno ci avrà pensato. Forse questi sono pensieri che stanno soltanto nella mia testa, cresciuti come contrappasso alle aspettative quasi mitologiche che la mia mente di bambino aveva costruito intorno alla pallanuoto. Resta il fatto che a me, tutto questo, delude un po’. Pur conoscendo bene Recco, il mio Es si immaginava tutt’altro. L’aura della pallanuoto, e la reputazione della Pro Recco, mi avevano illuso che qui avrei ritrovato le emozioni che provavo ascoltando i racconti dei compagni alle elementari. Una volta seduto al mio posto in tribuna, come per chi vede La Gioconda per la prima volta ed esclama «è piccolissima!», sono stato costretto a riprendere contatto con la realtà. Persino i corpi oggettivamente grossi dei giocatori a bordo piscina mi deludono un po': non sono i fisici da Gruppo del Laocoonte che avevo in testa, ma enormi busti a forma di triangolo rovesciato, all’apparenza troppo mollicci per quelle dimensioni, ai quali le gambe sottili sono state attaccate direttamente, come se Dio si fosse dimenticato di aggiungere le chiappe.
La partita
Tuttavia, la delusione della normalità scompare molto presto. L'eccezionalità dello spettacolo che sta per cominciare è raccontata già dai segni impressi sulla pelle dei giocatori: sono molti, diciamo più di quelli che puoi contare sulle dita di una mano, ad avere tatuati sul corpo i cerchi olimpici, simbolo di eccellenza sportiva per antonomasia. Non credo mi fosse mai capitato di trovarmi a poco più di un metro da almeno mezza dozzina di atleti olimpionici, per altro tutti medagliati. Il vero momento di rottura, però, arriva quando le squadre entrano in vasca. Quei quattordici titani che fuori dall’acqua sembravano goffi, troppo ingombranti per le sedie di plastica bianca, leggermente a disagio fuori dal loro elemento naturale, immersi in acqua si trasformano improvvisamente in un affascinante incrocio tra agili sirene e semoventi d’artiglieria corazzati.
La velocità con cui attraversano su e giù la piscina con un numero ridicolmente esiguo di bracciate è più vicina alle moto d’acqua che agli esseri umani. L’acqua, fino a un momento fa perfettamente calma e liscia, all’improvviso spumeggia come una tonnara durante la mattanza e i busti dei pallanuotisti emergono saltando fuori dall’acqua ricordando le acrobazie delle megattere. Alla fine, l’azione prende il sopravvento sopra ogni altro pensiero, il sublime riesce a colmare quello spazio tra aspettative e realtà che mi lasciava in parte insoddisfatto. Poco importa il luogo, il contesto, l’atmosfera: l’agonismo in piscina annichilisce qualsiasi cosa stia accadendo intorno.
Oltre ai miei pensieri – o meglio alle mie emozioni viscerali che adesso sto traducendo in banali sequenze di lettere, spazi bianchi e punteggiatura – quel 24 maggio c’era anche una partita da seguire. Una partita importante, decisiva per gli accoppiamenti delle Final Eight di Belgrado nelle quali la Pro Recco avrebbe poi vinto, nella finale dello scorso 3 giugno, l’undicesima Champions League della sua storia, la terza consecutiva, battendo i padroni di casa del Novi Beograd. Una partita, soprattutto, di cui nelle intenzioni originali avrei voluto fornire una cronaca esatta – obiettivo miseramente fallito, come il lettore avrà intuito a questo punto della lettura.
Qualcosa, comunque, proverò a raccontare, quantomeno per provare a salvare la facciata. Nel primo tempo della partita la Pro Recco sembra sorprendentemente in grossa difficoltà. Controlla il ritmo e il pallone, ma quest’ultimo non vuole saperne di entrare in porta. O meglio, Bijac, portierone croato dei greci, non vuole saperne di farla entrare. Il primo quarto si chiude 3-5 e nel secondo l’Olympiacos allunga fino al 3-7. A quel punto, un time out di Sukno – allenatore trentatreenne dei Recchelini con una storia che merita un articolo a sé – rigenera la Pro, che a metà gara si porta sul 5-7 e nel terzo periodo completa la rimonta con un parziale totale di 5-0 trascinata da Gonzalo Echenique. Argentino di Rosario, e per questo soprannominato ovviamente "Messi della pallanuoto", sfoggia un sobrio tatuaggio NEWELL’S in caratteri gotici sulle spalle, appena sotto i boccoli biondi. Probabilmente anche Echenique e il suo tatuaggio meriterebbero un articolo a parte. Nell’ultimo quarto i biancorossi del Pireo riescono ad agguantare il pareggio per due volte, ma a meno di un minuto dalla sirena il capitano Francesco Di Fulvio (eletto miglior pallanuotista al mondo nel 2019 e nel 2022) fissa il punteggio finale sul 10-9, cementando il secondo posto in classifica e fomentando l'ambizione di vittoria che poi verrà pienamente soddisfatta da lì a una decina di giorni.
Finita la partita, finite le birre da bere, calato definitivamente il sole alle spalle della vecchia tribunetta in disuso, è il momento dei saluti. I giocatori della Pro Recco sono stanchi ma apparentemente nemmeno così stravolti dalla prova di forza fisica e soprattutto mentale con cui hanno ribaltato una partita che sembrava persa a fine primo tempo. Si avvicinano agli spalti, scambiano qualche battuta con tifosi, ex giocatori, amici, parenti. In piedi davanti a me, o seduti sulle ormai famose sedie di plastica bianca, sono tornati ad essere un po’ goffi, un po’ buffi; ma non riesco e probabilmente non riuscirò più a vederli con gli stessi occhi di prima. Mentre si allontanano parlottando tra loro verso gli spogliatoi prefabbricati in PVC grigio degni del più mediocre campo da calciotto, non riesco a non pensare all'incredibile esercizio di vigore fisico che ho appena visto compiere loro.
Lasciata Punta Sant’Anna, ci dirigiamo verso Ö Fugassâ, un’istituzione di quella focaccia al formaggio che alla gente del posto sembra ancora interessare molto di più della pallanuoto. Tra una fetta sbrodolante di crescenza bollente, un (altro) sorso di birra fresca e quattro chiacchiere, non riesco a togliermi dalla testa il tarlo dell’assurda, paradossale, quasi ossimorica, normalità della Pro Recco.
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