Il difficile accesso delle donne musulmane allo sport, intervista a Giorgia Bernardini
Abbiamo parlato con l'autrice del libro "Velata. Hijab, sport e autodeterminazione".
Velata. Hijab, sport e autodeterminazione di Giorgia Bernardini (Capovolte, 2022) è un libro importante, particolarmente consigliato per i maschi bianchi e atei. È un libro che apre nuove prospettive e permette di guardare al mondo dello sport – e al mondo in generale – da punti di vista solitamente poco esplorati e riesce a farlo scatenando nel lettore un forte senso di empatia nei confronti delle protagoniste.
Questa operazione così ben riuscita deve molto al background letterario di Giorgia Bernardini. Pur essendo un saggio dal taglio giornalistico – è figlio della newsletter Zarina e fratello del podcast Goleadora – Velata non nasce dalla tastiera di una giornalista o di una saggista, ma da quella di un'ex archeologa che per sua stessa ammissione trova la propria zona di comfort nella finzione e che, infatti, ha da poco pubblicato il suo primo romanzo, Area Piccola:
«"Area Piccola" è un romanzo che viene prima di Zarina, prima degli articoli su L'Ultimo Uomo», mi ha raccontato Bernardini quando l'ho contattata per questa intervista. «Io prima di tutto sono una scrittrice di fiction, che per un periodo si è prestata al giornalismo sportivo o alla saggistica e alla riflessione sullo sport. Chiaramente, ci sono degli elementi che si tengono in tutto quello che faccio e alla base c’è una grande riflessione generale sulle dinamiche sportive e sulle dinamiche di squadra, sulla dinamica del talento, su dove ti può portare, cosa ti spinge a fare. Area Piccola è un romanzo che ha molti elementi in sé e che si ritrovano in tutte le cose che faccio, ma è una vera e propria storia di finzione che ha un arco narrativo, molti personaggi che si incontrano, che fanno cose insieme. Insomma, questa è la forma espressiva che mi è più vicina.»
Velata, dicevamo, affronta in profondità e da molteplici punti di vista alcuni degli ostacoli che ancora oggi impediscono alle donne musulmane di praticare sport in libertà, autonomia e autodeterminazione. Lo fa in maniera discreta, rispettosa, lasciando più spazio possibile alle storie e alle loro protagoniste, che hanno come minimo comune denominatore l'intersezione tra la condizione femminile, lo sport e l'hijab – il cosiddetto velo islamico – e tutti i problemi che derivano dalla necessità e dalla volontà di fare coesistere questi tre aspetti della propria identità personale in società più o meno apertamente patriarcali, nelle quali sessismo e razzismo sono spesso istituzionalizzati.
Al centro del saggio ci sono le vite di quattro atlete musulmane che, per un motivo o per l'altro, si sono dovute scontrare con una serie di difficoltà rappresentate dall'hijab, oggetto che racchiude in pochi centimetri quadrati tutta l'essenza della loro condizione.
La prima è Ramla Ali, prima pugile a rappresentare la Somalia ai Giochi Olimpici e prima donna nella storia (insieme alla sua avversaria, la dominicana Crystal Garcia Rosa) a salire sul ring in Arabia Saudita; ma anche modella Nike e global ambassador per Cartier e Christian Dior. A Ramla segue Khalida Popal, capitana della nazionale femminile di calcio dell’Afghanistan, costretta a fuggire di nascosto, come fosse una pericolosa latitante, dal proprio paese per trovare asilo in Danimarca per aver voluto giocare a pallone e avere denunciato i predatori sessuali all’interno della Federazione, affermando il calcio come spazio di autodeterminazione per delle giovani donne afghane.
Da Kabul – anzi, da Farum, in Danimarca – Velata torna poi in Inghilterra, per la precisione a Bradford, dove è cresciuta Asma Elbadawi, giocatrice di pallacanestro, poetessa, modella e attivista sudanese-britannica, che nel 2017 è riuscita a ottenere l’abolizione del regolamento FIBA che proibiva di indossare copricapi di ogni tipo – hijab compreso – sul campo da basket; la quarta e ultima storia è quella della boxeuse italo-marocchina Hasna Bouyij, per la quale l’autrice sceglie di abbandonare il racconto da una prospettiva esterna, passando efficacemente all’intervista.
Come avrete capito, non si parla soltanto di lontane teocrazie orientali ma, principalmente, del nostro mondo, quello libero e benestante, in cui comunque vigono regolamenti, divieti e storture che rendono l'accesso allo sport complesso, faticoso e demotivante per ogni donna musulmana che voglia rispettare le sue tradizioni: «In tutti gli sport c’è questo tipo di divieto [quello di indossare l'hijab durante le competizioni ufficiali, ndr]. Il problema è che questo tipo di divieto cambia anche di nazione in nazione. Per esempio in Germania attualmente è concesso fare pugilato con l’hijab, mentre invece in Italia è ancora vietato [...]» spiega Bernardini. «Quindi sì, ti scontri continuamente con questi casi, l’hijab è solamente un esempio. Nello sport femminile ci sono tanti problemi di questo tipo, come il fatto che la nazionale femminile italiana di calcio abbia fatto richiesta di non avere il completino con i pantaloncini bianchi di default, per questioni ovviamente legate al ciclo mestruale, così come le ginnaste della nazionale norvegese che hanno fatto richiesta per gareggiare non con body striminziti che mettono in mostra il loro corpo. Insomma, lo sport femminile è pieno di questi divieti».
È importante sottolineare che Velata non vuole essere una lamentela né uno sfogo vittimistico, ma un breve compendio di esempi su come ostacoli e divieti vanno affrontati, combattuti o magari aggirati. Le storie raccontate da Bernardini sono vicende di ribellione e resilienza e, soprattutto, di autodeterminazione. Le quattro donne protagoniste ci guardano negli occhi e ci dicono a chiare parole che le questioni legate all'hijab, ai vestiti, al trucco, all'aspetto fisico, ma anche alle relazioni o alla spiritualità, siano primariamente questioni di libertà personale, di libertà di scelta, per l'appunto, di autodeterminazione e in quanto tali sono fatto politico, scontro di potere, lotte per diritti sacrosanti ma mai scontati, che hanno bisogno tanto di dibattito e spinta dal basso quanto di promozione e tutela da parte delle istituzioni:
«L’intervento da parte delle istituzioni è necessario, nel senso che lo sport – per definizione – è un gioco che ha delle regole molto definite, non solo su un piano delle regole strettamente legate al gioco (ad esempio nella pallacanestro non si può camminare con la palla in mano ma bisogna palleggiare) e quindi sicuramente l’intervento delle istituzioni è necessario per creare delle regole che siano nuove e che rendano lo sport più accessibile. Quello che dico in Velata, però, è che tutto quanto il contesto così come le regole devono essere anche le squadre, deve essere anche il pubblico, devono essere le giocatrici – tutti quanti questi elementi concorrono – per fare sì che ci siano delle migliorie.»
Questo articolo è uscito in anteprima su Catenaccio, la newsletter di Sportellate.it.
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