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Il tecnico del Manchester City Pep Guardiola
, 10 Giugno 2023

Ma quindi il Manchester City è una squadra meccanica o creativa?


Il dibattito si è aperto nelle ultime settimane.

Mercoledì 17 maggio il Manchester City ha battuto per 4-0 il Real Madrid nella semifinale di ritorno di Champions League. È stata una prestazione brillante, in cui il City non ha solo surclassato i campioni in carica, ovvero il club che con questa competizione sembra avere una confidenza speciale, ma lo ha fatto abbattendosi sull’avversario con la violenza delle grandi rivoluzioni. «Se il City conquista il trofeo, la vittoria per 4-0 rimarrà, come il 4-0 dell’Ajax sul Bayern nel 1973 o il 5-0 del Milan sul Real Madrid nel 1989, come una di quelle partite che hanno segnato l’era in cui i paradigmi cambiano e una nuova realtà emerge», ha scritto Jonathan Wilson sul Guardian il giorno dopo.

Non ci sono dubbi che quella sia stata la migliore prestazione del Manchester City sotto la gestione Guardiola. Per qualcuno è una delle prestazioni migliori della storia del calcio, in particolare il primo tempo, che il City ha chiuso in vantaggio 2-0 «ma poteva essere avanti di cinque», ha scritto sempre Wilson. Quattro giorni più tardi il City ha vinto aritmeticamente la quinta Premier League in sei stagioni, la terza consecutiva, e due settimane dopo ha conquistato la FA Cup battendo a Wembley i rivali cittadini del Manchester United. Se stasera il City dovesse vincere la Champions League nella finale di Istanbul contro l’Inter, conquisterebbe uno storico treble che finora è riuscito nel calcio inglese solo al Manchester United nel 1999. Il City è una squadra che ormai da anni frequenta i vertici del calcio europeo e ne influenza le tendenze tattiche, eppure mai come quest’anno dà l’idea di aver raggiunto un’efficacia indistruttibile, di poter rivendicare un posto tra le squadre migliori di tutti i tempi.

Il suo stile di gioco però non soddisfa tutti. Proprio dopo la partita col Real Madrid, una partita forse troppo perfetta, è nato sui social uno strano movimento di malcontento secondo cui il gioco del Manchester City sarebbe troppo meccanicizzato, povero cioè di creatività. Come se Guardiola, con la sua ossessione per controllare le variabili del calcio, avesse creato una macchina che assegna ai giocatori istruzioni estremamente minuziose – persino l’orientamento da tenere col corpo quando ricevono il pallone – il tutto sacrificando sull’altare delle esigenze del sistema la libertà individuale e la creatività di ciascun giocatore. La conseguenza sarebbe un gioco prevedibile, a tratti noioso, privo dell’invenzione inattesa che dovrebbe spettare ai giocatori più tecnici, e che per molti costituisce l’essenza del calcio.

Ma le cose stanno davvero in questo modo? Fermo restando che parliamo di una squadra con un gioco estremamente ambizioso e propositivo, il Manchester City è una squadra più meccanica o più creativa? La faccenda è ambigua e si presta a molteplici interpretazioni. Abbiamo approfondito e argomentato entrambe le visioni nei due contributi che trovate di seguito.

Guardiola e il calcio nell'epoca della riproducibilità tecnica
di Matthias Galbiati

La premessa necessaria al mio contributo è che non provo alcuna simpatia per ciò che il Manchester City rappresenta come istituzione, tra sportswashing e violazione o aggiramento delle norme di gestione finanziaria. Ciò mi porta a vivere con fastidio i loro successi sportivi, simbolo di una deriva oligopolistica tipica del tardo-capitalismo che sta rendendo sempre più incolmabile il divario tra i top club europei e gli altri.

Sarebbe disonesto non tenere conto di questo bias, ma ritengo che il mio non emozionarmi di fronte alle partite e alle storie che riguardano il Manchester City abbia a che fare anche con lo stile di gioco perfezionato nel corso degli anni da Pep Guardiola.

Se il suo Barcellona sembrava rappresentare un unicum irripetibile, che esaltava le caratteristiche e la comunione di linguaggio tra calciatori in buona parte formati nella Masia, la successiva diffusione globale del gioco di posizione - anche e soprattutto in ambito giovanile - ci ha portati al paradosso per cui Juanma Lillo, che fu prima allenatore di Guardiola e poi suo assistente al Manchester City, su The Athletic si è dichiarato un «padre pentito», aggiungendo che «Il meticoloso approccio scientifico che ha dominato il calcio negli ultimi anni potrebbe essere vicino a raggiungere un plateau, uno stallo».

Intervistato nel corso degli ultimi Mondiali, Lillo ha lamentato la scarsa eterogeneità delle proposte tattiche, causato da un “imperialismo metodologico” che risulta ancora più evidente nel calcio di club, dove la volontà di onnipotenza intrappolerebbe i calciatori in gabbie fatte di gioco a due tocchi, posture e zone di ricezione ideali, e così via.

Presumendo che Lillo non sia improvvisamente impazzito, chi meglio di lui può conoscere e criticare l’allenatore Guardiola? Che spazio può esserci per la creatività dei calciatori in un sistema che ricerca la minimizzazione dell’incertezza?

Come ha sottolineato Jamie Hamilton, i calciatori del Manchester City entrano in campo «con un elenco di istruzioni nella loro testa su cosa fare, cosa non fare, come operare, come riconoscere lo schema o il meccanismo». Un’idea di calcio per cui, per ogni situazione, sembrano esistere giocate giuste o sbagliate, migliori o peggiori, a prescindere dal soggetto che le mette in pratica.

Lo stesso Guardiola si è espresso sul tema in un’intervista di qualche mese fa: secondo le sue parole, la tattica serve a creare dei pattern che permettano ai giocatori di avere più tempo e spazio per esprimere il proprio talento, aggiungendo però che non si può permettere a ciascuno di fare ciò che vuole, quando vuole, perché altrimenti si produrrebbe un caos nel quale non si sa esattamente cosa succederà.

Non so quanto peso si possa attribuire a quell’exactly, dal momento che Pep non si stava esprimendo nella propria lingua madre, però è sembrato tradire quell’ossessione per il controllo che difficilmente può essere compatibile con la creatività intesa come capacità di generare qualcosa di nuovo e, quindi, inaspettato.

Recentemente, Jack Grealish ha affermato che, dato che Pep detesta perdere il possesso del pallone, lo ha istruito a preferire opzioni di gioco sicure rispetto a quelle rischiose. Sembra il precetto di un aspirante demiurgo, che vuole rendere il calcio prevedibile per poterlo determinare dalla panchina e che, di conseguenza, pretende di addomesticare anche i calciatori potenzialmente più creativi, come ha fatto con Grealish o Mahrez. Se infatti i Walker e gli Stones possono, grazie a meccanismi da catena di montaggio, sentirsi sgravati dalla responsabilità di decidere come e quando liberarsi del pallone, quei pochi in grado di produrre qualcosa di originale vengono inevitabilmente inibiti dal sistema.

Nei giorni successivi alla semifinale di ritorno contro il Real Madrid, è circolata su Twitter un’immagine di Grealish euforico, con una didascalia del tipo “ecco un calciatore frustrato dalle insopportabili richieste dell’allenatore che gli impediscono di esprimersi liberamente”.

Ora, è evidente a tutti che l’obiettivo principale dei calciatori d’élite sia vincere le partite e i trofei, e che Guardiola sia un tecnico straordinariamente bravo e vincente. In questa critica non vi è nulla di moralistico; il punto di vista è quello di uno spettatore che si è innamorato del calcio proprio per la sua imprevedibilità, uno sport che per la complessità delle sue variabili - numero di giocatori, basso punteggio, dimensioni del campo, sensibilità dei piedi rispetto alle mani - ha resistito più a lungo di altri alla standardizzazione.

In questo senso, nonostante la crescente pervasività degli algoritmi, mi auguro che le partite di calcio non si riducano a partite a scacchi tra gli allenatori, con i calciatori relegati a meri esecutori delle loro specifiche funzioni all’interno di pattern già visti e rivisti.

Secondo Lillo, la soluzione allo stallo è un ritorno all’unicità e spontaneità degli individui, scommettendo sul fatto che la complessità delle interazioni basate sulle relazioni tra i calciatori possa ancora superare per efficacia sistemi di gioco più deterministici.

Il tempo ci dirà se si tratta solo di una vana battaglia di retroguardia.

Siamo forse assuefatti all'eccezionalità del City?
di Damiano Primativo

C’è una pagina di Jorge Luis Borges che uso rileggere quando voglio ricordarmi del perché mi attrae un certo tipo di calcio associativo e orientato al controllo. Si trova all’interno del racconto Storia del guerriero e della prigioniera e, come potete immaginare, non parla affatto di calcio. Racconta invece la storia di Droctulft, un soldato longobardo che tra il sesto e l’ottavo secolo ha partecipato all’invasione longobarda dell’Italia. Droctulft è un barbaro: è nato e cresciuto nelle selve primitive di Germania, non conosce la società urbana, probabilmente è devoto di una religione animista; eppure quando le guerre lo portano a Ravenna resta folgorato dallo splendore della civiltà al punto che abbandona i suoi e combatte per difendere Ravenna. Così Borges immagina il momento della conversione: «A Ravenna vede qualcosa che non ha mai vista, o che non ha vista pienamente. Vede il giorno e i cipressi e il marmo. Vede un insieme che è molteplice senza disordine; vede una città, un organismo fatto di statue, di templi, di giardini, di case, di gradini, di vasi, di capitelli, di spazi regolari e aperti. Nessuna di quelle opere, è vero, lo impressiona per la sua bellezza; lo toccano come oggi ci toccherebbe un meccanismo complesso, il cui fine ignoriamo, ma nel cui disegno si scorgesse un’intelligenza immortale».

Adesso parliamo di calcio. E di come alcune squadre, e quelle allenate da Pep Guardiola in particolare, sembrino riverberare della stessa “intelligenza immortale” della Ravenna bizantina. Squadre che appaiono come “organismi” finemente pianificati, “insiemi molteplici senza disordine” che si prefiggono di sottomettere al loro controllo l’aleatorietà del calcio, in un modo molto simile a come le città (ma più in generale le civiltà) sono nate per contenere l’aleatorietà della natura. L'ordine opposto da Ravenna al caos degli elementi naturali ha colpito Droctulft, l'ordine opposto dalle squadre di Guardiola al caos del calcio colpisce noi. Spremendo insieme queste due esperienze umane di regimazione del disordine, mi sembra che si possa trarre una legge generale: alla base di ogni tentativo di controllo del contesto c'è sempre la creatività, ovvero la capacità di proiettarsi nel mondo e di modificarlo.

Prendiamo ad esempio la definizione di creatività data dal Dizionario di Medicina. «Capacità potenziale della mente di cogliere i rapporti e le connessioni tra le cose […], si manifesta come abilità nel trovare soluzioni efficaci rispetto a problemi da risolvere». Una definizione che me ne fa tornare alla mente un’altra che ho letto qualche tempo fa, non ricordo più dove, secondo cui una delle prime manifestazioni di creatività dell’Homo si è verificata quando qualcuno ha avuto l’intuizione di legare una pietra affilata a un bastone di legno per farci un’ascia. La creatività quindi come l’abilità d’immaginare nelle cose una forma diversa da quella di partenza. Una virtù legata fortemente al concetto di libero arbitrio, di cui ne costituisce il fondamento: solo con la creatività è possibile intervenire nella realtà per manipolarla e smettere di subirla – come hanno sperimentato gli uomini che per primi si sono costruiti un riparo intrecciando i rami degli alberi, e poi hanno pensato di cuocere la terra per ottenere i mattoni con cui costruire le case e ancora i templi e i giardini di Ravenna. Nasce dalla creatività, insomma, ogni tentativo di razionalizzare l'ambiente circostante. Plasmarne ogni aspetto così da dargli la forma della propria comodità e limitare l’intromissione del caos.

Dopo questa lunga introduzione, possiamo finalmente parlare del Manchester City. E riconoscere che, se consideriamo la creatività come un mezzo per avere il controllo sulla realtà, e il Manchester City come la squadra di calcio che oggi più cerca e ottiene il controllo sulle variabili del gioco, allora nessuna squadra è più creativa di quella di Pep Guardiola.

Bisogna tenere presente che la volontà di controllo del City in questo caso non va misurata attraverso la quantità di possesso palla o di occasioni create. Va intesa invece come visionarietà, ambizione a penetrare nel cuore della realtà e modificarla, mettere in discussione lo status quo inseguendo continuamente un cambiamento migliorativo. Nessun allenatore contemporaneo ha una reputazione da rivoluzionario come Guardiola, eppure ciò che definisce la sua forza creativa non è tanto l’insieme delle sue innumerevoli innovazioni tattiche – il falso nove, il falso terzino, il falso centrale – quanto la natura controintuitiva di certe innovazioni: l'aver inoculato nel calcio contemporaneo l'idea paradossale per cui è meglio difendere lontano dalla propria porta (attraverso il pressing) e attaccare vicino (con la costruzione dal basso); aver sdoganato l’idea che l’equilibrio non si ottiene accostando in pari numero giocatori offensivi e difensivi, quanto giocatori che abbiano una coerenza di pensiero; aver convinto il vecchio calcio a superare le tradizionali ripartizioni delle fasi di gioco, e abbracciare l'idea che si difende bene se si attacca bene e viceversa. Sempre secondo il Dizionario della Medicina, la creatività si ha quando la capacità di cogliere le connessioni tra le cose avviene «In modo originale e inusuale rispetto al pensiero abituale o tradizionale», e insomma: nessun allenatore più di Guardiola è in grado di creare una realtà controintuitiva, contraria al senso comune.

Finora ho parlato solo della creatività di Guardiola e non di quella dei suoi giocatori. Dopotutto chi sostiene che il Manchester City è una squadra essenzialmente meccanica utilizza proprio questo argomento: se da una parte la creatività di Guardiola è incontestabile, dall'altra l'impressione è che i suoi calciatori si muovano lungo binari già tracciati, operai di una catena di montaggio organizzata dall’alto. Eppure le cose stanno in modo diverso. Le squadre di Guardiola sono note per saper leggere e dominare molte situazioni di gioco diverse, per saper vanificare ogni tentativo messo in atto dall'avversario per entrare in controllo del gioco opponendogli ogni volta una soluzione nuova, una via d’uscita inaspettata che immancabilmente riporta il controllo della situazione nelle mani della squadra di Guardiola. Un’abilità che non deriva affatto dalla conoscenza di mille e uno schemi imparati a memoria, quanto dalla capacità dei calciatori di leggere la situazione e prendere ogni volta una decisione coerente con il sistema di valori condiviso da tutti. Una capacità che deriva meno dalla memoria e più dall’educazione.

Una finta come questa di John Stones, dalla finale di FA Cup contro lo United, è un atto estremamente creativo. Situazioni come questa nelle partite del City sono così ricorrenti che forse le diamo per scontate.

Nel calcio contemporaneo, sembrerebbe che nessuna squadra valorizzi meglio del Manchester City il libero arbitrio individuale, di certo non quelle che si aggrappano disperatamente all'iniziativa del singolo per dar corpo al proprio gioco. L'uso dell'espressione "valorizzare" invece di "puntare su", in riferimento al City, non è casuale. Questo perché se nel gioco del City è evidente l'esistenza di una rete di principi condivisi, di un sistema cioè che suggerisce all’individuo la soluzione da scegliere, questo non fa altro che moltiplicare l'efficacia potenziale della scelta. Il sistema del City, insomma, è da intendere come una rete di valori che permette a tutti i compagni di pre-vedere la scelta dell’individuo e non lasciarla cadere nel vuoto. Non avrebbe alcuna efficacia un geniale passaggio filtrante di De Bruyne se nessun compagno potesse leggerlo e muoversi per riceverlo. Ecco un’altra definizione di creatività: qualcosa che moltiplica le potenzialità del gruppo.

Nel Manchester City, semmai, il problema è definire dove finisce la creatività individuale e dove comincia l’intelligenza collettiva. È un conflitto millenario: il libero arbitrio contro il determinismo; una visione della storia che assegna a ogni persona la piena padronanza del proprio destino, contro una secondo cui ogni fenomeno accade secondo rapporti di causa-effetto, come conseguenza ineluttabile di una serie di fatti avvenuti in precedenza. A marzo io stesso ho scritto un articolo intitolato Haaland è fatto di numeri in cui sostenevo che il senso del gol del norvegese «pare obbedire a un algoritmo programmato fuori dal suo corpo, più che a un intuito originato dentro». Come se i suoi gol non fossero espressione di genio individuale, ma la naturale conclusione di una catena di eventi che produce deterministicamente il gol – la costruzione della squadra che fa inesorabilmente il suo corso, il gol di Haaland contenuto in nuce già nel passaggio di Ederson per Akanji. Era una posizione provocatoria, naturalmente, eppure conteneva la chiave che svela il paradosso per cui una squadra creativa come il City viene percepita a volte come meccanica: la ripetitività dei suoi momenti straordinari. «Ciò che rende Haaland un essere apparentemente meccanico – scrivevo nel pezzo – è la precisione ripetitiva (noiosa?) con cui continua a materializzarsi sui palloni che solcano l’area in orizzontale».

L'aver reso ordinario lo straordinario, la ripetitività con cui il City produce giocate eccezionali, è la vera ragione per cui la sua forza creativa tende a essere equivocata. Il motivo è semplice: abbiamo la tendenza ad assuefarci alle cose straordinarie. L’enorme mole di passaggi filtranti visionari che il City produce in ogni partita finisce per sbiadire in una nebbia di indefinizione. Viceversa, quando una giocata geniale si realizza in un contesto solitamente piatto, è proprio l’unicità di quel gesto a farcelo apparire nitido, sublime. A farcelo ricordare, insomma. Un esempio pratico: giovedì scorso il West Ham ha vinto la Conference League giocando una partita povera di eventi, e in quel grigiore il passaggio filtrante di Lucas Paquetá che al 90’ ha mandato in porta Bowen ha brillato di una luce eccezionale. È un paradosso che Paquetá – un calciatore comunque iper-creativo, va detto – nell'opinione collettiva venga percepito come molto più creativo (estroso? visionario?) di tutti i trequartisti e le mezzali del Manchester City. Ed è un paradosso che dopo il 4-0 sul Real Madrid si sia posta tanta attenzione al lato meccanico del City, quando la partita aveva offerto decine e decine di giocate eccezionali, tra cui un filtrante sublime di De Bruyne per il primo gol di Bernardo Silva, e un altro filtrante sublime di Foden per il 4-0 di Alvarez. La frequenza con cui De Bruyne e Foden producono giocate sublimi, in sostanza, fa sì che nella percezione comune quella eccezionalità venga normalizzata, ridotta a qualcosa di ordinario. È questo un grande equivoco.

L'assist di Foden per Alvarez in Man City-Real Madrid 4-0

Non può essere davvero una colpa del sistema il fatto di mettere gli individui nelle condizioni di esprimere meglio e più spesso il loro talento. Le giocate che rivelano l’intelligenza nel leggere il gioco restano un’espressione del talento individuale, anche in sistemi codificati come quello del City, e non ha senso non riconoscere ai calciatori quel talento solo perché il sistema in cui sono inseriti li mette nelle condizioni di produrre grandi giocate molto spesso. La continuità dovrebbe essere un plusvalore, non un motivo di mortificazione. Il sistema di gioco del Manchester City, è vero, offre ai giocatori indicazioni chiare su cosa fare e cosa no, ma se questo da un lato determina una lieve limitazione della libertà individuale, dall’altro finisce per moltiplicare le potenzialità dei giocatori, creando un contesto in cui le loro caratteristiche possono esprimersi al meglio. La libertà individuale in questo senso non è limitata, tutt’altro: è valorizzata al massimo del suo potenziale.

L’idea che i sistemi di gioco disorganici, quelli cioè che addossano tutta la responsabilità creativa all’iniziativa dei singoli, rispettino di più la creatività individuale rispetto a un sistema associativo come quello del City, è frutto di un grande equivoco. In un sistema disorganico, il guizzo di genio estemporaneo è spesso contrappesato da 90 minuti in cui la capacità creativa del singolo è frustrata da compiti che limitano la fantasia. Un sistema come quello del City, invece, riesce a prendere solo il meglio dal talento individuale di ogni calciatore, valorizzando al massimo i punti di forza e nascondendo i difetti. È una rete di protezione, anche, che dà ai calciatori la fiducia di poter contare su un “kit di sopravvivenza” nei momenti di difficoltà.

Un uomo che si imbarchi in mare senza conoscere i principi della navigazione non se la caverà affidandosi solo alla creatività, allo stesso modo un calciatore che ad ogni azione deve inventarsi da zero il gioco del calcio non sta valorizzando al meglio la sua creatività. Al contrario, probabilmente ne sta sprecando una buona parte. Non è troppo intelligente inventare il fuoco ogni volta che si deve cucinare, no?


  • Salentino e studente di Architettura. È nato il 23 dicembre come Morgan, Carla Bruni e Vicente Del Bosque.

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