Erasmus: Uruguay-Italia U20
Un'Italia troppo brutta per essere vera.
"Erasmus" è la rubrica del lunedì in cui vi raccontiamo una partita frizzante dal weekend di calcio internazionale. Se vi siete perso gli episodi precedenti, li trovate qui.
"I've got no roots", ripeteva ossessivamente Alice Merton dal dicembre 2016, refrain di una di quelle hit radiofoniche che passano rapidamente dal carino all'insopportabile nel tempo di un salto di un paio di frequenze delle radio d'Italia. Dovrebbe essere il mantra del viaggiare, quello di allontanarsi da quelle nostre origini imposteci dalla nascita e scoprire la nostra essenza in qualsiasi punto nel mondo. Invece, nel calcio come nella vita, ti ritrovi a fare i conti con le tue radici e il tuo passato, sviluppatesi capillarmente sotto la superficie e protrattesi ovunque.
La finale del Mondiale Under 20 si porta dietro dei carichi simbolici non indifferenti. Uno stadio argentino intitolato a Mardona, forse l'icona che più è riuscita a unificare l'Italia e il Sudamerica dai tempi di Garibaldi. Per l'Uruguay è quasi una partita in casa, visto che da Montevideo a La Plata si può andare facilmente con un traghetto, un pomeriggio e una trentina di euro a disposizione. Ci sono radici storiche, geografiche e sportive che uniscono Italia, Argentina e Uruguay ma, più di tutto, c'è un trofeo da giocare.
I ragazzi di Nunziata abbiamo imparato a conoscerli. Sono una squadra quasi aliena nel contesto italiano: giocano con intensità ma con il centrocampo a rombo e con la qualità al centro di tutto.
Poi, per il nostro gusto autolesionista che deve sporcare sempre le cose belle, si è diffuso quel vago rumore di fondo che accompagna chi non riesce a godersi pienamente le cose. Ironicamente, al centro ci si è trovato Simone Pafundi: una battaglia quasi ideologica tra chi lo vorrebbe titolare fisso perché la sua tecnica compensa la poca voglia di ripiegare e chi lo ha già individuato come riflesso dei giovani da cui si pretende tutto e subito ma a cui non si concede il lusso e l'agio di poter sbagliare prima di riuscire. Allo stesso tempo, sono arrivate le rimostranze all'Inter per non aver puntato subito su Casadei, non dandogli campo in A e, anzi, sacrificandolo per 20 milioni - cifra che, comunque, per un primavera era ed è fuori scala.
A guidare l'Uruguay c'è Marcelo Broli, un classico allenatore da calcio giovanile che ha oscillato tra le giovanili del Penarol e le serie inferiori uruguaiane. Proprio al Penarol, Broli ha conosciuto il portiere Randall Rodriguez. La linea difensiva Ponte-Boselli-González-Matturro ha subito una variazione solo dopo l'infortunio muscolare di Ponte nei quarti, con Rodrigo Chagas a farne le veci come terzino destro. Il centrocampo, quasi per assecondare una tradizione storica, si appoggia molto sulle doti atletiche del capitano Fabricio Diaz e di Damiano Garcia, con Ignacio Sosa come prima riserva. Tra trequartisti e attaccanti l'unico titolare fisso nel torneo è il 10, Franco González, prototipico giocatore i cui Skills and Goals su Youtube farebbero delirare i tifosi della medio-bassa Serie A nelle notti di mezza estate non appena il suo nome venisse menzionato in sede di mercato.
Davanti, il centravanti Andrés Martín Ferrari è un promesso sposo del Villarreal; Matías Ezequiel Abaldo Menyou, esterno mancino con non precisate origini tedesche che si dice somigli a Nicolás Tagliafico, non esattamente il primo giocatore che viene in mente per la categoria "ala col vizio del gol" ma vabbè; la possibilità che lo stato di forma di Anderson Duarte, partito come ultima scelta offensiva e ora attaccante da 3 gol in 3 partite nella fase a eliminazione diretta e una storia di cadute e risalite, faccia derogare Broli dal 4-2-3-1 in favore di un 4-4-2 più compatto e verticale; la sensazione che stiano per giocare l'ultima partita della loro vita ogni singola partita. E non hanno nemmeno 20 anni.
Tre quarti della difesa titolare e il capitano hanno cittadinanza italiana, oltre che Celeste, sempre a proposito di radici. Capitan Diaz e Duarte si sentono i padroni di casa del torneo dopo l'eliminazione dell'Argentina, sempre a proposito di radici. Boselli, inserito nella prima lista di convocati di Bielsa al pari di altri 5 componenti della Celeste di Broli e ultimo esponente della scuola di caudilli charrúa, fratello del Juan Manuel protagonista delle due precedenti edizioni del Sub-20, sempre a proposito di radici.
Per entrambe sarebbe il primo titolo della storia, e l'inizio non potrebbe essere altro che contratto e nervoso. Entrambe paiono avere il fiatone delle fatiche delle semifinali, gli Azzurrini venuti a capo dell'enigma sudcoreano con una punizione maradoniana di Pafundi nello stadio che a Diego è dedicato e la Celeste costretta a uno sforzo immane a causa della panchina corta (solo 4 cambi a disposizione compresi i 2 portieri e 2 in distinta solo per onor di firma) contro Israele.
Nunziata va di Follettismo, con Baldanzi e Pafundi insieme dal 1' a sostegno di Ambrosino, summa del gioco funzionale di questa U-20, e rinuncia a Zanotti dopo la tragica prestazione in semifinale in favore di Turicchia e Giovane. La Celeste ritrova Luciano Rodríguez, che, come De Rossi nel 2006, si è fatto espellere per una gomitata e ha accumulato giornate di squalifica che gli avrebbero permesso di tornare solo in caso di finale. Alla fine ci è riuscito: è tornato in campo e lo ha fatto come esterno sinistro.
L'Uruguay pressa con un'intensità che Nunziata e i suoi non hanno mai incontrato nel torneo. Il CT affianca Pafundi e Ambrosino in non possesso per nascondere il 2006 dell'Udinese quando la palla ce l'ha l'Uruguay. Questo si ritorce contro l'Italia, meno efficace nelle conduzioni individuali sul medio-lungo che nel palleggio articolato, impeditogli dal pressing della Celeste. Al 10' il primo brivido, con una progressione di Franco González che se ne frega dei solchi del manto erboso di La Plata e la sberla da fuori di Diaz che scheggia il palo di sostegno della porta di Desplanches. Al 12' il secondo fendente da fuori del capitano dell'Uruguay.
La Celeste detta il ritmo, forte di una marcatura a uomo nella metà campo avversaria e a zona nella propria che scombina i punti di riferimento della risalita dei ragazzi di Nunziata. La parità numerica dal lato del pallone, con due terzini non costruiti per il cambio di gioco, è ricercata ossessivamente dall'11 di Broli e fagocita il possesso dell'Italia, forzandola spesso a lanci lunghi.
L'intensità dell'Uruguay è impressionante e dà l'impressione che l'Italia sia sempre in inferiorità numerica. Casadei e Baldanzi non hanno lo spazio fisico per essere innescati, e così ci si riduce al lancio lungo di Turicchia e Giovane a scavalcare il cerchio di centrocampo. Sembra un'altra squadra rispetto al resto della campagna d'Argentina, 11 persone prese a caso per le strade, private della memoria calcistica della baldanza mostrata nelle ultime due settimane.
Scavallata la mezz'ora ecco il nuovo destro da fuori di Diaz, quasi un tic con cui l'Uruguay scioglie la tensione, stavolta successivo alla prima sovrapposizione interna di Matturro alla Theo Hernández. Per fare la partita che si sta sviluppando verrebbe da pensare a Esposito al posto di Ambrosino, meno propenso alla lotta e molto di più al governo, ma l'Italia semplicemente non riesce a sostenere il ritmo, finendo quasi sempre in apnea come non era successo neanche contro la Nigeria nel girone.
Diaz legge la linea di passaggio tra Baldanzi e Casadei, recupera il pallone ed elude la riaggressione con una veronica, allargando d'esterno destro sulla fascia opposta. Il tutto al limite della propria area di rigore. Uno di quei momenti che, a prescindere dalla nazionalità e dalla simpatia per una squadra o per l'altra, ti viene da pensare che a un giocatore affideresti tua figlia, il tuo conto in banca e, se te lo chiedesse, anche cosa mangiare stasera.
Lo 0-0 all'intervallo è larghissimo per l'Italia, completamente sopraffatta dall'intensità degli avversari. Entra Zanotti per Faticanti, spostando Casadei sul centro destra per aggiungere qualche fibra muscolare a fare il solletico al gigantismo di Matturro e alla verve di De los Santos. Si continua a giocare la partita che vuole l'Uruguay, col dinamismo e l'energia della Celeste a dettare il contesto. Tempo 5' e Zanotti si è già portato a casa colletto ed elastico della maglia di De los Santos, continuando la difficile china intrapresa con Joon-ho Bae in semifinale.
Al 56' arriva il primo possesso che l'Italia in cui si vedono i riferimenti di Nunzata, figlia di una pressione meno asfissiante dell'Uruguay. Nunziata che, capendo l'andazzo della partita, cambia i due attaccanti per inserire Esposito e Montevago. È un'Italia U-20 più verticale e di seconde palle, un'Italia più adatta e aderente al contesto ma meno Italia di Nunziata. Più reattiva ma meno sicura. Un rimpallo su Ghilardi evita il gol del vantaggio dopo una serpentina incredibile di Franco Gonzalez. Casadei è stanco e Prati perde il primo pallone del Mondiale sulla pressione di Diaz facendo capire a tutti che tira una brutta aria.
Di nuovo destro da fuori area di Diaz. Proprio quando l'Uruguay inizia ad abbassare l'intensità l'Italia tiene meglio il campo ma Prati commette il secondo errore del suo Mondiale, entrando col piede a martello su Diaz e facendosi espellere. A salvarlo è la più recondita speranza del calcio del 2023 per un tifoso che vede succedere qualcosa di brutto alla sua squadra: un intervento del VAR che trova il vizio di forma a cui aggrapparti. Questo è uno di quei casi: alla fine, il rosso di Prati viene commutato in un giallo, con un sospiro di sollievo di tutte le maglie bianche.
Nel 4-0 della partita inaugurale con l'Iraq 2 reti della Celeste erano arrivate da calcio d'angolo. Questa si allinea a cinque dalla fine: Matturro la tocca 4 volte col sinistro in mischia senza che nessuno si possa avvicinare, il tiro carambola sul secondo palo e il primo ad avventarsi è Luciano Rodríguez. 1-0 Uruguay. Il VAR interviene di nuovo, qualcuno ci spera. Ci vogliono 150 secondi che sembrano 150 ore per capire che, però, non c'è niente da segnalare e possono iniziare gli 11' di recupero.
Questo recupero è l'istinto di sopravvivenza contrapposto alla frustrazione del non riconoscersi. Potrebbe non esserci il pallone in campo e non cambierebbe nulla: sono due istanze ontologiche e non due squadre di calcio. L'Uruguay spreca un contropiede 5 vs 1, quasi a irridere gli avversari e a vedere se questi fossero mai stati capaci di riprendere la partita.
L'Italia, però, non ci riesce: la partita degli azzurri finisce con due tiri totali, senza mai prendere la porta. L'Uruguay ha stravinto fisicamente e atleticamente; il suo portiere non si è sporcato i guanti e probabilmente i suoi compagni possono lamentarsi anche di non averla vinta prima e meglio. A consolare i ragazzi di Nunziata c'è un percorso fantastico, fatto con un'idea di calcio divertente e riconoscibile, che ha mostrato un'Italia diversa dal solito. E, al tempo stesso, ha mostrato un Uruguay tradizionale in un modo quasi distopico. Perché alla fine si torna sempre alle proprie radici.
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