Il Manchester City ha vinto di corto muso
L’Inter ha avuto coraggio e un po' di sfortuna.
Subito dopo il triplice fischio Federico Dimarco guarda nel vuoto sorridendo. È seduto sull’erba e il suo ghigno beffardo contiene tutto lo straniamento di chi ha cominciato la partita con zero aspettative, si è ritrovato a crederci a un certo punto del gioco e poi si è visto togliere tutto sul più bello. Forse Dimarco ripensa alla doppia occasione avuta al 70’, un episodio caotico in area in cui ha colpito prima la traversa e poi si è visto respingere la ribattuta dal tacco di Romelu Lukaku. Uno di quei momenti della serata in cui l’Inter ha fatto tremare il Manchester City, ma non è riuscita per poco a piegare gli episodi a proprio favore.
La tragedia di Romelu Lukaku
L’Inter ha cominciato la partita da assoluta sfavorita, e questo gli ha forse dato la leggerezza giusta per giocarsi le sue carte senza timore. Per tutta la partita ha affrontato il City con coraggio, ha tenuto testa ad avversari sulla carta più forti e giocato con un’attenzione difensiva meticolosa. Poi ha avuto alcune occasioni per segnare, occasioni che probabilmente popoleranno i pensieri dei tifosi interisti a lungo. In particolare quelle al 70’ e all’88’ hanno alimentato i maggiori rimpianti, e allora tanto vale cominciare il racconto da lì: al minuto 69:40 su un lancio lungo dalla difesa Lautaro riesce a mettere giù il pallone difendendolo da Akanji che gli sta attaccato alla schiena, e apre per Dimarco che è salito come un treno a sinistra; Dimarco torna da Brozovic, quello crossa dentro di destro, Calhanoglu colpisce di testa e la manda dalle parti di Dumfries che – dal limite dell’area – vince il duello aereo con Grealish e risputa il pallone verso l’area piccola. La difesa del City legge male la situazione, Ruben Dias e Stones alzano il braccio per chiamare il fuorigioco ma il fuorigioco non c’è. C’è invece Dimarco che ha attaccato il lato debole e si ritrova il pallone sistemato sopra la testa dopo un rimbalzo, all’altezza della linea dell’area piccola. Ederson è leggermente fuori dai pali, allora Dimarco tenta di scavalcarlo con un pallonetto di testa, come si fa a calcio-tennis per mandare il pallone dall’altra parte della rete, ma la parabola si infrange contro la traversa. Sulla respinta piomba ancora Dimarco prima di tutti – nell’azione l’Inter ha vinto praticamente tutte le seconde palle – colpisce di testa in tuffo ma stavolta il tiro centra il calcagno di Lukaku – l’unico ostacolo tra Dimarco e l’angolo di porta completamente vuoto vicino al primo palo.
È quello il momento in cui si realizza l’ennesima tragedia di Romelu Lukaku. Lukaku che, come se la sua carriera negli ultimi due anni non avesse preso una svolta già abbastanza malinconica, si sta costruendo una solida galleria di “posizionamenti sfortunati” sulla linea di porta. Nel 2020 in finale di Europa League aveva deviato nella propria porta la rovesciata di Diego Carlos per il definitivo 3-2 del Siviglia al 74’. L’anno dopo, contro lo Shakhtar all’ultima partita del girone di Champions League, all’89’ aveva respinto il colpo di testa di Alexis Sanchez che avrebbe dato all’Inter il terzo posto e garantito il paracadute dell’Europa League. I replay allora lo avevano inchiodato con un’espressione goffa, mentre il suo testone respingeva il tiro del compagno condannando l’Inter all’ultimo posto nel girone. Ieri di nuovo un “salvataggio” non richiesto, nella partita più importante per l’Inter da 13 anni a questa parte.
Quando succedono questo genere di cose si può gridare alla maledizione, al caso, agli dèi avversi o all’imprecisione di Dimarco. Di certo la prima reazione di molti è stata additare l’epica negativa di Lukaku, che con la sua stazza enorme nelle giornate più negative sembra davvero aderire allo stereotipo del centravanti intruppone, così grosso e goffo da diventare addirittura un ostacolo per i compagni. Ad ogni modo, ieri sera la partita di Lukaku è stata una metafora perfetta della partita dell’Inter. Una partita quindi sfortunata, in cui il jackpot è sembrato in diversi momenti lì a portata di mano, ma poi è bastato sempre qualche dettaglio goffo per mandare tutto in fumo. All’88’ Lukaku ha avuto un’altra grande occasione, stavolta tirando lui. Brozovic ha messo un cross morbido dalla trequarti destra, Gosens (entrato per Bastoni) ha fatto da torre sul secondo palo, e Lukaku si è ritrovato la palla sulla testa davanti alla porta, ma il suo tiro è finito centrale sul ginocchio di Ederson (la respinta ha poi sbattuto sulla testa di Ruben Dias che ha sfiorato l’autogol).
Anche gli errori sottoporta di Lukaku stanno diventando un campione significativo. Tutto è cominciato nell’andata dei quarti di finale di Champions dell’anno scorso, quando con la maglia del Chelsea contro il Real Madrid aveva mandato un colpo di testa fuori di poco, dalla stessa posizione di ieri sera. Al mondiale in Qatar, all’ultima partita del girone tra Belgio e Croazia, ha fallito quattro occasioni che avrebbero potuto qualificare il Belgio agli ottavi di finale, con un crescendo di errori via via più incredibili. Nell’ultimo, il più assurdo, aveva provato uno stop di petto (fallendolo goffamente) quando aveva la porta vuota e poteva tirare direttamente. Lo scorso aprile l’ultimo della galleria, quando contro la Fiorentina ha deviato col piattone un cross teso dalla sinistra mandandolo fuori a porta vuota. Dopo quell’errore Michele Cecere aveva scritto: «Un tiro sbagliato che si presta bene al racconto del Lukaku che vediamo da inizio stagione: un attaccante dal corpo così ipertrofico da diventare goffo, i cui movimenti si sono svuotati di agilità».
Quando Lukaku sbaglia un’onda di ironia invade l’internet. Sarà per l’antipatia che suscita un giocatore che appena arrivato ha spaccato il campionato italiano, sarà perché è nero, sarà per le scelte di carriera discutibili prese da Lukaku negli ultimi due anni. Fatto sta che quell’errore all’88’, insieme all’episodio al 70’, hanno finito per diventare l’immagine della finale dell’Inter. Una finale sfortunata, in cui non si sa se stupirsi di più per il fatto che l’Inter è stata all’altezza del City, o per come l’Inter ha fallito le sue occasioni.
Il coraggio dell’Inter, l’amministrazione del City
Sarà forse una magra consolazione per l’Inter, ma fin dal 1’ i nerazzurri hanno sorpreso il City con un approccio ambizioso e coraggioso. Prima della partita ci si chiedeva se Inzaghi avrebbe optato per un pressing cauto o aggressivo sulla prima costruzione del City, e fin dalle prime battute è stato chiaro quale sia stata l’opzione scelta: pressing alto, con marcature uomo su uomo a tutto campo. Non era scontato, visto il gap qualitativo tra le due squadre, eppure l’Inter ha scelto di non tradire i suoi principi e di riproporre il piano gara ambizioso che l’ha portata in finale.
Inzaghi ha mandato in campo la formazione che ci si aspettava alla vigilia: Mkhitaryan, che nelle ultime settimane è rimasto fuori per infortunio, si è accomodato in panchina, Brozovic ha ripreso il posto di regista e Calhanoglu quello di mezzala sinistra. Il dubbio principale era se avrebbe giocato Dzeko o Lukaku, che nelle ultime settimane era tornato in forma, ma alla fine il tecnico ha optato per il bosniaco, forse pure come premio per il percorso fatto in questa stagione. Dall’altra parte invece Guardiola, come suo solito, ha trovato il modo di scombinare le carte. Dopo un rush finale di stagione in cui John Stones è partito sempre da difensore centrale per poi affiancare Rodri in mediana in fase di possesso, contro l’Inter Stones è partito da terzino destro, con Akanji spostato come centrale puro accanto a Ruben Dias. La ragione è prettamente difensiva: contro l’attacco a due punte dell’Inter, i movimenti in avanti di Stones avrebbero potuto liberare troppo spazio al centro per Lautaro e Dzeko; quindi la scelta di Akanji centrale per avere più protezione.
Anche in fase di possesso Guardiola ha preparato una novità, sostituendo il solito blocco di costruzione 3+2 con un rombo di centrocampo fatto da Rodri vertice basso, Gundogan vertice alto, Stones mezzala destra e De Bruyne mezzala sinistra. Queste modifiche tattiche alla fine hanno pagato, ma se il City avesse perso adesso staremmo parlando di nuovo dell’overthinking di Guardiola? Episodi come questo, in cui il catalano ha cambiato e vinto, ci rivelano in verità altro: Guardiola nella sua carriera ha cambiato sempre, anche di partita in partita, e se a volte l’overthinking lo ha fatto perdere, altre volte lo ha fatto vincere.
L’Inter ha giocato con coraggio, dicevamo, e ha pressato la prima costruzione del City con grande sfrontatezza e fluidità, gestendo le uscite in modo asimmetrico. Sostanzialmente l’Inter ha deciso di mantenere l’inferiorità numerica 3vs4 del suo centrocampo contro quello del City, ma ha minimizzato le conseguenze attraverso un’attenta rotazione delle marcature che lasciava libero di volta in volta l’uomo più lontano dalla palla. Così quando il City usciva da sinistra Barella si alzava sul braccetto di quel lato, Aké, mentre Dzeko e Lautaro prendevano rispettivamente Dias e Akanji. Brozovic usciva su Rodri e Calhanoglu stringeva su Gundogan, mentre su De Bruyne usciva il braccetto, Darmian. In questo modo il giocatore lasciato libero era Stones, la mezzala del lato opposto.
Quando il City costruiva a destra, sul lato di Akanji, l’Inter non lasciava libera una mezzala ma il braccetto del lato debole: Barella abbandonava Aké e indietreggiava su De Bruyne, mentre Bastoni usciva su Stones, con Calhanoglu e Brozovic che mantenevano le loro marcature su Gundogan e Rodri. L’uomo lasciato libero, in questo modo, era Aké.
Per tutto il primo tempo l’Inter è stata perfetta nelle schermature e nelle scalate. Da parte sua il City ha fronteggiato la costruzione dell’Inter con una prima linea di quattro giocatori, con i due esterni abbastanza larghi da schermare la linea di passaggio verso Dimarco e Dumfries. Da tutta questa applicazione difensiva ne è venuto fuori un primo tempo un po’ bloccato, una lunga fase di studio in cui nessuna delle due squadre si è preso troppi rischi provando a forzare la situazione. Solo al 27’ De Bruyne e Gundogan sono riusciti ad associarsi dietro il centrocampo interista, e ne è scaturito il tiro di Haaland che Onana ha parato senza grossi problemi. Per il resto i giocatori del Manchester City sono apparsi opachi, forse bloccati dalla tensione di chi è condannato a vincere. Il City ha giocato sostanzialmente una partita un po’ ingessata, soprattutto nel primo tempo, in cui sono mancati i picchi di brillantezza a cui il City ci ha abituati durante la stagione.
Le finali, lo sappiamo, si decidono spesso sugli episodi, anche quelli più randomici. Una sliding door della finale di ieri è stato, paradossalmente, l’infortunio di De Bruyne al 35’. Un’altra finale di Champions che KDB chiude troppo presto quindi, dopo quella del 2021 in cui era uscito al 60’ dopo uno scontro con Rudiger del Chelsea. Ad ogni modo, al suo posto entra Foden e qualcosa cambia ulteriormente nello scacchiere tattico del City. Foden si sistema trequartista e Gundogan prende il posto di mezzala sinistra che era di KDB. Per un motivo che probabilmente ha a che fare con la stanchezza dell’Inter, nel secondo tempo l’influenza del rombo centrale del City aumenta notevolmente.
La tattica difensiva dell’Inter poggia tutta sulle uscite dei braccetti sulle mezzali del City, ma nel secondo tempo la stanchezza rende le uscite sempre più ritardatarie e così Gundogan e Stones si ritrovano a godere di spazi molto più ampi. In questo contesto emerge soprattutto John Stones, uno dei migliori in campo a fine partita. Complice la prestazione opaca di Calhanoglu (ieri il più evanescente dell’Inter insieme a Dzeko) Stones comincia a ricevere ai lati di Brozovic con sempre più spazio a disposizione. Stones non crea pericoli direttamente: agisce da terzo uomo; la superiorità numerica e posizionale che apporta nel mezzo-spazio destro genera vantaggi a cascata in altri settori di campo. Chiuderà la partita con l’89% di passaggi completati e 7 dribbling riusciti su 8 tentati: l’ultimo giocatore a completare 7 dribbling in una finale di Champions era stato Messi nel 2015.
Al 67’ il gol del City nasce proprio in quel corridoio di campo, anche se stavolta Stones non partecipa all’azione. Akanji porta palla nel mezzo-spazio e imbuca per Bernardo Silva che è scappato alle spalle di Bastoni, quello crossa dentro, la difesa allontana ma sulla respinta piomba Rodri, che riesce a trovare un angolo di porta strettissimo tra il palo e gli avversari che gli stanno davanti. È un gol che nasce dalla grande giocata di Rodri, ma anche dalla costante superiorità del City in zona centrale, che per tutta la partita ha costretto i braccetti dell’Inter a letture e uscite non banali. In questo caso è la lettura sbagliata di Bastoni a ispirare il gol: anche stavolta, come ha fatto per tutta la partita, Bastoni esce sul portatore nel mezzospazio, ma non si accorge che alle sue spalle sta tagliando Bernardo. Un gol che racconta molto dell’atteggiamento radicale della difesa dell’Inter, che anche nella propria area accetta la parità numerica contro gli attaccanti del City.
E ancora la superiorità posizionale del rombo del City, unita alla tecnica individuale di Foden, portano gli inglesi vicini al raddoppio al 77’. Con il braccetto destro Darmian uscito di nuovo alto su Gundogan, Acerbi e Dimarco (diventato braccetto sinistro dopo l’ingresso di Gosens per Bastoni) accettano ancora l’1vs1 contro Haaland e Foden. Rodri verticalizza per Foden, Dimarco si stacca dalla linea per andare a prenderlo, ma Foden lo elude con un controllo orientato che lo mette fronte alla porta. A quel punto Acerbi è costretto a rimanere su Haaland e Foden ha un’autostrada libera verso la porta. Conduce palla, poi calcia dagli undici metri col piede forte (un po’ centrale a dire il vero) e solo una grande parata di Onana gli nega il gol.
Giocare contro il City, lo sappiamo, espone al rischio di perdere le partite per estenuazione. Non basta una partita attenta nei minimi dettagli, è sufficiente una piccola disattenzione per far saltare tutto. L’Inter in fondo ha giocato una partita coraggiosa, e quando si prendono certi rischi bisogna accettarne le possibili conseguenze. L’Inter ha scommesso tutto sulla capacità dei suoi difensori di reggere gli 1vs1 contro giocatori sulla carta nettamente più forti, e loro hanno ripagato la fiducia sbagliando pochissimo. Acerbi ha tenuto botta su Haaland, in un duello che alla vigilia sembrava un mismatch potenzialmente umiliante. Bastoni a parte la disattenzione sul gol ha giocato un’altra ottima partita di chiusure e dinamismo: con la squadra non in possesso è stato sempre puntuale sia nelle uscite aggressive sia nelle coperture della profondità, quando Darmian si staccava dalla linea e lui si avvicinava a Acerbi per aiutarlo a controllare Haaland; con la palla è stato il solito Bastoni che si propone continuamente per ricevere, si sovrappone anche in zone molto avanzate di campo, si smarca negli spazi liberi.
Dove l’Inter può recriminare qualcosa è forse sulle prestazioni degli attaccanti. Dzeko ha potuto far poco contro l’intensità di una squadra come il City, e non è mai davvero entrato in partita. Lukaku, entrato al suo posto, è stato più utile nel gioco di sponda nel secondo tempo, ma ha avuto i problemi già detti sottoporta. Lautaro ha giocato la solita partita combattiva, ma anche a causa dalla fisicità fuori scala dei tre centrali del City non è riuscito a prevalere nei duelli individuali come fa di solito, specie nel gioco spalle alla porte, con cui generalmente aiuta molto l’Inter a risalire il campo. Dopo la partita Inzaghi ha ribadito che l’Inter può essere orgogliosa della partita fatta, e fa bene a dirlo: ha sporcato per tutta la partita il contesto voluto dal City, e nel conteggio degli episodi non ha meritato di perdere, anzi. Ma discorsi come questo sono buoni solo per aumentare i rimpianti: se Lautaro avesse fatto qualcosa di meglio al 58’, quando ha approfittato del pasticcio di Akanji e Ederson; se il pallonetto di testa di Dimarco non avesse preso la traversa; se Lukaku non avesse ostacolato la successiva ribattuta; se Lukaku avesse angolato meglio il colpo di testa all’88’.
La redenzione di Guardiola
Il calcio è uno sport a basso punteggio, e soprattutto le finali si giocano spesso su equilibri sottili. Tra una finale vinta e una finale persa possono pesare il caso, la fortuna. Lo sa bene Guardiola, che a fine partita ai microfoni ha detto che «Questa competizione è come una moneta». Sembra tranquillo, dopo la partita, Guardiola. Ha gli occhi lucidi e arrossati dalla stanchezza, sembra contento ma non si apre in manifestazioni di entusiasmo troppo plateali. Sarà perché se lo sentiva che questo era l’anno buono («Sembra che era scritto, quest’anno ci toccava», ha detto), sarà perché crede davvero che non è una partita a definire il peso di una stagione, figurarsi di un progetto tecnico. È quello che ha sempre ripetuto in questi anni quando gli ricordavano che doveva vincere la Champions col City per dimostrare qualcosa. Oggi ho vinto, ieri ho perso, domani vincerò o perderò di nuovo, sembra il pensiero di Guardiola.
Nel calcio però i palmarès sono importanti, e con la vittoria di ieri il Manchester City ha fatto un passo importante nella storia del calcio. Ha vinto la Champions League per la prima volta nella sua storia, dopo che nelle scorse settimane aveva vinto pure la Premier League e la FA Cup. È diventato il nono club della storia a vincere un treble, il secondo club inglese dopo il Manchester United nel 1999. Guardiola è diventato il primo allenatore a vincerlo due volte. Allo stesso tempo, è diventato il sesto allenatore a vincere la Champions con due club diversi.
La Champions League è il trofeo che mancava al Manchester City per riconoscersi grande. Il trofeo più bramato, più sofferto. Quello che in qualche modo corona il progetto di grandezza iniziato dalla dirigenza emiratina nel 2008, quando lo sceicco Mansour ha acquistato il club. Da allora sono passati 15 anni di luci e ombre, di gestione controversa e di calcio brillante. Nei prossimi mesi la Premier League si pronuncerà sugli oltre 100 capi d’accusa che attualmente pendono sul Manchester City per presunte violazioni finanziarie, dopo che già nel 2020 la Uefa aveva escluso il City dalla Champions per violazioni del FFP (squalifica poi revocata dal tribunale arbitrale dello sport). Tutte vicende che aumentano il rimpianto di non poter gioire pienamente per i successi di una delle squadre più forti di sempre. Come ha scritto Jonathan Liew nel 2020: «È impossibile non provare una nota di tristezza. Nonostante tutta l’oscurità che circonda il City e i soldi spesi, le regole infrante, l’arroganza della gerarchia del club, il City sotto Guardiola è stata anche la squadra più bella dell’era della Premier League». Della nostra era.
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