Cosa è andato storto nella stagione della Juventus?
Un'annata difficile come non mai per i bianconeri.
Nel ripercorrere la stagione di una squadra di calcio, è facile imbattersi prima o poi in uno o più punti di flesso. Quei nodi cruciali che segnano delle svolte in positivo o in negativo, i momenti-verità che mettono a nudo anche l’overperformance più stoica o certificano la bontà del percorso svolto, portando di conseguenza le dirigenze a riflessioni sul futuro a breve e medio termine. Tirare le somme dell'annata appena conclusa, però, è un'operazione incredibilmente complicata per la Juventus 2022/23: per la schizofrenia che ne ha caratterizzato la stagione dentro e fuori dal campo, per la difficoltà nel legare i risultati ottenuti a ciò che effettivamente si è visto sul rettangolo verde, e per la totale assenza di reazione da parte della società bianconera che fino all’altro ieri (fino al momento cioè del patteggiamento relativo al processo stipendi) è sembrata viaggiare su un binario parallelo a quello della squadra e dei tifosi.
Monza, Haifa, Napoli (con la doppia destinazione San Paolo – tribunale) e Siviglia sono solo alcune delle tappe che hanno fatto risuonare nella testa dei sostenitori bianconeri il sinistro mantra “è il giorno peggiore della tua vita finora” di simpsoniana memoria. Le premesse, ça va sans dire, erano decisamente altre. In vista del famigerato Mercato del Centenario della famiglia Agnelli, la Juve aveva deciso già nella primavera 2022 di silurare il proprio 10 Paulo Dybala, principalmente per l’incertezza nell’offrire un rinnovo sostanzioso a un giocatore fisicamente fragile e, si narra, per presunte incongruenze tattiche col nuovo corso bianconero. La mossa dell’accoppiata Maurizio Arrivabene-Federico Cherubini per sostituire l’argentino è duplice: a parametro zero arrivano Angel Di Maria e Paul Pogba, lasciati liberi da Paris Saint-Germain e Manchester United, assi portanti su cui costruire la nuova Juventus, anche se la stagione del centrocampista francese, complice una rottura del menisco gestita malissimo e altri problemi ad essa connessi, terminerà prima ancora di iniziare.
Il resto del mercato viene finanziato con il sacrificio di Matthijs de Ligt, tatticamente agli antipodi rispetto al calcio di Allegri: al posto dell’olandese arriva dal Torino Gleison Bremer, mentre Federico Gatti, già bloccato in estate, ha l’improbo compito di tamponare l’addio di Giorgio Chiellini. Completano la campagna acquisti l’MVP dell’Europa League Filip Kostic, prelevato dall’Eintracht Francoforte, Arkadiusz Milik come riserva di lusso dal Marsiglia, il rientrante Nicolò Fagioli e Leandro Paredes in prestito dal Psg, coi pari ruolo Arthur e Zakaria che vengono parcheggiati al Liverpool e al Chelsea l’ultimo giorno di mercato.
Come sottolineato nell’intervista rilasciata da Allegri a Mario Sconcerti prima della débâcle di Monza, uno dei tanti passaggi infelici della stagione, la Juventus è stata pensata per giocare col 4-3-3, con Chiesa (o Kostic in attesa del recupero dell’ex viola), Di Maria e Vlahovic in attacco, Pogba, Paredes e Rabiot in mezzo e la coppia centrale formata da Bonucci e Bremer. Un progetto tecnico chiaro ma evidentemente fallace sin dalla genesi, pieno di equivoci tattici – ignorati in sede di costruzione della rosa – che spingeranno Allegri a cambiare in corsa: Bremer, come de Ligt, non è certo un difensore da blocco basso ed è inoltre tutto da verificare nella difesa a 4; il rendimento e l’integrità fisica di Bonucci sono in caduta libera; in rosa non vi sono terzini capaci di svolgere entrambe le fasi (inspiegabile in questo senso il prestito di Cambiaso al Bologna); la condizione fisica di Pogba è un’incognita ben superiore a quella di Dybala, mentre Kostic rende al meglio da quinto di centrocampo. Se a ciò aggiungiamo l’infortunio precoce di un Di Maria mai così spesso ai box, e le difficoltà di ambientamento di Paredes, non è difficile spiegare la stagione complicata vissuta dalla Juve.
Emblematica, in questo senso, è la prima uscita stagionale, allo Stadium contro il Sassuolo: Di Maria, schierato seconda punta nel 4-4-2 (!), fatica a entrare in partita, prima del cambio modulo al 4-3-3 e allo spostamento sulla fascia destra, dove prima incanta e poi si fa male; Vlahovic ha ancora il fuoco sacro dei tempi belli e segna una doppietta, poi sul 3-0 per 40’ abbondanti la Juve si rintana in area e lascia la scena a Perin, che frustra i tentativi di rimonta del Sassuolo con interventi decisivi in serie. Seguono tre pareggi e una vittoria (contro lo Spezia), propiziati dal piede caldo di Vlahovic su palla inattiva, riassumibili con il triste meme della costruzione a cerchio messa in atto nello scialbo 0-0 contro la peggior Sampdoria degli ultimi 10 anni.
Dopo l’esordio in Champions, una sconfitta di misura col Psg in una partita che a detta di Allegri "non era una partita da vincere", arriva la serata più controversa (finora, sempre bene ricordarlo) dell’anno, la gara casalinga contro la Salernitana di Davide Nicola. Il primo tempo si chiude con un impronosticabile 0-2: Pako Mazzocchi fa girare la testa a un insolito McKennie esterno e serve Candreva per lo 0-1; poi un tocco di mano di Bremer manda Piatek dal dischetto per il raddoppio. Nel frattempo in fase offensiva la Juventus non è pervenuta. Una capocciata in mischia dello stesso Bremer dimezza lo svantaggio a inizio ripresa, poi dopo alcune occasioni sprecate nel recupero Bonucci spara su Sepe dal dischetto e segna sulla ribattuta. La partita sembra finire sul pari ma è qui che lo psicodramma si verifica: angolo di Cuadrado, Milik svetta su tutti e mette in rete, sulla traiettoria del suo colpo di testa c’è Bonucci che spinge l’arbitro ad annullare la rete dopo la revisione del VAR, nonostante ancora più basso del capitano della Juve ci sia Candreva a tenere in gioco tutti, assurdamente dimenticato nella valutazione dell’episodio. Seguono ipotesi di complotto per il “più grande errore della storia”, dubbi sull’imparzialità dei direttori di gara, classifiche parallele con i celeberrimi “due punti con la Salernitana” che rimbalzano tra il web e la bocca degli addetti ai lavori.
Si spegne il Var, ma si spegne anche la Juve. La sconfitta in casa col Benfica, ben più rotonda di quanto l’1-2 finale comunichi, complica il cammino nel girone di Champions. L’1-0 dell’U-Power Stadium contro il primo Monza di Palladino, trascinato dalla prima e ad oggi unica rete in Serie A di Christian Gytkjaer, con espulsione del rientrante Di Maria per una gomitata a Izzo, certifica una crisi dalla quale si fatica a intravedere un’uscita. Le vittorie casalinghe contro Bologna e Maccabi Haifa non certificano la guarigione della Juve, che nel giro di una settimana incassa un doppio 0-2 capace di far vacillare per la prima volta la panchina di Allegri. Prima a San Siro contro il Milan Brahim Diaz umilia Bonucci mentre Tatarusanu resta sostanzialmente inoperoso per tutta la partita, poi ad Haifa la Juve incontra una delle serate più nefaste della sua storia internazionale, crollando sotto i colpi di Omer Atzili, israeliano classe 1993 che in una sera contro la Juventus segna più gol di quelli siglati in tutti gli altri incontri di Champions League della sua carriera. Chi si aspettava una presa di posizione forte sul progetto tecnico resta deluso: a fine gara si presenta ai microfoni il presidente Andrea Agnelli il quale, con un breve monologo che col senno di poi assume connotati grotteschi, conferma la piena fiducia ad Allegri: “Non può essere colpa dell’allenatore se non riusciamo a vincere un tackle”, dice.
Timidamente, aggrappata a un 3-5-2 che se non altro ha il potere di mettere Bremer e Kostic nelle posizioni a loro congeniali, la Juventus prova a risalire. Vlahovic decide il derby della Mole prima di sparire dai radar a causa del riacutizzarsi della pubalgia, poi contro l’Empoli arriva un 4-0 meno agevole di quanto si possa pensare, propiziato dal bomber inatteso della Juve 22/23, Adrien Rabiot, un risultato importante in vista della delicatissima trasferta del Da Luz contro il Benfica. Senza Bremer, Di Maria e Paredes, oltre ai lungodegenti Pogba e Chiesa, la Juventus di Allegri pare completamente alla mercé degli avversari: Rafa Silva maramaldeggia segnando una doppietta e facendo impazzire la retroguardia bianconera, tanto che al minuto 70’ il parziale recita 4-1 per il Benfica. Senza troppe pretese, Allegri pesca dal mazzo Samuel Iling-Junior, 2003 inglese che in 20 minuti mette a ferro e fuoco la difesa dei portoghesi, propiziando le reti di Milik e McKennie che rendono meno amaro il passivo in una partita in cui la Signora si è dimostrata enormemente inadeguata al palcoscenico europeo. Iling deciderà anche la successiva trasferta, al Via del Mare contro il Lecce, servendo l’assist per il gioiello di Nicolò Fagioli, fin lì poco più che un desaparecido. Se però Fagioli di lì in avanti diventerà titolare quasi inamovibile, Iling-Junior finirà per sparire dai radar per quasi 4 mesi interi, un accantonamento non spiegabile col solo infortunio alla caviglia provocatogli da un brutale intervento di Di Francesco.
Mentre il peggior girone di Champions della storia della Juve termina con la sconfitta casalinga col PSG e un terzo posto, solo per differenza reti, che significa playoff di Europa League, in Serie A Allegri prova una rimonta che i media si affrettano a paragonare a quella del 2015/16, culminata con lo scudetto vinto ai danni del Napoli di Sarri. A cavallo con la sosta mondiale, tra novembre e gennaio, la Juventus inanella 8 vittorie consecutive senza subire gol; fiore all’occhiello di questa cavalcata è il 3-0 casalingo contro la Lazio, miglior gara stagionale in termini di intensità, pressione e concretezza, di poco sopra al 2-0 con l’Inter, maturato nel secondo tempo grazie alle reti di Rabiot e Fagioli, entrambi serviti da Kostic, l’uomo in più dell’inverno bianconero. Alle buone prove casalinghe la squadra alterna gare in trasferta zoppicanti risolte in maniera fortunosa, Cremona e Verona su tutte, e mentre i media celebrano l’ennesimo “capolavoro di Max”, più di un analista si interroga su cosa accadrà quando la componente randomica di questo sport volterà le spalle alla Juve.
A una Juve sorniona e lineare sul campo fa da contraltare un vero e proprio terremoto in società: il 28 novembre 2022 l’intero Consiglio di Amministrazione della Juventus si dimette in blocco, in risposta all’inchiesta Prisma della procura di Torino per il falso in bilancio relativo alla manovra stipendi, risalente alla stagione 2020/21. L’addio del presidente Andrea Agnelli, accompagnato dal vice Pavel Nedved e dall’ad Maurizio Arrivabene, sancisce la fine di un’era in casa bianconera; al loro posto John Elkann a gennaio nominerà Gianluca Ferrero alla presidenza e Maurizio Scanavino in qualità di Amministratore Delegato, promuovendo a responsabile dell’area sportiva Francesco Calvo, tornato in bianconero mesi prima nonostante un controverso rapporto personale proprio con Agnelli.
Tornando al campo, la prova del fuoco per la Juve è il Napoli di Luciano Spalletti, primo in classifica a 7 punti di distanza: alla penultima giornata d’andata, una vittoria bianconera riaprirebbe clamorosamente i giochi, una sconfitta porrebbe anzitempo fine alle ambizioni di scudetto della Signora. La profezia di Allegri (“Dopo la sosta non si sa cosa può succedere”) si avvera, ma nel modo più crudele possibile, dato che al San Paolo arriva la più pesante umiliazione della sua gestione. L’unico piano partita della Juve, difesa bassa e ripartenza (con il recuperato Chiesa inspiegabilmente alla prima da titolare da quinto di centrocampo), viene smantellato da un Napoli più forte e organizzato: Bremer vive una serata da incubo, Kvaratskhelia e Osimhen spuntano da tutte le parti, la mediana bianconera guidata da un Paredes spaesato viene messa sotto senza appello da quella partenopea, e alla fine della partita il tabellone recita 5-1 per il Napoli, un sonoro de profundis per i neonati sogni di gloria della Juve.
No caption needed (Getty Images)
La legge di Murphy si avventa sul barcollante pugile bianconero, ancora nelle fattezze di un martelletto da giudice: il 20 gennaio la Corte Federale d’Appello infligge alla Juventus 15 punti di penalizzazione per il caso plusvalenze, facendola precipitare dal terzo al decimo posto, 12 punti distante dalla zona Champions. Una mannaia inattesa che scatena le ire dei tifosi, tra disdette vere e presunte e l’attesa di una presa di posizione forte dalla parte della società. Nel day after la Juve impatta per 3-3 contro l’Atalanta in una partita insolitamente aggressiva e coraggiosa, ma la settimana successiva crolla nuovamente contro il Monza, che nel primo tempo dello Stadium sembra il vero padrone di casa, per l’autorità e la fluidità donatele da mister Palladino.
Lentamente, la Signora prova a rimettersi in piedi: tra febbraio e marzo in campionato la Juve centra 6 vittorie su 7 partite, unica battuta d’arresto all’Olimpico contro la Roma, recuperando Vlahovic (due gol e un assist nella “vendetta” contro la Salernitana) e togliendosi sfizi come il 4-2 nel derby col Torino e l’1-0 di San Siro contro l’Inter, che vede Kostic ancora protagonista grazie a una staffilata mancina dai richiami douglascostiani. La squadra continua a non incantare (eufemismo), affidandosi in maniera massiccia alle palle inattive per creare occasioni da gol, con Bremer e Rabiot principali protagonisti nelle aree avversarie, e faticando a proporre una manovra offensiva credibile, problema che ha come diretta conseguenza il crollo delle medie gol degli attaccanti in rosa, su tutti un Vlahovic che sembra la pallida copia di quello ammirato a Firenze. Protagonista a sorpresa è invece Federico Gatti, finito in naftalina a inizio stagione dopo un errore col Monza e ora efficace e credibile nel ruolo di vice Alex Sandro (non il più grande dei fardelli, va detto).
Gleison Bremer e Adrien Rabiot, i muscoli della Juve 2022/23 (Getty Images)
Nel frattempo, Max Allegri si trova per la prima volta in carriera a navigare nel purgatorio denominato Europa League: nei playoff (i cari vecchi sedicesimi di finale) la Juve soffre oltremodo in casa col Nantes, affidandosi a un Di Maria versione extralusso nella gara di ritorno in terra transalpina, così come negli ottavi è ancora il Fideo, con un gol di testa (!) all’andata, a indirizzare la doppia sfida col modesto Friburgo, regolato anche in Germania grazie alle parate di Szczesny e alle reti di Vlahovic e del redivivo Chiesa. La posizione di Chiesa sembra un enigma irrisolvibile per Allegri e il suo staff: troppo offensivo e “svagato” per fare il tornante di centrocampo, decisamente depotenziato nel ruolo di seconda punta, i fallimentari tentativi di 3-4-3 messi in piedi dal tecnico relegano Chiesa al ruolo di “cambio spaccapartita”, che il ragazzo e i tifosi mal digeriranno.
Se nel girone d’andata il giocattolo si era rotto di colpo nella disfatta del Maradona, il definitivo (nonché prevedibile) inabissarsi della Juventus tra aprile e maggio è lento ma inesorabile. In semifinale d’andata di Coppa Italia contro l’Inter, entrambe le squadre allo Stadium giocano a non farsi male e sembra spuntarla la Juve grazie a Cuadrado, ma nel recupero un improvvido mani di Bremer (esatto) manda dal dischetto Lukaku per l’1-1. A San Siro Dimarco punisce immediatamente una Juventus schierata con tutti gli effettivi a protezione della propria area, che presenta a sorpresa Bonucci titolare e in avanti la coppia leggera, fondamentalmente inoffensiva, Di Maria-Chiesa; la reazione bianconera di fatto non esiste, e in finale ci vanno i nerazzurri. Anche in campionato la Juve inizia a barcollare pesantemente: le sconfitte con Lazio, Sassuolo e Napoli e il pari contro l’ottimo Bologna di Thiago Motta rendono inutile la (temporanea) restituzione dei 15 punti di penalizzazione, in attesa delle nuove valutazioni.
In mezzo alle sconfitte con Sassuolo e Napoli, la Juve riesce in maniera molto rocambolesca ad avere la meglio sullo Sporting Lisbona nei quarti d’Europa League, passando allo Stadium con gol fortunoso di Gatti all’unica vera occasione e difendendo il vantaggio all’Alvalade con un secondo tempo che riscrive i confini del calcio passivo, dopo che nel primo tempo al gol di Rabiot (chiaramente su piazzato) aveva risposto Edwards su rigore. Le vittorie contro Lecce e Atalanta, propiziate dal redivivo Iling-Junior, evaso dal limbo in cui era stato inspiegabilmente confinato, mettono al sicuro (o quasi) il posto in Champions, così la Juve può concentrarsi sulla semifinale di Europa League contro il boss finale della competizione, il Siviglia vittorioso sullo United nei quarti di finale.
Federico Gatti, una delle poche note liete della stagione, festeggia il gol contro lo Sporting (Getty Images)
Con una formazione cervellotica che vede Bonucci e Alex Sandro dal 1’ e Gatti e Fagioli (“mandato al prato” dopo un paio di errori di troppo) in panchina, nel primo tempo della gara d’andata la Juve non sfrutta il fattore casalingo e lascia giocare il Siviglia, che passa con En-Nesyri e sfiora più volte il raddoppio; è la sostituzione incidentale di Bonucci, infortunatosi dopo un’ora, a permettere alla Juve di salvare faccia e partita, grazie al gol allo scadere di Gatti subentrato proprio al capitano bianconero. Stesso copione la settimana dopo al Sanchez Pizjuan: la Juventus sta a guardare, il Siviglia gioca pur senza forzare, un gol di Vlahovic sembra poter per l’ennesima volta piegare la realtà a favore della squadra di Allegri, ma le reti di Suso e, nei supplementari, di Lamela, condannano la Juve all’eliminazione contro gli andalusi che successivamente alzeranno la coppa ai danni della Roma.
Come ammetterà successivamente Allegri, la Juve 22/23 muore sostanzialmente qui, a cavallo tra il crollo di Siviglia e la nuova sentenza relativa al processo plusvalenze che assegna alla Juve una nuova penalizzazione, stavolta di 10 punti. All’umiliante prova del Castellani, un perentorio 4-1 per mano dell’Empoli di Zanetti sinistramente simile al poker incassato dal Fulham ai tempi di Zaccheroni, seguono un desolante 0-1 casalingo col Milan e una vittoria di misura sull’Udinese nell’ultima di campionato, che certifica il settimo posto in classifica della Juventus, terzo al netto dei punti di penalità.
Si chiude qui una stagione, come la precedente, senza particolari picchi positivi, con un campionato ai margini della sufficienza e un percorso europeo decisamente rivedibile. Il vero fallimento sta proprio qui: nell’appiattimento sulla mediocrità, nella perdita dell’entusiasmo e nella sensazione di vetusto e sorpassato che la squadra trasmette ogni volta che scende in campo. La rivoluzione della rosa supervisionata da Allegri ha generato, se possibile, una squadra ancor più rinunciataria di quella dello scorso anno, i cui numeri - paragonati a quelli della Juventus di Pirlo - mostrano un quadro impietoso.
La svalutazione e il depotenziamento di ogni giocatore offensivo, l’impiego di diversi calciatori in ruoli sgraditi con risultati quasi mai positivi, la comunicazione stolidamente controcorrente rispetto al calcio contemporaneo, la strumentalizzazione delle vicende extracalcistiche come alibi supremo per ogni passo falso, quando i dati certificano un rendimento molto simile tra il pre e il post penalizzazione, sono aspetti intangibili ma importanti, che allontanano sempre più la Juventus dalla sua rinascita.
Una decisa inversione a U che investa ogni ambito della squadra e della società, e che potrebbe arrivare, ma non è detto, per mano di Francesco Calvo e del possibile nuovo ds Cristiano Giuntoli, pare l’unica soluzione per arrestare la parabola discendente di una Juventus che ad oggi, come nella celebre canzone di Caparezza (non a caso intrisa di luoghi comuni), sorride mentre affoga, sostenuta da un ufficio stampa grande come l’Italia intera, pronto a difendere l’allenatore a ogni battuta d’arresto e a celebrare ogni vittoria come un’impresa titanica.
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